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Non passorono molti giorni, che Filenio più volte per strada s’incontrò nelle sue care madonne, e disse: Qual di noi ebbe maggior spavento? qual di noi fu peggio trattato? Ma elle, tenendo gli occhi chini a terra, nulla rispondevano. Ed in tal guisa lo scolare meglio che egli seppe e puote, senza battitura alcuna, virilmente si vendicò della ricevuta ingiuria. Finita la favola dal Molino raccontata, parve alla Signora e alle damigelle che la vendetta delle ricevute ingiurie, fatta per lo scolare contra delle tre donne, fusse stata non men spiacevole che disonesta; ma poscia che elle considerarono l’aspra pena che lo scolare sofferse per li pungenti spini, e il pericolo grande in cui egli incorse per lo cadere d’alto a basso, e il freddo grande che egli patì trovandosi nella strada publica in camiscia sopra la nuda terra addormentato, giudicorono giustissima esser stata la vendetta. Ma perchè Fiordiana si era scaricata di raccontare la favola, la Signora le impose che almeno ella dicesse uno enimma, che non avesse disavaglianza da la materia del scolare. La quale, desiderosa di ubidire, disse: Signora mia, avenga che lo enimma, che da me fia raccontato, non sia di grave e noiosa vendetta, sì come è stata la favola dal nostro ingenioso messer Antonio recitata, nondimeno sarà di materia che appartiene ad ogni studioso giovane. E, senza altro indugio e altra risposta aspettare, così lo suo enimma propose.
Un vivo con duo morti un vivo fece,
Dal qual ebbe la vita un morto poi.
Quel ch’era estinto, dopo si rifece,
Vita prendendo, si ch’erano doi.