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Pindaro invoca le Càriti perché celebrino Argo, la città di Danao, e le cinquanta Danaidi. Lungo sarebbe enumerare gli eroi d’Argo: Pèrseo; Epafo (figlio di Io, figlia d’Inaco, primo re d’Argo), il quale, generato dalla madre tramutata in giovenca in Egitto, fondò lí molte città; Ipermnestra che, sola fra le Danaidi, non volle uccidere lo sposo; Diomede reso immortale da Giove; Anfiarao, profeta e guerriero, a cui Giove, per non farlo coprire d’onta in battaglia, ché stava per fuggire, spalancò sotto i piedi la terra; Alcmena e Danae amate da Giove; Linceo, padre d’Adrasto, insigne per senno; Anfitrione, a cui il re dei Numi concesse l’insigne onore di fecondargli la sposa, mentre egli era lungi, alla guerra. Lungo sarebbe: e ha paura di tediare gli uditori (1-26).

Quest’ultimo pensiero, comunissimo in Pindaro, mentre chiude il proemio, serve d’opposizione, mediante un nesso avversativo, ai pensieri seguenti. È sottinteso il pensiero che Teeo e i suoi hanno riportate tante vittorie, che a commentarle tutte si risica di seccar la gente. Tuttavia, Pindaro le numererà: vinse due volte nelle gare d’Era, in Argo, dove insieme con le gare si celebravano sacrifizi: vinse a Pito: tre volte all’Istmo (le porte del ponto) e tre a Nemea (i ludi d’Adrasto): ora non sembrerà sfrontato, se aspira alla corona olimpica, che è la piú alta gloria (la regola somma d’Alcide):