Le notti romane/Parte prima/Notte seconda/Colloquio V
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e in morte almeno vi esorto ad essere migliori che non foste nella vita. —
A queste parole l’Emiliano declinò le pupille fino allora minacciose, e ricoperse la fronte con la destra come chi si penta di alcuna opera malvagia. Quindi gli grondavano poche lagrime sul petto velloso, al quale chinò il mento, cosí che parea sentire gravissima tristezza. Gli altri Scipioni volgeano ritrosi le fronti loro e le velavano col lembo delle toghe. Allora Pomponio esclamò: — Ahi perché non veggono queste lagrime illustri i popoli ora viventi nella Iberia, e nell’Affrica, e nell’Asia, regioni da tale feroce stirpe inondate da ben altre lagrime di orfani, di vedove, di genitori disperati! Sarebbe questo almeno un disinganno prezioso, atto a soddisfare la tarda posteritá, ancora forse con voi sdegnata per gli oltraggi sofferti dagli antenati suoi. —
COLLOQUIO QUINTO
Segue Pomponio a biasimare le oppressioni contro gl’Iberi e contro i Galli.
Cesare incolpa questi di barbari costumi, e Pomponio insiste
che ne aveano di piú barbari i Romani.
Tacque Pomponio, ed aspettava con baldanza qualche risposta
da quelli. Ma non la proferivano, e però continuando egli aggiunse:
— È questo pure un segno che fu nel petto vostro alcuna generosa bontá, mentre le colpe antiche destano alfine in voi un pietoso ravvedimento. Niuno però vi gravi d’essere stati voi soli gli oppressori di quelle regioni, perocché non era bastevole una sola progenie, quantunque nata alle stragi, a compiere tutte quelle con le quali il Senato anelava di sterminare que’ regni. Tu ben lo sai, o Emiliano Numantino, il quale nella tua gioventú militasti in Iberia sotto le insegne del consolo L. Licinio Lucullo destinato al governo di quella. Quando vi giunse, era conchiusa la pace co’ Celtiberi, e nondimeno senz’altra cagione fuorché l’aviditá delle prede, egli spinse le armi contro Cauca, doviziosa cittá loro. Essa non preparata a resistere, si rese ad onesti patti, ed ammise le vincitrici legioni. Le quali poiché vi furono, il feroce Licinio svelando tutta la sua perfídia, sterminò ben ventimila cittadini, e gli uomini provetti, le femmine, i fanciulli rimasti come avanzi spregevoli vendè. Tu pur sai come non guari che fosse da te distrutta Numanzo, ella avea stabilita pace solenne alla presenza dell’esercito romano col proconsolo Q. Pompeo. Ma il Senato volendo continuare per sua utilitá quella impresa, disapprovò tale concordia. I messaggeri numantini ricorsero qui indarno, perché non valse loro la pubblica fede. Anzi i Conscritti con sublime impostura smentirono il vero; e quindi Numanzo fu abbandonata al tuo sdegno tremendo.
I quali esempi emulando Servio Sulpizio Galba pretore nella Lusitania, allora devastò col ferro e con le faci quella provincia, rattenuto soltanto dall’oceano occidentale, fin dove giunsero le insaziabili sue rapine. Quelle nazioni desolate chiesero pace. Il pretore consentí alla inchiesta, simulando anzi pietá di quelli fra loro i quali abitavano regioni ingrate, e proponendo di trasportarli in piú ubertose. Essi pertanto adescati da quella benevolenza, furono divisi in tre colonie pronti a trasferirsi nelle provincie loro assegnate. Il pretore con lusinghiere persuasioni gl’indusse a radunarsi in tre separati alloggiamenti. Quindi recandosi ad uno di quelli, con soave contegno incominciò a dolersi ch’eglino, sendo amici del Popolo Romano, anzi avendo ornai con esso comune la patria mediante la pace, rimanessero ancora sull’armi. Gli supplicava pertanto a deporle, come un indizio odioso di non meritata diffidenza. Il quale insidioso ragionamento cosí penetrò l’animo di que’ semplici, che ne furono persuasi. Ma poi, raccolte le armi tutte e collocate in disparte, il pretore, che avea inventata quella frode, sollecito di eseguirla, ordinò a’ suoi che circondassero la moltitudine disarmata, e tutta la sterminò innanzi il suo formidabile aspetto. Que’ miseri invocavano la vendetta del cielo per l’esecrabile tradimento; il pretore guardava intrepido la strage. Poscia giá esperto per questa prima insidia e lieto dell’evento sanguinoso, distrusse con le medesime arti le altre due colonie, rimanendo svenati come gregge nell’ovile ben trentamila traditi. Ecco la fede romana, della quale con parole superbe ci vantammo leali mantenitori!
Il cielo però avea serbato un illustre vendicatore di tanta malvagitá. Io parlo di Viriato, il quale per incredibile caso sopravvisse in quello esterminio. Nato pastore, e degno di culla reale per le eminenti qualitá dell’animo, adunò que’ popoli oppressi, e li mantenne contro la tirannide nostra ben dieci anni, ne’ quali continuamente depresse il nostro orgoglio con le sconfitte. Né fu vinto se non in modo anche piú ignominioso di queste. Avvegnaché il consolo Servilio Cepione promise a due messaggeri di Viriato, venuti a trattar seco la pace, largo premio se lo togliessero di vita. Quelli sedotti da tale malvagia lusinga svenarono il capitano loro nella sua tenda, mentre giaceva nel sonno. Ritornarono poscia al consolo per chiedere il guiderdone. Ma gl’inganni si stimano quanto alla utilitá dell’effetto; e sono sempre abominevoli gli esecutori suoi. Quindi il consolo rispose loro con fredde parole ch’egli non era atto a sentenziare qual mercede convenisse a guerrieri i quali uccidessero il proprio capitano, ma appartenere tal giudizio al Senato. A lui pertanto spedí con nuova perfidia i traditori, lasciando le genti in dubbio quale di tante frodi fosse la peggiore.
Vedi, o Cesare, dunque quanto era scarsa la memoria della probitá di Camillo col pedagogo di Falera, e di Fabrizio con Pirro insidiato di veleno! Perché non rammenti ben trecento fanciulli volsci in ostaggio da noi sterminati? Le romane scelleratezze quasi ampio torrente seco trasportano e sommergono poche oneste operazioni. Queste rilucono come lampo nella notte: non giova il suo rapido splendore che a far piú dense le tenebre di poi. Ma giá si apriva il campo a’ tuoi gloriosi estermini nella Gallia, i popoli della quale erano continuamente infestati dalle nostre legioni. Ivi pure sonava la fama della romana dislealtá. Giá il consolo Domizio vi avea indotto Bituito re degli Averniani a venire nel suo campo affine di conchiudere la pace: rattenuto di poi, stretto fra ceppi, inviato a Roma, tratto nella pompa trionfale, il credulo e prode monarca aveva sgombrata la via alle tue usurpazioni. Molti ricchi e valorosi regni chiudea la Gallia nel suo grembo prima di quelle: dopo le quali sommessa alla aviditá de’ proconsoli, rimase provincia squallida, segno infausto delle nostre feroci rapine. —
Cesare fino allora tacito ascoltatore, a quelle parole alzò la fronte, la quale prima tenea dimessa fra’ pensieri. L’alloro che gli cingea le calve tempia era alquanto declinato sulle ciglia divenute severe. Sgombrò pertanto con la destra le frondi, e toccandole disse: — Or da te mi si contendono i meriti di questo segno trionfale, e però sarebbe vile pazienza il piú sofferire i tuoi detti baldanzosi. Di me tu ornai ragioni, e delle opere mie, e ti accingi a biasimarle. E come mai tal uomo quale tu fosti, pregiato solo per la timida prudenza e per la onesta fuga dalle patrie calamitá, amico degli emuli del sommo imperio mediante la docilitá lusinghiera de’tuoi costumi, placido fra le tempeste, fra’ disastri sicuro, fra le stragi delicato, fra’ misfatti illeso, talché non vi fu mai dappocaggine piú celebrata della tua, or cessati que’ pericoli ragioni di noi e delle virtú romane audacemente? —
Pomponio senz’ira gli rispose: — Non ebbi in vita altro timore che quello d’offendere la virtú. E siccome giudicai impossibile il non oltraggiarla fra le civili emulazioni, mi sottrassi da quelle. Che se mentre fummo nella calamitosa ignoranza della vita corporea, le utili malvagitá persuasero il nostro cieco intelletto, ecco dalla morte squarciato il velo delle menzogne. Il vero mi splende innanzi la mente con luce trionfale: non piú vacillano gl’infermi pensieri nella incostanza degli umani deliri. Inique io stimo gran parte delle nostre imprese; vissi innocente di quelle, puro di sangue fra pelago di sangue civile. Or chi sará di voi, tinti di quello de’ popoli sterminati, ed anco de’ suoi medesimi cittadini, il quale presuma incolparmi di tale innocenza? Trassi in placido, ma non vile corso la vita, e alteramente la disprezzai. Perocché nona spettando la tiranna vecchiezza, scesi lieto nell’avello per inedia volontaria. Oh menti vostre feroci, nelle quali tanti secoli non hanno spento il desiderio funesto delle stragi! — Cosí esclamando percuotea i fianchi e il petto con le mani, e gli occhi sembravano pronti a sgorgare lagrime rattenute a stento da costanza virile. Cesare aggiunse: — Niuna guerra fu mai piú giusta che quella da noi lungamente sostenuta contro i Galli, la quale incominciata dalle ingiurie loro, fu proseguita per necessitá delle difese, e con evento felice sottopose popoli crudeli ed invidiosi della nostra grandezza. Essi non provocati, ma per ferino impeto si mossero alla distruzione di Roma nascente, svenarono gl’inermi e venere voli nostri Padri Conscritti, e poi i nostri messaggeri di pace, le membra de’ quali dispersero in brani. Ma ben era conveniente questa barbara perfidia a quella gente, i costumi della quale erano abbominevoli ed atroci. Appendeano a’ loro destrieri i teschi grondanti degli uccisi in guerra come ornamento glorioso, ne convertivano di poi il cerebro in coppe, entro le quali s’inebbriavano ne’ conviti. Non meno feroci erano i riti funerei, ne’ quali si offerivano al rogo i servi e clienti piú cari, e si lanciavano ad ardere in quello coll’estinto signore. Una funesta divinitá era quella dalla quale pretendeano essere discesi, cioè il nume dell’In ferno; piú funesti erano i sagrifizi a lui offerti, cioè vittime umane. Gli spietati Druidi iinmergeano il pugnale nel cuore di esse, e tenendo la mano sull’elsa presumeano da’ palpiti di conoscere il futuro. Ma nelle celebritá maggiori formavano colossi tessuti di aridi giunchi, le membra smisurate e informi de’ quali empievano, con invenzione crudele, di uomini vivi misti ad animali feroci. Accendevano poi la mole, dalla quale uscivano, fra nembi di fumo e lo stridere delle fiamme, gli umani gemiti, gli urli delle fiere, con divoto animo uditi dalla moltitudine superstiziosa. Tale era la nazione la quale io con guerra necessaria vinsi ed indussi a lasciare cosí esecrabili costumi. Dunque di che ti duoli. Attico, se non di ciò che dovrebbe far lieto ogni Romano? — Quegli sedato rispose: — Giacché tanto declami contro le crudeltá di que’ popoli nominati barbari dal nostro orgoglio, veggiamo se in noi non fu materia alcuna di quelle medesime riprensioni. Presso niuna altra nazione fu cosí tirannica quanto presso noi la patria podestá, mediante l’assoluto arbitrio della quale poteva il padre abbandonare i fanciulli suoi, esporli nelle selve, percuoterli contro le pareti. Divenuti poi adulti poteva rilegarli ad opere servili, venderli come schiava, ucciderli come giumenti, e per fine diseredarli senza addurne alcuna ragione. Dimmi qual altro popolo avesse piú feroce legge contro i debitori. Dati in servitú al loro creditore, stretti nelle catene, flagellati dalle verghe, aravano come buoi que’ campi bagnati del sangue loro nelle guerre. Invano mostravano quegli infelici le ferite marziali nel petto, e negli omeri le ignominiose lividezze di servili percosse. Dopo novanta giorni di oltraggi, se non scontavano la somma dovuta era in facoltá del creditore, secondo la atroce legge delle dodici tavole, uccidere il suo debitore, e se piú erano i creditori, poteano dividerne le membra fra loro. Quindi gli alberghi de’ nostri maggiori erano divenuti carceri piene di plebe incatenata ed oppressa da usure nefande. Ella era lusingata col titolo pomposo di libertá quotidianamente, ma di libero non avea che il pianto e le querele. E come sperare mai alcuna pietá da coloro i quali aveano ridotta la crudeltá a pubblica disciplina? Ahi spettacolo abbominevole de’ gladiatori, nel quale erano poste cure piú diligenti che nelle arti mansuete e liberali! I corpi destinati a quelle barbare celebritá erano delicatamente nutriti, affinché le membra nude esposte a’ colpi fossero candide, pingui, belle, e le ferite in loro piú carnose e mirabili, ed apportatrici di sublime tristezza all’animo de’ spettatori. Conveniva con leggiadria cadere; agonizare in contegno; spirare in nobile atteggiamento. I deliranti applausi della moltitudine sommergeano i singhiozzi de’ moribondi: quella era piú lieta quanto piú le ferite e le morti con accidenti straordinari le fossero mostrate. Né giá solo uomini bellicosí e sprezzatori della vita, ma vergini per loro indole pietose e timidi fanciulli sedeano pur negli anfiteatri, e le terribili gare di morte contemplavano con delizia feroce.
Cosi perfino gli oziosi trattenimenti erano qual si conveniva a popolo ammaestrato ad opprimere il mondo. Non vi fu anzi altro modo piú insinuante a conseguire il suo favore, quanto il dilettarlo con quelle scene di sangue. E però quando tu eri edile, o Dittatore, per aprirti la via alle opere ambiziose, desti al popolo un giuoco di piú che seicento gladiatori. Che narro? Anche ne’ splendidi conviti, giacendo su piume delicate, accanto le meri trici lusinghiere e gli adulatori parasiti, nel tracannare il Falerno era pur grato vedere non lungi dalle mense fumare il sangue del gladiatore! Quindi per vilipendio maggiore della umanitá furono posti i combattitori contro le fiere, le quali in varie forme lacerando le membra di quelli, offerissero tal gara di atrocitá, che rimanesse in dubbio qual de’ bruti o degli uomini fosse piú tristo. Erano queste nondimeno le maggiori delizie del volgo romano; e però Siila bramoso d’acquistame la benevolenza per salire alla tirannide, sendo pretore, compiacque la comune ferocia con lo spettacolo di ben cento leoni combattenti co’ gladiatori. Ma la copia delle nostre disumane consuetudini fa ch’io trapassi quella benché barbara, cioè la oppressione in cui tenevamo i prigionieri. Ella era conveniente, anzi necessaria ad un popolo di tiranni. Pure questo non tacerò, che i serva e la discendenza loro in perpetuo erano per legge valutati non giá persone, ma cose, nella quale orribile sentenza si racchiude un ampio discorso di inumane dottrine. Non fa quindi maraviglia se co’ flagelli e co’ supplizi si sfogavano su questi infelici le nostre orgogliose ire. Dove sei, Vedio Pollione, che a’ tempi miei, i quali dopo guerre crudeli condussero alfine onesti ozi e costumi leggiadri, solevi uccidere i tuoi schiavi, e con le membra loro impinguare le tue murene? Qual canibaie fu mai cosí artifizioso nel preparare i suoi abbominevoli conviti? Dove ti nascondi, o consolo Metello, che nella guerra contro Giugurta sendoti fatti restituire i trafuggitori, li punisti come servi, facendoli seppellire sino al petto, e quindi circondare dal fuoco, nel quale rimasero affogati e con sunti? Ve’ bellica disciplina degna soltanto di un popolo distruggitore!
In molte poi e gravi deliberazioni della nostra Repubblica non furono giá dottrine eccelse o leggi sapienti quelle che le consigliavano, ma il volo degli augelli, il tuono mugghiante nelle nubi, le viscere palpitanti de’ buoi, i volumi Sibillini, gli oracoli oscuri, i vani sogni, le piú vane divinazioni degli aruspici e degli auguri, sagaci deluditori del volgo. Anco le anime crudeli timidamente si perturbarono per funesti portenti. Mario incontra presso le ruine di Cartagine due scorpioni, i quali combattono fra loro stizzosi: divenuto credula femmina plebea per quel segno da lui giudicato sinistro, fugge dall’Affrica palpitando quel vincitore di tante nazioni. Lo spietato, l’orgoglioso esterminatore de’ nostri nemici e di noi, Siila inesorabile, soleva pur appendere al collo una immagine di Apollo, ed a lei fervidamente rivolgere le preghiere ne’ cimenti marziali. Cosí due tremendi competitori del tuo imperio, o Roma, al nome de’ quali tremavano le madri, le spose impallidivano, furono codardi per dispregevole superstizione. Stimo però che Mario fosse nel medesimo tempo credulo per sé ed ingannatore del volgo, considerando come egli condusse continuamente, nelle sue formidabili imprese, Marta, donna Siria divinatrice degh eventi futuri. Nel qual sagace artifizio non fu meno esperto Sertorio, che mediante la cerva di Diana si mantenne con felicitá nella Iberia; e piú d’ogni altro Numa, inventore de’ misteri con la sua Ninfa. Pure, se v’è alcuna onesta simulazione, fu quella per la quale un tristo popolo divenne benigno. Ma non mai, o Dittatore, l’opportunitá della difesa ti condusse ad attingerla alla fonte degli argomenti contrari, quanto incolpando i Galli di umani sagrifizí. Tali erano pur le vestali sepolte vive. Né sei certo scordevole di ciò che sanno tutti i Romani, come dopo la prima guerra Cartaginese, perché negli oracoli Sibillini era scritto che i Greci ed i Galli occuperebbono Roma, i pontefici per evitare quella predizione, fecero seppellire vivi due uomini dell’una e dell’altra nazione. E poi, al principio della seconda Cartaginese, fu eseguito lo stesso barbaro sagrifizio nel foro Boario, che nel secolo successivo fu parimente rinnovato. Deh con chi parlo? Tu stesso, o Dittatore, non facesti celebrare in Roma questo rito sanguinoso? Ve’ quanto è audace la tirannide, ch’ella biasima in altrui le sue stesse malvagie operazioni! Qual pompa infine piú insolente e piú barbara del trionfo presso noi cosí cele brato? —