Le piacevoli notti/Notte VII/Favola III
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FAVOLA III.
La favola, graziose e amorevoli donne, da Fiordiana ingeniosamente raccontata, vi ha dato materia di spargere qualche lagrima, per esser stata pietosa; ma perchè questo luoco è più tosto luogo di ridere che di piagnere, ho determinato dirne una, la qual spero vi sarà di non poco piacere; perciò che intenderete le buffonarie fatte da uno Bresciano, il qual, credendosi a Roma divenir ricco, in povertà e in miseria finì la vita sua.
Nella città di Brescia, posta nella provincia di Lombardia, fu già un buffone, Cimarosto per nome chiamato: uomo molto astuto, ma a’ Bresciani poco grato, sì perchè egli era dedito all’avarizia, devoratrice di tutte le cose, sì anco perchè egli era Bresciano, e niun profeta è ricevuto nella propria patria. Vedendo Cimarosto non avere il convenevole precio che li pareva per le sue facezie meritare, tra se stesso molto si sdegnò; e senza far sapere ad alcuno il voler suo, di Brescia si partì, e verso Roma prese il camino, pensando di acquistare gran quantità de danari: ma non gli andò fatto com’era il desiderio suo, perciò che la città di Roma non vuole pecora senza lana. Trovavasi in quei tempi in Roma sommo pontefice Leone, di nazione Alemana; il quale, quantunque scienziato fosse, pur alle volte e di buffonarie e di altri simili piaceri, come fanno e gran Signori, molto si dilettava: ma pochi, anzi niuno era guidardonato da lui. Cimarosto, non avendo conoscenza d’alcuno in Roma, nè sapendo in qual guisa farsi a papa Leone conoscere, determinò di andare personalmente a lui e dimostrargli le sue virtù. E andatosene al palazzo di San Pietro, dove il papa faceva la residenza, trovò nella prima entrata un camariere assai robusto, con barba nera e folta; il qual gli disse: E dove vai tu? E postali la mano nel petto, lo ribattè in dietro. Cimarosto, vedendo la turbata ciera del cameriere, con umil voce disse: Deh, fratello mio, non m’impedir l’entrata, perciò che ho da ragionar col papa cose importantissime. Disse il cameriere: Parteti di qua per lo tuo meglio; se non, tu troverai cose che non ti piaceranno. Cimarosto pur instava d’entrare, affermando tuttavia di aver cose importantissime da ragionare. Intendendo il camariere la cosa esser di molta importanza, pensò tra sè ch’egli dovesse dal papa esser sommamente guidardonato; e pattiggiò con lui, se libera l’entrata voleva. E la lor convenzione fu questa, che ’l Cimarosto desse al cameriere nel suo ritorno dal papa la metà di quello che gli fia concesso. Il che di fare Cimarosto largamente promise. Ed andato più oltre, Cimarosto entrò nella seconda camera, alla cui custodia dimorava un giovane assai mansueto; il quale, levatosi da sedere, ci li fe’ incontro, e disse: Che addimandi tu, compagnone? A cui rispose Cimarosto: Io vorrei parlar col papa. Disse il giovane: Ora non se gli può parlare, perciò che ad altri negozii egli è occupato: e sallo Iddio quando fia il tempo comodo di poterli parlare. Disse Cimarosto: Deh, non mi tener a bada; perciò che troppo sono importanti le cose che raccontargli intendo. Il giovane, udite cotai parole, pensò quello istesso che l’altro camariere imaginato s’aveva; e dissegli: Se tu vuoi entrare, voglio la metà di tutto quello che il papa ti concederà. Il che di fare Cimarosto liberamente rispose. Entrato adunque Cimarosto nella sontuosa camera del papa, vidde un vescovo tedesco, che stava discosto dal papa in un cantone; ed accostatosi a lui, si mise seco a ragionare. Il vescovo, che non aveva l’italiano idioma, ora tedesco ora latino parlava; e Cimarosto, fingendo di parlar tedesco, sì come e buffoni fanno, ciò che in bocca gli venea, respondeva. E di tal maniera erano le loro parole, che nè l’uno nè l’altro non intendeva quello si dicesse. Il papa, che era alquanto occupato con un cardinale, disse al cardinale: Odi tu che odo io? — Beatissimo padre, sì, rispose il cardinale. Ed avedutosi il papa, che ogni linguaggio ottimamente sapea, del burlo che faceva Cimarosto al vescovo, rise e gran piacere ne prese. E fingendo di ragionar col cardinale, acciò che la cosa più in lungo si traesse, gli voltò le spalle. Avendo adunque Cimarosto e il vescovo per gran spazio con grandissimo piacer del papa contrastato insieme, nè intendendo l’uno e l’altro il suo linguaggio, finalmente disse Cimarosto latinamente al vescovo: Di qual città sete voi? A cui rispose il vescovo: Io sono della città di Nona. All’ora disse Cimarosto: Monsignor mio, non è maraviglia se voi non intendevate il parlar mio, nè io il vostro; perciò che, se voi sete da Nona, e io sono da compieta. Sentita il papa la pronta e arguta risposta, si mise col cardinale in sì fatto riso, che quasi si smassellava. E chiamatolo a sè, l’addimandò chi egli era, e di dove venea, e che andava facendo. Cimarosto, prostrato a terra e basciato il piede al santo padre, rispose esser Bresciano, e nominarsi Cimarosto, e esser venuto da Brescia a lui per ottenere una grazia da sua santità. Disse il papa: Addimanda quel che vuoi. — Io, rispose Cimarosto, altro non voglio da vostra beatitudine, se non venticinque staffilate, e delle migliori. Il papa, udendo la sciocca dimanda, molto si maravigliò, e assai se ne rise. Ma pur Cimarosto fortemente instava che la grazia li fosse concessa. Il papa, vedendolo persistere in cotal suo volere, e conoscendo lui dir da dovero, fece chiamare un robustissimo giovane, ed ordinòli che in presenza sua gli desse venticinque buone staffilate per suo amore. Il giovane, ubedientissimo al papa, fece spogliar Cimarosto nudo come nacque; e preso un sodo staffile in mano, voleva essequire il comandamento impostoli dal papa. Ma Cimarosto con chiara voce, disse: Fermati, giovane, e non mi battere. Il papa, veggendo la pazzia di costui, e non sapendo il termine, scopiava dalle molte risa; e comandò al giovane che si fermasse. Fermatosi il giovane, Cimarosto così ignudo s’inginocchiò dinanzi al papa, e con calde lagrime disse: Non è cosa, beatissimo padre, al mondo, che più dispiacqua a Iddio, che la rotta fede. Io per me voglio mantenerla, pur che vostra santità non sia manchevole. Io contra mia voglia promisi a duo di vostri camerieri la metà di quello che da vostra santità mi sarà concesso. Io richiesi venticinque staffilate buone, e voi per vostra innata umanità e cortesia concesse me l’avete. Voi adunque per nome mio farete dar dodeci staffilate e mezza ad uno cameriere, e dodeci e mezza all’altro; e così facendo, voi adempirete l’addimanda mia, ed io la lor promessa. Il papa, che non intendeva il fine della cosa, disse: E che vuoi per questo dire? All’ora disse Cimarosto: Se io, santissimo padre, volsi qua entro entrare ed a vostra beatitudine appresentarmi, forza mi fu contro ogni mio volere pattiggiare con duo di camerieri vostri, e con giuramento promettergli la metà di quello che voi mi concederete. Onde, non volendo mancare della promessa fede, mi è forza di dare a ciascun di loro la parte sua, e io ne rimarrò senza. Il papa, intesa la cosa, assai si risentì; e fatti e camerieri a sè venire, ordinò che si spogliassino e, secondo che Cimarosto promesso l’aveva, fussero battuti. Il che fu subito essequito. Ed avendo il giovane a ciascuno di lor duo date dodeci staffilate, e mancandone una al numero di venticinque, ordinò il papa che l’ultimo ne avesse tredeci. Ma Cimarosto disse: Non bene si conviene, perciò che egli arrebbe più di quello che io li promisi. — Ma come si farà? disse il papa. Rispose Cimarosto: Fategli legare ambiduo sopra una tavola, uno appresso l’altro con le rene in su; ed il giovane gliene darà una buona, che accingherà indifferentemente l’uno e l’altro, e così ciascuno ugualmente arra la parte sua, e io ne rimarrò libero. Partito Cimarosto dal papa senza rimunerazione alcuna, fu per le sue pronte risposte dalle persone circondato. Ed avicinatosi a lui un prelato che era buon compagno, disse: Che è qui da nuovo? E prestamente Cimarosto rispose: Non altro, salvo che dimane si criderà la pace. Il prelato, che creder no’l poteva, nè ragion vi era che creder lo dovesse, disse a Cimarosto: Tu non sai quel che tu ti dici, perciò che egli è tanto tempo che ’l papa e Franza guerreggiano insieme, nè mai si ha sentita parola di pace. E fatto lungo contrasto insieme, disse Cimarosto al prelato: Messere, volete che vada un godimento tra noi, che dimani si griderà la pace? — Sì, rispose il prelato. Ed in presenzia di testimoni misero dieci fiorini per uno a godere insieme. Partitosi il prelato con animo di far gozzaviglia a costo di Cimarosto, allegramente se n’andava. Ma Cimarosto, che non dormiva, andò al suo alloggiamento; e trovato il patrone in casa, disse: Patrone, io vorrei da voi uno piacere, che sarà utile e di diletto. — E che vuoi? disse il patrone. Non sai che mi puoi comandare? — Io, disse Cimarosto, non voglio altro da voi, se non che la moglie vostra dimani si vesti di quelle armi antiche che sono nella camera vostra; nè dubitate punto di male, nè di disonore alcuno: e poi lasciate la cura a me. Aveva la moglie del patrone nome Pace, e l’armature da uomo di arme erano sì ruginose e di sì gran peso, che un uomo, quantunque gagliardo fosse, sendo in terra steso, levar non si potrebbe. Il patrone, che era festevole e molto attrattivo, conosceva Cimarosto pieno di berte; e però di tal cosa volse compiacergli. Venuto il dì sequente, il patrone fece la moglie di tutte quelle armi vestire, e così armata, la fece in terra nella sua camera distendere; poi disse alla donna: Levati su in piedi; ed ella più volte si sforzò di levarsi: ma muoversi non si puotea. Cimarosto, vedendo che la cosa gli riusciva sì come desiderava, disse al patrone: Partiansi di qua; e chiuso l’uscio della camera che guardava sopra la strada publica, si partirono. La moglie del patrone, vedendosi chiusa sola in camera, e non potendosi movere, grandemente temette di qualche sinistro caso, e ad alta voce si mise a gridare. La vicinanza, sentendo il gran grido e il suono delle armi, corse a casa dell’oste. Cimarosto, udito il tumulto degli uomini e delle donne che vi erano concorsi, disse al patrone: Non vi movete, nè parlate; ma lasciate il carico a me, che presto goderemo. E sceso giù per la scala, andò sopra la strada, e addimandò questo e quello: Chi è colui che sì fortemente grida? E tutti ad una voce rispondeano: Non odi tu che grida la Pace? E fattosi replicare e treplicar tal detto, chiamò molti testimoni della gridata pace. Passata l’ora di compieta, venne il prelato; e disse: Tu hai pur perso, fratello, il godimento. Non è già fin ora sta’ gridata la pace. — Anzi sì, rispose Cimarosto. E tra loro fu grandissimo contrasto; e fu bisogno ch’un giudice la causa determinasse. Il quale, udite le ragioni di l’una parte e l’altra, e uditi e testimoni che apertamente deponevano tutta la vicinanza aver sentito gridar la pace, sentenziò il prelato a pagare il godimento. Non passarono due giorni, che Cimarosto, andando per la città, s’incontrò in una donna romana ricchissima, ma sozza come il demonio. Costei era maritata in un bellissimo giovane; e di tal matrimonio ogniuno si maravigliava. Avenne che all’ora a caso passò un’asinella; e a lei voltatosi, Cimarosto disse: poverella, se tu avessi danari assai come ha costei, tu ti maritaresti. Il che intendendo, un gentiluomo, che della sozza donna era parente, prese un bastone, e sopra la testa gli diede sì fatta percossa, che per mani e per piedi a casa dell’oste lo portarono. Il cirugio, per poterlo meglio medicare, gli fece rader la testa. Gli amici che venevano a visitarlo, dicevano: Cimarosto, come stai? Tu sei raso? Ed egli diceva: Deh, tacete per vostra fè, e non mi date noia; che se raso o damaschino io fosse, io valerei un fiorino il braccio, che ora nulla vaglio. Venuta poi l’ultima ora della sua vita, venne il sacerdote per dargli l’ultima unzione, e cominciollo ungere; e venuto con l’unzione ai piedi, disse Cimarosto: Deh! messer, non mi ungete più. Non vedete voi come presto vado e leggermente corro? I circostanti, udendo questo, si misero a ridere; e Cimarosto così buffoneggiando in quel punto se ne morì: e in tal guisa egli con le sue buffonarie ebbe miserabil fine.
La favola da Lodovica raccontata era già venuta al fine, quando la Signora le impose che con un dotto enimma l’ordine seguisse. La qual con lieto viso e chiara faccia così disse:
Vecchio già fui per tempo; e quando nacqui,
Fui da mia madre maschio procreato.
Molti giorni nell’acque fredde giacqui;
Indi poi tratto fuor, martiriggiato.
Cotto già fui; e quando all’uomo piacqui.
Col ferro m’ebbe ancor tutto squarciato.
Da indi in qua al servir fui sempre buono.
Ditemi, se ’l sapete, chi ch’io sono.
Non picciola ammirazione porse il sottil enimma all’onorevole compagnia; nè vi fu veruno che interpretare lo sapesse. Ma la prudente Lodovica, vedendolo irresolubile rimanere, alquanto sorridendo disse: Non già ch’io sia bramosa d’ensignare ad altri: ma per non tenere sì fatto collegio tanto tempo a bada, isponerò l’enimma da me recitato. Il qual, se io non erro, altro non ci dimostra, eccetto il lino. Imperciò che egli dalla madre, ciò è dalla terra, è maschio procreato; dopò messo nelle fredde e correnti acque a macerare, indi cotto dal sole e posto in calda, è col maglio fieramente battuto; e finalmente col ferro, ciò è con la spolla e con la spinazza, tutto dilaniato e squarciato. Piacque ad ogni uno la isposizione dello enimma, e dotta la riputorono. Ma Lionora, che le sedeva appresso, fatta la convenevole riverenza, in tal maniera la sua favola incominciò.