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su quei monti pareva sempre la vigilia di San Giovanni. Don Apollinare si sentiva scottare da tutti quei fuochi; e l’idea della calata dei Francesi, tornava ad essere per lui come un ariete di bronzo, che gli desse le gran capate nel petto. Sull’imbrunire, sempre chiudeva le finestre del presbiterio, che guardava a mezzogiorno, non volendo vedere quei monti d’amaro ricordo, coronati di quei fuochi maluriosi e maledetti: nè solo o accompagnato s’era mai più fatto sino al muricciolo, che chiudeva il sagrato da quella parte. Anzi, se gli accadeva di dover discendere di castello pei suoi affari, pigliava un sentiero a ridosso del colle, per non sentirsi in viso neanco l’aria di quelle montagne; punto badando alla natura selvaggia di quel sentiero, che pareva fatto per menare i cristiani a rovina.

Ma a mezzo luglio, venute quelle nuove schiere d’Alemanni, aveva ricominciato a tornare in essere, come un lume che in sullo spegnersi venga riempiuto d’olio. Si mise di nuovo a pigliare i suoi pasti, a dormire un po’ più tranquillo; e quando potè farlo, dopo quindici dì d’apparecchi, si condusse in casa, a banchettare, gli officiali rimasti a campo nella sua pieve.

Donna Placidia, la quale aveva così in uggia la gente d’arme, che solo a vedere l’elsa d’una spada si segnava spaurita; s’era sfogata a brontolare tutti quei giorni; e la vigilia del banchetto, pianse. Perchè il fratello aveva tirato il collo a tanti capponi, che la stia era rimasta vuota; quella stia consapevole, dove nelle sue noie essa era certa di trovare un popolo devoto, al quale volgeva la parola eloquente, quanto quella del pievano, quando parla dal pergamo ai suoi parrocchiani. Ma da quella donna che penava poco a rassegnarsi, perdonò al fratello lo strazio fatto; e badò che il desinare riuscisse a modo. Essa in cucina, essa in cantina, essa a dar in tavola le vivande, facendo da scalco, faticò per sette: paga di non essere conosciuta per sorella del pievano; perchè (questo senso d’orgoglio l’aveva), l’essere in letto ammalata