Le piacevoli notti/Notte II/Favola II
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FAVOLA II.
Io non avrei mai creduto, valorose donne, nè pur imaginato che la Signora mi avesse dato carico di dover favoleggiare: e massimamente toccando la volta alla signora Fiordiana, avenutale per sorte. Ma poscia che a sua altezza così piace, ed è di contentamento di tutti, io mi sforzerò di raccontare cosa che vi sia di sodisfacimento. E se per aventura il mio ragionare, che Iddio non voglia, vi fosse noioso, o che passasse di onestà il termine, mi averete per iscuso, e incolparete la signora Fiordiana, la quale di tal cosa n’è stata cagione.
In Bologna, nobilissima città di Lombardia, madre de’ studi e accomodata di tutte le cose che si convengono, ritrovavasi uno scolare, gentiluomo cretense, il cui nome era Filenio Sistema, giovine leggiadro e amorevole. Avenne che in Bologna si fece una bella e magnifica festa, alla quale furono invitate molte donne della città e delle più belle; e vi concorsero molti gentiluomini bolognesi e scolari, tra’ quali vi era Filenio. Costui, sì come è usanza de’ giovani, vagheggiando ora l’una ed ora l’altra donna, e tutte molto piacendoli, dispose al tutto volere carolare con una di esse loro. Ed accostatosi ad una che Emerenziana si chiamava, moglie di messer Lamberto Bentivoglio, la chiese in ballo. Ed ella, che era gentile e non men ardita che bella, non lo rifiutò. Filenio adunque, con lento passo menando il ballo e alle volte stringendole la mano, con bassa voce così le disse: Valorosa donna, tanta è la bellezza vostra, che senza alcun fallo quella trapassa ogni altra che io vedessi giamai. E non vi è donna veruna a cui cotanto amore io porti, quanto alla vostra altezza; la quale se mi corrisponderà nell’amore, terrommi il più contento e il più felice uomo che si truovi al mondo; ma, altrimenti facendo, tosto vedrammi di vita privo, ed ella ne sarà stata della mia morte cagione. Amandovi adunque io, Signora mia, com’io fo ed è il debito mio, voi mi prenderete per vostro servo, disponendo e di me e delle cose mie, quantunque picciole siano, come delle vostre proprie. E grazia maggiore dal cielo ricevere non potrei, che di venire suggetto a tanta donna, la quale come uccello mi ha preso nell’amorosa pania. Emerenziana, che attentamente ascoltate aveva le dolci e graziose parole, come persona prudente, finse di non aver orecchie, e nulla rispose. Finito il ballo e andatasi Emerenziana a sedere, il giovane Filenio prese un’altra matrona per mano, e con esso lei cominciò ballare; nè appena egli aveva principiata la danza, che con lei si mise in tal maniera a parlare: Certo non fa mestieri, gentilissima madonna, che io con parole vi dimostri quanto e quale sia il fervido amore che io vi porto e porterò, fin che questo spirito vitale reggerà queste deboli membra e infelici ossa. E felice, anzi beato mi terrei, all’ora quando io vi avessi per mia patrona, anzi singolar signora. Amandovi adunque io sì come io vi amo, ed essendo io vostro, sì come voi agevolmente potete intendere, non arrete a sdegno di ricevermi per vostro umilissimo servitore, perciò che ogni mio bene e ogni mia vita da voi e non altronde dipende. La giovane donna, che Pantemia si chiamava, quantunque intendesse il tutto, non però li rispose, ma la danza onestamente seguì; e, finito il ballo, sorridendo alquanto si puose con le altre a sedere. Non stette molto, che lo innamorato Filenio prese la terza per mano: la più gentile, la più graziata e la più bella donna che in Bologna allora si trovasse, e con esso lei cominciò menare una danza, facendosi far calle a coloro che s’appressavano per rimirarla; e innanzi che si terminasse il ballo, egli le disse tai parole: Onestissima madonna, forse io parerò non poco prosontuoso scoprendovi ora il celato amore che io vi portai e ora porto; ma non incolpate me, ma la vostra bellezza, la quale a ciascaduna altra donna vi fa superiore, e me come vostro mancipio tene. Taccio ora i vostri laudevoli costumi; taccio le egregie e ammirabili vostre virtù, le quali sono tante e tali, che hanno forza di far discendere giù d’alto cielo i superni Dei. Se adunque la vostra bellezza, accolta per natura e non per arte, aggradisce agli immortali Dei, non è maraviglia se quella mi stringe ad amarvi e tenervi chiusa nelle viscere del mio cuore. Pregovi adunque, gentil Signora mia, unico refrigerio della mia vita, che abbiate caro colui che per voi mille volte al giorno more. Il che facendo, io riputerò aver la vita per voi, alla cui grazia mi raccomando. La bella donna, che Simforosia si appellava, avendo ottimamente intese le care e dolci parole che dal fuocoso cuore di Filenio uscivano, non puote alcuno sospiretto nascondere; ma pur considerando l’onor suo e che era maritata, niuna risposta li diede; ma, finito il ballo, se ne andò al suo luogo a sedere. Essendo tutta tre una appresso l’altra, quasi in cerchio, a sedere, ed intertenendosi in piacevoli ragionamenti, Emerenziana, moglie di messer Lamberto, non già a fine di male, ma burlando, disse alle due compagne: Donne mie care, non vi ho io da raccontare una piacevolezza che mi è avvenuta oggi? — E che? dissero le compagne. — Io, disse Emerenziana, mi ho trovato, carolando, uno innamorato: il più bello, il più leggiadro e il più gentile che si possa trovare. Il quale dice esser sì acceso di me per la mia bellezza, che nè giorno nè notte non trova riposo; — e puntalmente le raccontò tutto ciò che egli le aveva detto. Il che intendendo, Pantemia e Simforosia dissero quello medesimo esser avenuto a loro; e dalla festa non si partirono, che agevolmente conobbero uno istesso esser stato colui che con tutta tre aveva fatto l’amore. Il perchè chiaramente compresero che quelle parole dello innamorato non da fede amorosa, ma da folle e fittizio amore procedevano, e a sue parole prestarono quella credenza che prestare si suole a sogni degli infermi o a fola de romanzi. Ed indi non si partirono, che tutte tre concordi si dierono la fede di operare sì che ciascheduna di loro da per sè li farebbe una beffa, e di tal sorte, che l’innamorato si ricorderebbe sempre che anche le donne sanno beffare. Continovando adunque Filenio in far l’amore quando con una, quando con l’altra, e vedendo che ciascheduna di loro faceva sembiante di volerli bene, si mise in cuore, se possibile era, di ottenere da ciascheduna di loro l’ultimo frutto d’amore; ma non li venne fatto sì come egli bramava ed era il desiderio suo, perciò che fu perturbato ogni suo disegno. Emerenziana, che non poteva sofferire il fittizio amore del sciocco scolare, chiamò una sua fanticella assai piacevoletta e bella, e le impose che ella dovesse con bel modo parlare con Filenio e isponerli lo amore che sua madonna li porta: e, quando li fusse a piacere, ella una notte vorrebbe esser con esso lui in la propia casa. Il che intendendo, Filenio si allegrò, e disse alla fante: Va, e ritorna a casa, e raccomandami a tua madonna, e dille da parte mia che questa sera la mi aspetti, già che ’l marito suo non alberga in casa. In questo mezzo Emerenziana fece raccogliere molti fascicoli di pongenti spine, e posele sotto la littiera dove la notte giaceva, e stette ad aspettare che lo amante venisse. Venuta la notte, Filenio prese la spada, e soletto se n’andò alla casa della sua nemica; e, datole il segno, fu tostamente aperto. E dopo che ebbero insieme ragionato alquanto e lautamente cenato, ambeduo andorono in camera per riposare. Filenio appena si aveva spogliato per girsene al letto, che sopragiunse messer Lamberto, suo marito. Il che intendendo, la donna finse di smarrirsi: e, non sapendo dove l’amante nascondere, gli ordinò che sotto il letto se n’andasse. Filenio, veggendo il pericolo suo e della donna, senza mettersi alcun vestimento in dosso, ma solo con la camiscia, corse sotto la littiera: e così fieramente si punse, che non era parte veruna del suo corpo, cominciando dal capo insino a’ piedi, che non gittasse sangue. E quanto più egli in quel scuro voleva difendersi dalle spine, tanto maggiormente si pungeva: e non ardiva gridare, acciò che messer Lamberto non lo udisse e uccidesse. Io lascio considerare a voi a che termine quella notte si ritrovasse il miserello; il quale poco mancò che senza la coda non restasse, sì come era rimasto senza favella. Venuto il giorno, e partitosi il marito di casa, il povero scolare meglio che egli puote si rivestì, e così sanguinoso a casa se ne tornò, e stette con non picciolo spavento di morte. Ma curato diligentemente dal medico, si riebbe, e ricuperò la pristina salute. Non passorono molti giorni, che Filenio seguì lo suo innamoramento facendo l’amore con le altre due: cioè con Pantemia e Simforosia; e tanto fece, che ebbe agio di parlare una sera con Pantemia: alla quale raccontò i suoi lunghi affanni e continovi tormenti, e pregolla di lui pietà avere dovesse. L’astuta Pantemia, fingendo averli compassione, si iscusava di non aver il modo di poterlo accontentare; ma pur al fine, vinta da’ suoi dolci preghi e cocenti sospiri, lo introdusse in casa. Ed essendo già spogliato per andarsene a letto con esso lei, Pantemia li comandò che andasse nel camerino ivi vicino, ove ella teneva le sue acque nanfe e profumate, e che prima molto bene si profumasse, e poi se n’andasse al letto. Il scolare, non s’avedendo dell’astuzia della malvagia donna, entrò nel camerino; e, posto il piede sopra una tavola diffitta dal travicello che la sosteneva, senza potersi ritenere, insieme con la tavola cadè giù in uno magazino terreno, nel quale alcuni mercatanti tenevano bambaia e lane. E quantunque di alto cadesse, niuno però male si fece nella caduta. Ritrovandosi adunque il scolare in quello oscuro luogo, cominciò brancolare, se scala o uscio trovasse; ma nulla trovando, maladiceva l’ora e ’l punto che Pantemia conosciuta aveva. Venuta l’aurora, e tardi accortosi il miserello dello inganno della donna, vide in una parte del magazino certe fissure nelle mura che alquanto rendevano di luce; e, per essere antiche e gramose di fastidiosa muffa, egli cominciò con maravigliosa forza cavare le pietre dove men forti parevano, e tanto cavò, che egli fece un pertugio sì grande, che per quello fuori se ne uscì. E trovandosi in una calle non molto lontano dalla publica strada, così scalzo e in camiscia prese lo camino verso il suo albergo, e, senza esser d’alcuno conosciuto, entrò in casa. Simforosia, che già aveva intesa l’una e l’altra beffa fatta a Filenio, s’ingegnò di farli la terza, non minore delle due. E cominciollo con la coda dell’occhio, quando ella lo vedeva, guatare, dimostrandoli che ella si consumava per lui. Il scolare, già domenticato delle passate ingiurie, cominciò passeggiare dinanzi la casa di costei, facendo il passionato. Simforosia, avedendosi lui esser già del suo amore oltre misura acceso, li mandò per una vecchiarella una lettera, per la quale li dimostrò che egli con la sua bellezza e gentil costumi l’aveva sì fieramente presa e legata, che ella non trovava riposo nè dí nè notte: e perciò, quando a lui fusse a grado, ella desiderava, più che ogni altra cosa, di poter con esso lui favellare. Filenio, presa la lettera e inteso il tenore, e non considerato l’inganno, e smemorato delle passate ingiurie, fu il più lieto e consolato uomo che mai si trovasse. E, presa la carta e la penna, le rispose che, se ella lo amava e sentiva per lui tormento, che era ben contracangiato, perciò che egli più amava lei che ella lui, e ad ogni ora, che a lei ci paresse, egli era a’ suoi servigi e comandi. Letta la risposta e trovata la opportunità del tempo, Simforosia lo fece venire in casa, e, dopo molti finti sospiri, li disse: Filenio mio, non so qual altro, che tu, mi avesse mai condotta a questo passo, al quale condotta mi hai. Imperciò che la tua bellezza, la tua leggiadria e il tuo parlare mi ha posto tal fuoco nell’anima, che come secco legno mi sento abbrusciare. Il che sentendo, il scolare teneva per certo che ella tutta si struggesse per suo amore. Dimorando adunque il cattivello con Simforosia in dolci e dilettevoli ragionamenti, e parendogli omai ora di andarsene a letto e coricarsi a lato lei, disse Simforosia: Anima mia dolce, innanzi che noi andiamo a letto, mi pare convenevole cosa che noi si riconfortiamo alquanto; — e, presolo per la mano, lo condusse in uno camerino ivi vicino, dove era una tavola apparecchiata con preziosi confetti e ottimi vini. Aveva la sagace donna alloppiato il vino per far che egli s’addormentasse fino a certo tempo. Filenio prese il nappo e lo empì di quel vino, e, non avedendosi dell’inganno, intieramente lo bevè. Restaurati li spiriti, e bagnatosi con acqua nanfa e ben profumatosi, se n’andò a letto. Non stette guari, che il liquore operò la sua virtù, e il giovane sì profondamente s’addormentò, che ’l grave tuono delle artigliarie e di ogni altro gran strepito malagevolmente destato l’arebbe. Laonde Simforosia, vedendo che egli dirottamente dormiva e il liquore la sua operazione ottimamente dimostrava, si partì, e chiamò una sua fante giovane e gagliarda che del fatto era consapevole, e amendue per le mani e per li piedi presero il scolare, e, chetamente aperto l’uscio, lo misero sopra la strada, tanto lungi da casa, quanto sarebbe un buon tratto di pietra. Era circa un’ora innanzi che spuntasse l’aurora, quando il liquore perde la sua virtù e il miserello si destò: e, credendo egli esser a lato di Simforosia, si trovò scalzo e in camiscia e semimorto da freddo giacere sopra la nuda terra. Il poverello, quasi perduto delle braccia e delle gambe, a pena si puote levar in piedi; ma pur con gran malagevolezza levatosi, e non potendo quasi affermarsi in piedi, meglio che egli puote e seppe, senza esser d’alcuno veduto, al suo albergo ritornò, e alla sua salute provedè. E se non fusse stata la giovenezza che lo aiutò, certamente egli sarebbe rimaso attratto de nervi. Filenio, ritornato sano e nell’esser che era prima, chiuse dentro del petto le passate ingiurie: e, senza mostrarsi crucciato e di portarle odio, finse che egli era di tutta tre vie più innamorato che prima, e quando l’una e quando l’altra vagheggiava. Ed elle, non avedendosi del mal animo che egli avea contra loro, ne prendevano trastullo, facendoli quel viso allegro e quella benigna e graziosa ciera che ad uno vero innamorato far si suole. Il giovane, che era alquanto sdignosetto, più volte volse giocare di mano e signarle la faccia; ma come savio considerò la grandezza delle donne, e che vergognosa cosa li sarebbe stata a percuotere tre feminelle, e raffrenossi. Pensava adunque e ripensava il giovane qual via in vendicarsi tener dovesse, e, non sovenendogli alcuna, molto fra se stesso si ramaricava. Avenne, dopo molto spazio di tempo, che il giovane s’imaginò di far cosa per la quale al suo desiderio agevolmente sodisfar potesse; e, sì come gli venne nell’animo, così la fortuna fulli favorevole. Aveva Filenio in Bologna a pigione uno bellissimo palagio, il quale era ornato d’un’ampia sala e di polite camere. Egli determinò di far una superba e onorata festa, e invitare molte donne, tra quali vi fussero ancora Emerenziana, Pantemia e Simforosia. Fatto l’invito e accettato, e venuto il giorno dell’onorevol festa, tutta tre le donne, poco savie, senza pensar più oltre, se n’andarono. Essendo l’ora di rinfrescar le donne con recenti vini e preziosi confetti, l’astuto giovane prese le tre innamorate per mano, e con molta piacevolezza le menò in una camera, pregandole che si rinfrescasseno alquanto. Venute adunque le pazze e sciocche tre donne in camera, il giovane chiuse l’uscio della camera, e, andatosene a loro, disse: Ora, malvagie femine, è venuto il tempo che io mi vendicherò di voi e farovvi portare la pena dell’ingiuria fattami per lo mio grande amore. Le donne, udendo queste parole, rimasero più morte che vive, e cominciorono ramaricarsi molto d’aver altrui offeso; e, appresso questo, maladicevano loro medesime che troppo si avevano fidate in colui che odiare dovevano. Il scolare con turbato e minaccevole viso comandò che, per quanto caro avevano la vita loro, tutta tre ignude si spogliassino. Il che intendendo, le ghiottoncelle si guatarono l’una con l’altra, e dirottamente cominciorono a piangere: pregandolo, non già per loro amore, ma per sua cortesia e innata umanità, l’onor suo riservato le fusse. Il giovane, che dentro di sè tutto godeva, in ciò le fu molto cortese: non volse però che nel suo conspetto vestite rimanessero. Le donne, gittatesi a’ piedi del scolare, con pietose lagrime umilmente lo pregorono licenziare le dovesse, e che di sì grave scorno non fusse cagione. Ma egli, che già fatto aveva di diamante il cuore, disse questo non essere di biasmo ma di vendetta segno. Spogliatesi adunque le donne e rimase come nacquero, erano così belle ignude, come vestite. Il giovane scolare, riguardandole da capo a’ piedi e vedendole sì belle e sì delicate che la lor bianchezza avanzava la neve, cominciò tra sè sentire alquanta compassione; ma nella memoria ritornandoli le ricevute ingiurie e il pericolo di morte, scacciò da sè ogni pietà, e nel suo fiero e duro proponimento rimase. Appresso questo, l’astuto giovane tolse tutte le vestimenta loro e altre robbe che in dosso portate avevano, e in uno camerino ivi vicino le pose, e con parole assai spiacevoli le ordinò che tutta tre, l’una a lato dell’altra, nel letto si coricassero. Le donne, tutte sgomentate e tremanti da terrore, dissero: Oh insensate noi, che diranno i mariti, che diranno i parenti nostri, come si saprà che noi siamo quivi state ignude trovate uccise? Meglio sarebbe che noi fussimo morte in fascie, che esser con tal vituperoso scorno manifestate. Il scolare, vedendole coricate l’una appresso l’altra, come fanno marito e moglie, prese uno linzuolo bianchissimo ma non molto sottile, acciò che non trasparessero le carni e fussero conosciute, e tutta tre coperse da capo a piedi: e, uscitosi di camera, e chiuso l’uscio, trovò li mariti loro che in sala danzavano; e, finito il ballo, menolli nella camera dove le tre donne in letto giacevano, e disseli: Signori miei, io vi ho quivi condotti per darvi un poco di solacio e per mostrarvi la più bella cosa, che a’ tempi vostri vedeste giamai; — e, approssimatosi al letto con un torchietto in mano, leggermente cominciò levar il linzuolo da’ piedi e invilupparlo, e discoperse le donne sino alle ginocchia; ed ivi li mariti videro le tondette e bianche gambe con i loro isnelli piedi, maravigliosa cosa a riguardare. Indi discopersele sino al petto, e mostrolli le candidissime coscie che parevano due colonne di puro marmo, col rotondo corpo al finissimo alabastro somigliante. Dopo, scoprendole più in su, li mostrò il teneretto e poco rilevato petto con le due popoline sode, delicate e tonde, che arebbeno costretto il sommo Giove ad abbracciarle e basciarle. Di che i mariti ne prendevano quel trastullo e contento che imaginar si puote. Lascio pensar a voi a che termine si trovavano le misere e infelici donne, quando udivano i mariti suoi prendere di loro trastullo. Elle stavano chete e non osavano zittire, acciò che conosciute non fussero. I mariti tentavano il scolare che le discoprisse il volto; ma egli, più prudente nell’altrui male che nel suo, consentire non volse. Non contento di questo, il giovane scolare prese le vestimento di tutta tre le donne e mostrolle a i mariti loro. I quali, vedendole, rimasero con una certa stupefazione che li rodeva il cuore. Dopo con grandissima meraviglia più intensamente riguardandole, dicevano tra sè: Non è questo il vestimento che io fei alla mia donna? Non è questa la cuffia che io le comprai? Non è questo il pendente che le discende dal collo innanzi il petto? Non sono questi gli anelletti che la porta in dito? Usciti di camera, per non turbar la festa non si partirono, ma a cena rimasero. Il giovane scolare, che già aveva inteso esser cotta la cena e ogni cosa dal discretissimo siniscalco apparecchiata, ordinò che ogniuno si ponesse a mensa. E mentre che gli invitati menavano le mascelle, lo scolare ritornò nella camera dove le tre donne in letto giacevano: e, discopertele, disse: Buon giorno, madonne; avete voi uditi i mariti vostri? Eglino quivi fuori con grandissimo desiderio vi aspettano vedere. Che dimorate? Levatevi su, dormiglione; non sbadigliate, cessate ornai di stropicciarvi gli occhi, prendete le vestimenta vostre e senza indugio ponetevele in dosso, che omai è tempo di gire in sala dove le altre donne vi aspettano. E così le berteggiava, e con diletto le teneva a parole. Le sconsolate donne, dubitando che ’l caso suo avesse qualche crudel fine, piangevano e disperavano della lor salute. E così angosciate e da dolor trasfitte, in piedi si levarono, più la morte che altro aspettando. E voltatesi verso il scolare, dissero: Filenio, ben ti sei oltre modo di noi vendicato; altro non ci resta se no che tu prendi la tua tagliente spada e con quella tu ne dia la morte, la qual noi più che ogni altra cosa desideriamo. E se questa grazia tu non ne vuoi fare, ti preghiamo almeno isconosciute a casa ne lasci ritornare, acciò che l’onor nostro salvo rimanga. Parendo a Filenio aver fatto assai, prese gli suoi panni: e, datili, ordinò che subito si rivestissero: e, rivestite che furono, per un uscio secreto fuori di casa le mandò; e così vergognate, senza esser d’alcuno conosciute, alle lor case ritornorono. Spogliatesi le loro vestimenta che indosso avevano, le posero nelli lor forcieri, e calidamente senza andar al letto si misero a lavorare. Finita la cena, i mariti ringraziorono lo scolare del buon accetto che fatto gli aveva, e, molto più, del piacere che avevano avuto in vedere i delicati corpi che di bellezza avanzavano il sole: e, preso da lui il combiato, si partirono ed a i loro alberghi ritornorono. Ritornati adunque i mariti a casa, trovorono le loro mogli che nelle loro camere presso il fuoco sedevano e cusivano. E perchè i panni, l’anella e le gioie da’ mariti vedute nella camera di Filenio li davano alquanta suspizione, acciò che niuno sospetto li rimanesse, ciascun di loro addimandò la sua donna, dove era stata quella sera, e dove erano le sue vestimenta. A i quali ciascheduna di loro arditamente rispose che di casa quella notte uscita non era: e, presa la chiave della cassa dove erano le robbe, li mostrò le vestimenta, l’anella e ciò che i mariti fatto gli avevano. Il che vedendo i mariti e non sapendosi che dire, rimasero cheti, raccontando minutamente alle loro donne tutto quello che gli era quella notte avenuto. Il che intendendo, le mogli fecero sembiante di non saper nulla; e, dopo che ebbero alquanto riso, si spogliorono e s’andorono a riposare. Non passorono molti giorni, che Filenio più volte per strada s’incontrò nelle sue care madonne, e disse: Qual di noi ebbe maggior spavento? qual di noi fu peggio trattato? Ma elle, tenendo gli occhi chini a terra, nulla rispondevano. Ed in tal guisa lo scolare meglio che egli seppe e puote, senza battitura alcuna, virilmente si vendicò della ricevuta ingiuria. Finita la favola dal Molino raccontata, parve alla Signora e alle damigelle che la vendetta delle ricevute ingiurie, fatta per lo scolare contra delle tre donne, fusse stata non men spiacevole che disonesta; ma poscia che elle considerarono l’aspra pena che lo scolare sofferse per li pungenti spini, e il pericolo grande in cui egli incorse per lo cadere d’alto a basso, e il freddo grande che egli patì trovandosi nella strada publica in camiscia sopra la nuda terra addormentato, giudicorono giustissima esser stata la vendetta. Ma perchè Fiordiana si era scaricata di raccontare la favola, la Signora le impose che almeno ella dicesse uno enimma, che non avesse disavaglianza da la materia del scolare. La quale, desiderosa di ubidire, disse: Signora mia, avenga che lo enimma, che da me fia raccontato, non sia di grave e noiosa vendetta, sì come è stata la favola dal nostro ingenioso messer Antonio recitata, nondimeno sarà di materia che appartiene ad ogni studioso giovane. E, senza altro indugio e altra risposta aspettare, così lo suo enimma propose.
Un vivo con duo morti un vivo fece,
Dal qual ebbe la vita un morto poi.
Quel ch’era estinto, dopo si rifece,
Vita prendendo, si ch’erano doi.
L’uno de l’altro il premio sodisfece,
Tal che ciascuno attese a i fatti suoi
Il primo vivo, per lor vivi e morti,
A parlar poi si puose con e morti.
Fu il sottil enimma di Fiordiana diversamente interpretato; ma non fu alcuno che aggiungesse al segno. E vedendo la compagnia che Fiordiana crollava la testa sorridendo alquanto, disse il Bembo: Signora Fiordiana, a me par sciocchezza grande a perder il tempo in questo. Dite voi ciò che vi pare, che del dir vostro tutti noi ci contentaremo. — Poichè così piace, disse Fiordiana, a questa orrevole compagnia che io delle mie cose sia interpretatrice, farollo molto volentieri: non ch’io sia a questa cosa bastevole, ma per sodisfare a tutti voi, a’ quali per molte cause mi veggio tenuta. Altro, vezzose donne, il nostro enimma non significa, se non lo scolare che si leva di letto la mattina per tempo a studiare; il quale, essendo vivo, fa viva l’esca con duo morti, cioè con l’acciaio e con la pietra. Dal qual vivo, cioè dall’esca vivificata, poi un morto, che è il lume, riceve la vita. Dopo, il primo vivo, che è lo scolare, per virtù de’ duo vivi e morti sopradetti si pone a ragionare con e morti, che sono i libri da uomini dotti già gran tempo composti. Piacque sommamente a tutti la isposizione del sottilissimo enimma dalla discreta Fiordiana ingeniosamente raccontato. E perchè oggimai s’appressava la mezza notte, la Signora ordinò che Lionora alla sua favola desse cominciamento. La quale più lieta che mai con festevole sembiante così a dire principiò: