Le notti romane/Parte prima/Notte seconda/Colloquio IV
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la molle Asia, e vi trovammo cagione di combattere col grande Antioco. Gli splendidi e vasti regni suoi rimasero alla fine provincia desolata del Popolo Romano. Nel decorso delle quali fortunate ingiustizie, durava sempre la crudele emulazione contro Cartagine, posta quasi per destino in prospetto nell’opposita spiaggia, come bersaglio di gloria sanguinosa. Quindi riputandoci felici perché si offerisse a noi in quella potente rivale una vasta materia d’illustri oppressioni, destammo nella Libia, nella Iberia e nella Lusitania un incendio bellicoso, alle fiamme del quale splendeano le nostre gloriose carnifícine. Or di queste furono principali esecutori quegli Scipioni i quali ancora qui sembrano lieti di tanti misfatti. Ve’ come la moltitudine, con cieca maraviglia, contempla sommessa e taciturna i loro superbi e feroci aspetti! —
COLLOQUIO QUARTO
Cesare difende i Romani, e Pomponio conferma le malvagitá loro,
spezialmente con l’esempio de’ Scipioni.
Mentre Pomponio favellava, Cesare lo ascoltava attentamente,
volgendo però spesso gli occhi agli Scipioni. Ma a quelle parole
egli gettò con la destra il lembo della toga sull’omero sinistro,
ed alquanto sdegnoso interruppe: — Qual mai sarebbe la sorte
di una cittá governata da cosí pacifico ingegno come tu sei?
Pomponio rispose calmato: — D’essere oppressa con ingiustizia,
o felice senza iniquitá. —
Cesare alquanto sorridendo aggiunse: -— Se alcuna cittá si potesse fondare in luogo inaccessibile alle offese delle altre nazioni, certo non solo questa soave tua filosofia sarebbe grata ad udirsi, ma utile, e da tutti bramata in quotidiana esecuzione. Ma poiché nascono le cittá nuove in mezzo delle antiche, e che tutti i popoli, o liberi o sommessi che sieno, vengono continuamente spinti da un funesto impeto alla usurpazione, questa che tu vanti quieta prosperitá, sperare non si può da chi nella storia contempla le umane vicende e ne giudica poi con probabili sentenze. Roma nacque, egli è vero, da umili principi, ma non usurpando l’altrui. Avvegnaché era deserta quella regione dove Romolo adunò i nostri progenitori. Certo è lodevole proponimento il ridurre una terra abbandonata in florida abitazione di gente valorosa. Né ti dolga ch’egli adunasse fuorusciti e venturieri, e, se vuoi che dica, malfattori, perocché liberò cosí la Italia da un ingombro pernizioso. Coloro, quasi armenti fuggiaschi, furono da tal pastore sommessi al giogo d’imperio moderato; e quelle menti ritrose alfine conobbero, per tale disciplina, l’autoritá della ragione, da loro schernita per l’addietro.
Né ti attristi, quasi fosse maravigliosa indegnitá, che uomini disgiunti dal sesso piú leggiadro intendessero procurarsi in ogni modo il necessario conforto degl’imenei: avvegnaché prima del tanto deplorato rapimento delle vergini sconsolate, i Romani aveano giá piú volte, e con supplichevoli instanze, richieste a’ vicini le fanciulle per consorti ad oneste condizioni. Ma gli sdegnosi ed acerbi rifiuti costrinsero alla fine i nostri al ratto da te or mestamente biasimato. Pur le vergini meno di te furono dolenti del caso loro, anzi ce lo perdonarono agevolmente: le quali, ben sai, discinte e belle si lanciarono fra le squadre in procinto, e spensero con soavi parole e col pianto le ire crudeli. Non tregua, non pace, non alleanza, ma comune imperio fra noi e gl’implacabili Sabini fu il mirabile effetto di quella dolce intercessione. Quindi il regno di Numa durato piú che otto lustri senza guerre e senza congiure, non temuto, ma venerato, sembra una immagine di celeste benignitá piú tosto che umano governo. Niuna gente vantare si può di cosí inerme, placida, giusta dominazione in mezzo di sdegnati e bellicosí vicini, rattenuti solo dalla sacra maraviglia per quella virtú.
Che se di poi gli avi nostri continuamente ebbero nella mano il ferro grondante, ciò non avvenne tanto per inquieta brama di turbare il mondo, quanto per la necessitá della fortuna. Perché tutti i popoli d’Italia, chi per timore, chi per invidia, si lanciarono ansiosi di opprimere la nascente Roma. Ella da prima vendicando le ingiurie, e difendendo i rozzi suoi abituri nel monte Palatino, e le sue biade sulle ripe del Tevere, fu cosí felice che ridusse gli assalitori a cederle non solo i ferri, ma ad usarli in difesa di lei per l’avvenire. Questo fu proponimento speciale e sapientissimo della patria nostra, che i vinti popoli d’Italia essa non tenne sottoposti in giogo servile, ma nel suo grembo accolse come gli altri cittadini. Dalle giuste difese nasce però inopinata necessitá di prevenire le ingiurie imminenti: quindi si ampliarono le nostre vittorie in lontane regioni, dove secondo la inevitabile imperfezione delle umane cose, talvolta furono i trionfi mescolati con le malvagitá. Pur niuna guerra, quantunque giusta o necessaria, si può lungamente fare senza qualche eccesso di vendetta. Io pertanto mi maraviglio che una mente quale tu sei versata nelle storie universali, presuma che un’arte crudele di sangue e di morte possa da modeste consuetudini, come le urbane cose, essere moderata. Roma però, nella diuturnitá ed ampiezza delle sue imprese marziali, usò piú di qualunque altra nazione modi eroici, e generose alterezze, e virtú in quella atroce licenza inaudite. Fu presso tutte le genti sacra la fedeltá de’ nostri giuramenti e delle convenzioni, talché niuno mai diffidò quando un Romano promise.
Che se ti piacque di porre, con artifizio di parole, innanzi l’intelletto di costoro qualche trista impresa invece di obliarla, rammentare pur dovevi alcuna di quelle innumerevoli nostre allo splendore della quale rimasero attonite le nazioni. Vive ancora, lo spero, quassú la memoria della nostra lealtá con Falera, quando un pedagogo insidiosamente condusse a noi i principali giovanetti di quella cittá a lui affidati. Ma il nostro magnanimo Camillo ricusò con ira un cosí utile tradimento, e rimandò liberi quegli ostaggi preziosi. Né credo il tempo avrá sommerso il nome di Fabrizio, il quale guerreggiando con Pirro lo avvertí che il di lui medico gli si era offerto di avvelenarlo. Che se io intendessi, o Quiriti, di rammentare tutte le romane virtú, io turberei, piú che non conviene, questi silenzi di morte, e insieme direi cose a voi manifeste, perché vostre. Mi è quindi grave la necessitá presente, la quale mi costringe a ricordarle a tale animo quale costui, romano, equestre, leggiadro se non valoroso. — Tacque il Dittatore, e con nobile sdegno guardava la moltitudine. I cinque spettri volgeano le pupille ardenti come brace nelle cavitá degli occhi minacciosi. Stava sulle labbra loro un formidabile silenzio. Rimanea muta l’aura con essi in quelle vie cavernose, né alcuna larva ardiva prorompere con la voce al cospetto di quelle ombre fra tutte autorevoli e venerande. Che se quelle turbe aveano tal reverenza, non è d’uopo che alcuno richieda qual fosse la mia. Ecco però quegli il quale io credea, tanto per la soavitá dell’indole quanto per certa sua modestia particolare nella vita, che dovesse alla presenza d’uomini soverchianti per la fama tacere sommesso, invece con intrepida fronte soggiunse:
— Giacché mi stimoli, o Dittatore, co’ tuoi rimproveri sdegnosi a confermare vie piú le nostre malvagitá, io sono deliberato farle manifeste con baldanza eguale alla tua molestia in ascoltarle. Voi pure le udirete, o Scipioni, i quali vivendo non conobbi se non per le sculte immagini e per le formidabili imprese. Né alcuno si maravigli se tale uomo quale io fui, quassú languente in molli ozi con decoro, qui favelli animoso. Non ebbi altra indole, ma la nascosí; tacqui non per codardia, ma persuaso che ogni alto e libero discorso, quasi balbuziente stoltezza, fosse offerto allo scherno di tante corruttele. Che se trascorsi gran parte della mia vita lontano da questa patria infelice, non avvenne perché io fossi indegno di servirla, ma perch’ella mi parve ornai non piú meritevole di cure illustri e pericolose. —
Mentre egli cosí ragionava, scosse la testa come avviene parlando con ira, e l’argentea capellatura ondeggiava sugli omeri suoi. Quindi si volse agli Scipioni, e prosegui: — Di voi primi due gloriosi fratelli Cneo e Publio, caduti ne’ campi della Iberia, io non farò censura, perché moriste combattendo, e niuna vostra impresa trapassò le atrocitá consuete della guerra. Lasciaste però a’ vostri posteri, vivuti piú lunga etá di voi, tempo non meno che funeste occasioni di strage. Parlo di te, figliuolo di Publio, di te nominato l’Africano Primo, il quale in Cartagine Nuova nella Iberia le esequie al padre ed al fratello di lui, ivi spenti, celebrasti con pompa crudele, quasi in segno funesto di estermini futuri. Allora da te invitati, combatterono su quelle tombe i sanguinolenti gladiatori, quasi che la terra, la quale ricopriva i maggiori tuoi, fosse pur ella sitibonda di umano sangue. I barbari di quella regione accorsero alla atroce festa, e vi pugnarono sfogando con le ferite certa loro feroce demenza. Che piú? Due principi cugini, Orsua e Corbis, i quali contendeano per la signoria della cittá Ibis, la decisero con l’armi a quelle tombe come consagrate al sangue, ed Orsua vi fu spento dal suo competitore.
Quindi i vessilli tuoi apportavano la distruzione dovunque erano mostrati. Veggo la misera Astapa stretta dalle funeste legioni tue, perché cittá fedele a’ Cartaginesi. Ella stimò cosí orrenda sciagura il divenire serva de’ Scipioni, che i suoi cittadini deliberarono di perire tutti anzi che sopportarla. Adunarono pertanto le suppelletili piú preziose nella piazza, e sopra quelle collocando le donne ed i fanciulli, poi le circondarono di secche stipe e di aridi tronchi. Cinquanta giovani stavano con le faci pronti ad incendere queirinfausto rogo quando entrasse l’atroce vincitore. Frattanto risonavano le triste imprecazioni di quella turba innocente contro la perfida crudeltá de’ Romani i quali perturbavano il mondo. Uscí quindi contro noi tutta la gioventú atta alle armi, disposta a non sopravvivere alla sconfitta. Ma la fortuna, complice delle nostre oppressioni, gli stese tutti sul campo. A tal novella i pochi rimasti dentro la cittá svenavano le donne ed i fanciulli, e gettavano i corpi loro semivivi nelle fiamme, le quali erano quasi spente da rivi di sangue. Se medesimi poi, stanchi per la miserabile uccisione, lanciarono nell’incendio in cui era consunta la patria. Sopravvennero i Romani, e volendo rapire dal fuoco l’oro e l’argento che vi splendeano, alcuni furono abbronzati, altri compresi dalle fiamme voraci per l’aviditá della preda. Il quale esempio di maravigliosa crudeltá era sufficiente da sé a macchiare la fama della tua progenie per sempre. Nondimeno volesti, quasi gloriosa impresa, rinnovarla di poi in Italia con la cittá di Locri. Essa avea nella Magna Grecia seguitata la parte de’ Cartaginesi, antichi suoi dominatori. Ma tu a punire la necessaria ubbidienza di que’ cittadini, vi spedisti il tuo legato Quinto Pleminio giá infame per gli tristi suoi costumi. Conforme a’ quali abusando della vittoria, permise che i suoi guerrieri dalle paterne braccia rapissero le fanciulle, e gli adolescenti perfino dal grembo delle madri con nefanda licenza. Pianto, morti, stupri, smanie empievano quella cittá manomessa dal furore. Le quali estreme scelleratezze quantunque non furono da te eseguite, o inesorabile capitano, furono però tue egualmente, perché da te approvate con atroce connivenza. —
Sospese allora Pomponio il suo ragionamento. Oh maravi glia! Scipione tacea. Gli altri pure di sua stirpe orgogliosa aveano mute le labbra, dimesse le ciglia, pensierose le fronti. Ma Pomponio con vie piú animosa voce prosegui: — Or teco io parlo, Scipione Emiliano, distruggitore delle cittá, e della misera Cartagine spezialmente. I cittadini suoi, giá oppressi dalla fortuna, accorreano a te supplichevoli e pronti ad ogni condizione. Ma quella emula della gloria romana dovea perire: tal era il decreto degl’implacabili Conscritti. Si dovea romper quell’argine molesto alla nostra ambizione. Ve’ che riducesti con poca resistenza e con molta crudeltá a deserte ruine quella vasta, antica, fiorente cittá, la quale per sette secoli avea stesa ne’ mari la temuta sua dominazione! Mirasti pur con gli occhi tuoi la consorte di Amilcare, allora capitano di quell’Imperio cadente, per non divenire tua schiava, trafiggere i suoi figliuoli, gittarli nelle fiamme che ardevano il tempio di Esculapio, invocare con terribili sensi la vendetta del cielo, e se medesima poi lanciare in quelle. È fama però che quando vedesti dileguata dall’aspetto degli uomini quella maestosa cittá, alcuna lagrima ti stillasse dalle ciglia, alcun sospiro esalasse dal tuo petto feroce. La qual pietá non chieggo se fu verace: ben so ch’ella non è diversa da quella del carnefice il quale col teschio in mano deplorasse avere spente le altre membra. So che proseguendo le devastazioni gloriose, diroccasti immantenente le cittá tutte dell’Affrica alleate de’ Cartaginesi. So che ridotta quella regione a deserta arena, fu poi con orgoglio denominata provincia romana. So che a te rimase il titolo di Affricano Secondo, e fu consegnata l’Affrica a’ proconsoli, i quali con le impunite loro concussioni vi perpetuarono il flagello della conquista.
Ma giá la Iberia, divenuta il teatro sanguinoso della gloria de’ Scipioni, ti chiamava ad imitare colá i domestici esempi. Impallidivano giá al formidabile nome tuo le madri e le consorti in quelle meste regioni ancora fumanti del sangue de’ figliuoli e de’ mariti. Ecco tu stringi di assedio Numanzo valorosa. I cittadini suoi, liberi ed illustri per lo disprezzo della morte, invano provocavano le tue legioni a combattere all’aperto. Temporeggiando evitasti il formidabile e continuo invito di quelli, i quali di niun’altra cosa aveano timore se non della servitú. Rattenesti l’esercito negli alloggiamenti, e solo con la trista penuria angustiavi quella generosa virtú. Non sembravano ornai viventi i Numantini, ma scheletri, ma larve. Le angosce della fame, oh nefanda cosa!, gl’inducea a troncarsi l’un l’altro con agguati la vita languente, e divorarne le membra giá dalla inedia consunte. Pure in cosí orrenda necessitá que’ cittadini, anzi che cedere le spade, se le rivolsero contro scambievolmente, deliberati morire con la patria. Intanto destavano l’incendio in ogni parte, ed al suo funereo splendore se medesimi sagrificavano alla agonizante libertá. Poiché furono consunti dalle fiamme e dalle spade cosí gli alberghi, e gli arredi, e quasi tutti gli abitanti, i pochi sopravvissuti alla calamitosa distruzione, barcollando nelle vie fumose e deserte, giunsero alle porte e le aprirono lasciandoti signore de’ famelici spettri in cittá desolata. Pur anco quelli vendesti come giumenti, senza pietá della miseria loro, senza rispetto per quella generosa loro ostinazione.
Oh sterminatore di popoli innocenti! Oh tiranno di liberi! Non sei tu quegli il quale immantenente punisti la cittá di Lutia perch’ella commiserando l’oppressione di Numanzo promettea di porgerle aiuto? E quantunque non fosse ridotta ad effetto quella benigna intenzione, pure tu sentenziasti Lutia a consegnarti quattrocento suoi giovani, a’ quali facesti per vendetta ignominiosa troncare le mani. Oh barbare imprese, odiose alla memoria, spaventevoli all’udito, e le quali nondimeno fregiarono il tuo nome col titolo pomposo di Numantino! Se tanta caligine ingombrò allora i nostri ciechi intelletti, e tanta viltá fece palpitare i timidi nostri cuori, che ammirammo opere contrarie alla umana ragione ed apertamente vili, crudeli, scellerate, io me ne dolgo,