Le piacevoli notti/Notte VIII/Favola I
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FAVOLA I.
Considerava tra me stessa, valorose donne, la gran varietà di stati, ne’ quai oggidì e miseri mortali si trovano; e giudicai tra le umane creature non trovarsi il più sciagurato nè ’l più tristo, che viver poltronescamente; perciò che e poltroni per la loro dapocagine sono biasmati da tutti e dimostrati a dito, e più tosto vogliono viver in stracci e in tormenti, che dalla loro poltroneria rimuoversi: come avenne a tre gran forfantoni, la natura di quali nel processo del mio ragionare a pieno intenderete.
Dicovi adunque che nel territorio di Siena — non sono ancora passati duoi anni — si trovarono tre compagnoni giovani di età, ma vecchi ed eccellenti in ogni sorte di poltroneria, che dir o imaginar si potesse. Di quai l’uno, per esser più dedito alla gola che gli altri, chiamavasi Gordino; l’altro, perchè era da poco e infenticcio, tutti lo chiamavano Fentuzzo; il terzo, perchè aveva poco senno in zucca, si nominava Sennuccio. Trovandosi tutta tre un giorno a caso sopra un crucichio, e ragionando insieme, disse Fentuzzo: Dove tenete il camino vostro, fratelli? A cui rispose Gordino: — Io me ne vo a Roma. — E per far che? disse Fentuzzo. — Per trovare, rispose Gordino, alcuna ventura che facesse per me, acciò che io viver potessi senza affaticarmi. — E così ancor noi andemo, dissero e duoi compagni. — E quando il fosse di contento vostro, disse Sennuccio, io volontieri verrei con voi. E duoi compagni graziosamente l’accettarono; e dieronsi la fede di mai non partirsi l’uno dall’altro, sino attanto che dentro di Roma giunti non fussero. Continoando tutta tre il loro camino, e ragionando di più cose insieme, Gordino abbassò gli occhi a terra; e vide una gemma in oro, che risplendeva sì che gli abbarbagliava il viso. Ma Fentuzzo prima l’aveva dimostrata a’ duoi compagni; e Sennuccio la levò di terra; e se la pose in dito. Laonde tra loro nacque grandissima differenzia, di chi esser devesse. Gordino diceva dever esser sua, perchè fu primo a vederla. Fentuzzo — Anzi debbe toccare a me, diceva, perchè innanzi di lui ve la mostrai. — Anzi s’appartiene a me di ragione, diceva Sennuccio; perchè io la levai da terra e me la posi in dito. Dimorando adunque i sciagurati in questa contenzione, nè volendo l’uno ciedere a l’altro, vennero a i fatti; e si diedero per lo capo e per lo viso sì fatti punzoni, che quasi da ogni parte pioveva il sangue. Avenne che in quell’ora un messer Gavardo Colonna, uomo di gran maneggio e gentil’uomo romano, veniva da un suo podere, e ritornava a Roma. Gavardo, veduti dalla lunga i tre poltronzoni, e sentito il loro romore, si fermò, e stette alquanto sopra di sè, temendo forte che non fussero assassini e l’uccidessero; e più volte volse volgere la briglia al cavallo e tornar a dietro. Ma pur fatto buon coraggio e assicuratosi, seguì il suo camino; e avicinatosi a loro, li salutò, e disse: Compagnoni, che contese sono coteste che fate tra voi? Rispose Gordino: Gentil’uomo mio, il nostro contrasto è questo. Siam noi partiti dai propri alloggiamenti, e a caso si siam trovati in strada, e insieme accompagnati; e ne andiam a Roma. Onde caminando e ragionando insieme, io vidi in terra una bellissima gemma legata in oro, la quale per ogni debito di ragione devrebbe esser mia, perchè primo la vidi. — Ed io, disse Fentuzzo, primamente la dimostrai a loro; e per avergliela prima dimostrata, mi pare che più a me appartenga, che a loro. Ma Sennuccio, che non dormiva, disse: Anzi, signor mio, la gemma debbe aspettar a me, e non a loro; perciò che, senza che segno fatto mi fosse, la levai da terra, e me la posi in dito. Onde non volendo l’uno ciedere a l’altro, siamo messi in gran pericolo di morte. Intesa ch’ebbe il signor Gavardo la causa della differenzia loro, disse: Volete, compagnoni, rimettere le vostre differenzie in me, ch’io vedrò di adattarvi insieme? A cui tutta tre a una voce risposero che sì; e si diedero la fede di star a quello, che per lo gentil’uomo sarà determinato. Il gentil’uomo, veduta la lor buona intenzione, disse: Poscia che voi di commun volere v’avete messi nelle mani mie, volendo che delle differenzie vostre io sia solo diffinitore, io da voi, due sol cose richieggio: prima, che mi date la gemma nelle mani; dopo, che ciascuno da per sè s’ingegna di far alcuna opera poltronesca: e quello che in termine di quindici giorni l’averà fatta più disutile e vile, sarà della gemma vero patrone. I compagni s’accontentarono, e dierongli la gemma nelle mani; e andarono a Roma. Giunti che furono a Roma, si partirono; e uno andò in qua, e l’altro in là: procurando ciascaduno di loro fare secondo il suo potere alcuna solenne poltroneria, che fusse d’ogni laude e di perpetua memoria degna. Gordino trovò un patrone, e con quello s’accordò. Il qual, essendo un giorno in piazza, comprò alquanti fighi primari che vengono alla fine del mese di giugno; e diegli a Gordino, che li custodisse fino che andasse a casa. Gordino, che era solenne poltrone e parimente per natura molto goloso, prese uno di fighi; e, tuttavia seguendo il padrone, ascosamente a poco a poco lo mangiò. E perchè il fico assai li piacque, il poltronzone continuò il costume suo, e celatamente ne mangiò de gli altri. Continovando adunque il gaglioffone la sua golosità, finalmente in bocca ne prese uno che era oltra misura grande; e temendo che ’l patrone non se n’avedesse, a guisa di simia il pose in un cantone della bocca, e tenevala chiusa. Il patrone, voltatosi per aventura a dietro, vide Gordino, e parevagli molto gonfio nella sinistra guancia; e guatatolo meglio nel viso, vide che nel vero era gonfiato molto. E addimandatolo che cosa avesse, che così gonfio fusse, egli come mutolo nulla rispondeva. Il che vedendo, il patrone assai si maravigliò; e disse: Gordino, apri la bocca, acciò che io veda il diffetto tuo per potergli meglio rimediare. Ma il tristo, nè aprir la bocca nè parlar voleva. E quanto più il patrone si sforzava di fargli aprir la bocca, tanto maggiormente il gaglioffone stringeva e denti, e la chiudeva. Avendo il patrone fatte diverse prove per farlo aprir la bocca, e vedendo che niuna li riusciva, acciò che non gli intravenesse alcun male, lo menò in una barberia ivi vicina; e mostrollo al ciruico, così dicendo: Maestro, a questo mio servo ora è sopravenuto un accidente molto bestiale; e, come voi vedete, egli ha gonfiata la guancia di maniera, ch’egli non parla, nè può aprir la bocca. Temo che non si soffichi. Il ciruico destramente toccò la guancia; e disse a Gordino: Che senti tu, fratello? Ed egli nulla rispondeva. — Apri la bocca! Ed egli punto non si moveva. Il ciruico, vedendo non poter operare cosa alcuna con parole, mise mano a certi suoi ferri, e cominciò tentare se poteva aprirgli la bocca; ma non vi fu mai modo nè via, che ’l poltronzone volesse aprirla. Parve al ciruico che fusse una postema a poco a poco crisciuta, e che ora fusse matura e a termine di scopiare; e degli un taglio, acciò che la postema meglio si purgasse. Il poltronzone di Gordino, che aveva inteso il tutto, mai non si mosse, nè disse pur un cito; anzi, come ben fondata torre, costante rimase. Il ciruico cominciò stroppicciare la guancia, acciò che veder potesse che materia era quella che usciva fuori; ma in vece di putrefazione e marcia, usciva sangue vivo, misto col fico che con la bocca ancor stretto tenea. Il patrone, veduto il fico e considerata la poltroneria di Gordino, il fece medicare; e, risanato, il mandò in mal’ora. Fentuzzo, che in poltroneria non era inferiore a Gordino, avendo già dissipati alcuni pochi quatrini che si trovava avere, nè trovando per la sua dapocaggine persona alcuna a cui appoggiar si potesse, andava mendicando all’uscio di questo e di quello: e dormiva or sotto un portico, or sotto un altro, e alle volte alla foresta. Avenne che ’l gaglioffo una tra l’altre notti capitò in un luogo tutto rovinato; ed entratovi dentro, trovò un letamaro con un poco di paglia: sopra del quale meglio che puote col corpo in su e con le gambe sbarrate si coricò, ed oppresso dal sonno si mise a dormire. Non stette molto che si levò un forcevole vento con tanta furia di pioggia e di tempesta, che pareva che ’l mondo volesse venir a fine; nè mai rifinò tutta quella notte di piovere e lampeggiare. E perchè l’albergo era mal coperto, una gocciola di pioggia, che descendeva giù per uno pertuggio, gli percuoteva un occhio di maniera che lo destò, nè lo lasciava posare. Il tristo, per la gran poltroneria che nel suo corpo regnava, non volse mai rimoversi da quel luogo, nè schiffare il pericolo che gli avenne; anzi, perseverando nella perfida e ostinata sua volontà, lasciavasi miseramente percuotere l’occhio dalla giocciola, non altrimenti che stato fusse una dura e insensibil pietra. La giocciola, che di continovo cadeva giù del tetto e percotevali l’occhio, fu di tanta freddezza, che non venne giorno, che ’l sciagurato perse la luce dell’occhio. Levatosi Fentuzzo la mattina non molto per tempo per proveder al viver suo, trovò mancarli la vista; ma perchè pensava che sognasse, pose la mano all’occhio buono, e serrollo: e all’ora conobbe l’altro esser privo di luce. Di che oltre modo letizia ne prese: nè cosa gli poteva avenire, che più cara o più grata li fosse; perciò che si persuadeva per tal poltronesca prodezza aver vinta la gemma. Sennuccio, che menava la vita sua con non minor poltroneria che gli altri duoi, si maritò; e prese per moglie una femina, che di gaglioffaria non era a lui inferiore: e Bedovina chiamavasi. Essendo ambiduoi una sera dopo cena a sedere appresso l’uscio della casa per prendere un poco d’ora, perciò che era la stagione del caldo, disse Sennuccio alla moglie: Bedovina, chiudi l’uscio, chè ormai è ora che se n’andiam a riposare. A cui ella rispose: Chiudetelo voi. Stando amenduo in questo contrasto, nè uno nè l’altro volendo chiuder la porta, disse Sennuccio: Bedovina, voglio che faciam patto tra noi: chi sarà il primo a parlare, chiuda l’uscio. La femina, che era poltrona per natura e ostinata per costumi, accontentò. Stando Sennuccio e Bedovina nella lor poltroneria, non osavano parlare per non cadere nella pena di chiuder l’uscio. La buona femina, a cui già la festa rincresceva, e il sonno la gravava, lasciò il marito sopra una panca; e spogliatasi la gonnella, se n’andò a letto. Non stette molto, che indi passò per strada un servitore d’un gentil’uomo che andava al suo albergo: e per sorte se gli era estinto il lume che nella lanterna portava; e veduto l’uscio di quella casetta aperto, entrò dentro, e disse: là? chi è qua? Accendetemi un poco questo lume! — e niuno gli rispondeva. Andatosene il servitor più innanzi, trovò Sennuccio, che sopra la panca con gli occhi aperti posava; e addimandatolo che gli accendesse il lume, egli nulla rispose. Il servitore, che pensava Sennuccio dormisse, il prese per mano; e cominciollo crollare, dicendo: Fratello, o là, che fai? Rispondi! Ma Sennuccio, non che dormisse, ma per timore di non incorrere nella pena di chiuder l’uscio, non volse parlare. Il servitore, fattosi alquanto innanzi, vide un poco di lume che dentro d’un camerino luceva; ed entratovi dentro, non vide persona alcuna, se non Bedovina che sola nel letto giaceva; e chiamatala, e ben crollatala più volte, ella, per non cadere nella detta pena di chiuder l’uscio, non volse mai nè moversi nè parlare. Il servitore, vedendola bella e taccagnotta, nè voler parlare, pian piano se le coricò appresso; e posto la mano a gli suoi ferri ch’erano quasi arruginiti, li pose nella fucina. Ma Bedovina, nulla dicendo, ed ogni cosa dolcemente soffrendo, lasciò il giovane — tuttavia vedendo il marito — conseguire ogni suo piacere. Partito il servitore, e avuta la buona sera, Bedovina, si levò di letto: e andatasi all’uscio, trovò il marito che non dormiva; e in modo di riprensione gli disse: O bella cosa di uomo! Voi avete lasciato tutta notte l’uscio aperto, lasciando licenziosamente venir gli uomini in casa, senza fargli resistenza alcuna. Il sarebbe da darvi da bere con una scarpa rotta. Il poltronzone di Sennuccio, levatosi allora in piedi, in vece di risposta, disse: Va, chiudi l’uscio, pazzarella che tu sii; or ti ho pur io aggiunta! Tu credevi farmi chiuderlo, e tu sei rimasta ingannata. In questo modo si castigano l’ostinate! Bedovina, che si vedeva aver perduto il pegno col marito, e parimente avuta la bona sera, tosto chiuse l’uscio; e col cornuto marito se n’andò a riposare. Venuto il giorno del termine, tutta tre s’appresentarono dinanzi a Gavardo; il quale, intese le sopradette loro prodezze, e considerate le loro ragioni, non volse far giudicio, pensando che sotto la cappa del cielo non si troverebbono tre altri poltronazzi che fussero simili a loro. E, presa la gemma, la gettò in terra; dicendo: chi la prendesse, fusse sua.
Finita la piacevole favola, fu grandissima contenzione tra gli audienti. Alcuni dicevano Gordino meritar la gemma; altri Fentuzzo, e altri Sennuccio: e allegavano fortissime ragioni. Ma la Signora, che vedeva scorrere il tempo, volse che ad altro tempo la sentenzia si riservasse, e comandò che ogniuno tacesse ed Eritrea con l’enimma l’ordine seguisse; la quale tutta festevole e ridente così disse.
Ne l’onde salse in questa nostra parte,
Sopra d’un pal l’augel di vista adorno
Tutto ’l dì posa; ed indi mai si parte,
Mirando e pesci che nuotano il giorno.
E veggendone un buono, sta in disparte,
Meglio aspettando e riguardando intorno.
Giunge dopo la sera, — o bella pruova! —
Di vermi mangia, che nel fango trova.
L’enimma da Eritrea recitato a tutti sommamente piacque: e niuno l’intese, salvo che ’l Bembo; il quale disse esser un uccello molto codardo, nomato perdigiornata: e ne’ luoghi paludosi solamente abita, perciò che si pasce di carogne; e tanta è la poltroneria sua, che tutto ’l dì posa sopra un palo, e vagheggia e pesci che passano: e vedendone un grande, non si muove, ma lascialo passare, aspettandone uno maggiore; e così dalla mattina fino alla sera se ne sta senza mangiare: e continovando sopraggiunge la notte: e incalciato dalla fame, scende giù nel fango, e va per la palude cercando e vermi; e di quelli si pasce. Eritrea, udita e intesa la dotta isposizione del suo enimma, ancor che noiosa le fusse, pur s’acquetò; aspettando luogo e tempo di rendergli il cambio. Cateruzza, che vedeva l’enimma esser già venuto al fine, non volse altro comandamento aspettare; ma schiaritasi la voce alquanto, in tal guisa disse.