Le notti romane/Parte prima/Notte prima/Colloquio VI
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COLLOQUIO SESTO
Episodio contenzioso sulla morte di Scipione Emiliano
e conclusione su quella di Cesare dittatore.
Egli avea appena cosí detto, quando apparve una immagine
feminile in contegno di verecondia soave. Ella sgombrava con
lenta mano il velo dalla fronte, e tenea dimesse le palpebre lagrimose.
Quegli perplesso nel rimirarla tacea, ma poi stendendo a lei
le braccia, lieto proruppe: — Sei tu dunque, Licinia, la quale invano
io sempre ho ricercata in questa eterna peregrinazione? —
E quella rispose con tenera voce: — Sí, dessa io sono, la tua
misera consorte. Non fu estremo per me quel giorno, ma trassi
breve e trista vita di poi, assai piú lamentevole che la morte.
Quante rimanemmo vedove per quella discordia fatale, a tante
fu vietato il cingere la stola di pianto, ed a me tolta anche la
dote. Cosí i nemici patrizi sfogarono perfino col sesso imbelle
i loro malvagi rancori. Ben tremila cittadini giacquero nel conflitto
di quel giorno, in cui scorrea il Tevere tinto di sangue romano.
Fulvio stato consolo, giá trionfatore de’ Galli, il piú illustre de’
tuoi seguaci, fu ucciso da’ Padri in un bagno insieme con un suo
figliuolo. Rimase in ostaggio presso agli implacabili senatori
un altro di lui figliuolo nel dieciottesimo anno, leggiadro quanto
innocente. Chiedea pietá, e dovea ottenerla dalle rupi; ma non
la ottenne dalla ferocia togata, e fu spento. —
Allora esclamò Caio con impeto: — Ecco il premio dato a’ difenditori della tua libertá, popolo ingrato, e di goderla imme ritevole! Venni quel giorno esecrabile nel comizio senz’armi, senza difesa. Le leggi erano il mio scudo, le parole il mio dardo. 1 consoli aveano per lo contrario seco arcieri cretesi espertissimi nel saettare, e da loro stipendiati a ben trafiggere i petti romani. La plebe vinta rifuggí all’Aventino, dove fu di lei sterminio sanguinoso. Io ancora mi vanto di non avere tratto il ferro in quella giornata crudele, pronto a morire innocente piuttosto che a vin cere co’ misfatti. E pure me, tribuno vostro, fratello di questo poc’anzi a voi caro e per voi morto, abbandonaste al furore de’ Conscritti. Non ebbi fra voi un solo che mi difendesse: mi vedeste oppresso senza prestarmi altro conforto che di parole, esortandomi diverse voci vostre vilmente a fuggire. Mi sottrassi alfine, e mi ricoverai, siccome asilo conveniente alla mia disperazione, dentro la selva alle Furie consacrata. Fremea in quella il vento e corrispondea alle mie querele contro la sconoscente plebe e la perversitá della fortuna. Rimanea meco soltanto il mio servo Filocrate, il quale mi prestò gli estremi uffizi della sua fedeltá immergendomi nel cuore la spada. —
Qui il tribuno tacque. La sua consorte appoggiava mesta ambe le mani sull’omero di lui, e declinava sovr’esso la rosea guancia in atto di molle abbandono. Egli volgea verso lei il volto, nel quale erano in conflitto costanza e commiserazione. Io avea giá considerato, mentr’egli ragionava, che quanto il suo fratello era grave, posato e decoroso nel porgere, altrettanto questi declamava con veemenza spesso tendente all’ira. Tutti gli spettri sembravano tacendo rivolgere ne’ loro pensieri gli uditi ragionamenti. Nella qual sospensione vidi inoltrarsi una armata larva simile a guerriero in procinto. Ella scuotea le armi sue con minacciosa baldanza, e insieme fisava le truci pupille a’ due fratelli tribuni. Risonava l’aere per lo squillo dell’armadura. Quelli taceano quasi vinti da maraviglia; ma la madre loro volse i maestosi occhi allo spettro audace, piegando la manca sul fianco e la destra ad una tomba de’ suoi. La nuova larva cosí allora incominciò:
— Siete, ben vi ravviso, fratelli sediziosi, stirpe funesta alla patria, i quali senz’armi faceste a lei guerra piú fatale d’ogni aperta violenza. Voi seducendo la plebe con la impossibile eguaglianza delle fortune, eccitaste perniziosi tumulti non che in Roma, in Italia tutta. Fosse pur la tanto da voi promossa legge utile e giusta nel suo principio, quando però da secoli era trasgredita, non si potea richiamare alla osservanza che inducendo nelle proprietá una tumultuosa incertezza. Contro la quale perturbazione della giustizia alzarono meritamente gli Scipioni la fronte coronata di allori trionfali. Pertanto Nasica ti spense, o Tiberio, in necessaria e giusta guerra nel comizio, siccome pubblico nemico. Ed io pur apertamente mi ti opposi, o tristo Caio, io figliuolo di Paolo Emilio mirabile trionfatore, io quantunque non nato fra’ Scipioni pure ascritto alla stirpe loro, e di quella degno, io distruggitore di Cartagine, io tutela vostra, o Romani, e terrore de’ vostri nemici, Scipione Emiliano. Or voi plebei fratelli, piú congiunti di colpe che di sangue, narraste le crudeltá nostre, ma trapassaste le vostre con silenzio artifizioso. Ma chi sparse in quelle da voi eccitate discordie fatali il primo sangue? Tu, plebe atroce, sempre indegna di libertá perché la depravi in licenza: tu vile quando oppressa, baldanzosa quando libera, commettesti il primo attentato nella inviolabile persona del tribuno Ottavio. Fu tratto a furore di volgo da’ rostri, mentre vi aringava, e potè salvarsi a stento per la maravigliosa fedeltá di un servo. Questi degno di libertá piú di voi, si frappose nel tumulto a riparare le percosse, tanto che da quelle gli furono spenti gli occhi nella fronte. Farmi ancora vederlo errare a tentone per lo comizio con le cavitá degli occhi vote e sanguinose, e chiedere altrui contezza del suo signore. Doletevi pertanto di voi stessi, i quali avete insegnato a stendere audace mano sopra i tribuni, e che spregiando ogni autoritá rendeste necessaria la violenza. Io medesimo sono un esempio funesto della ferocia vostra, il quale benché marito di Sempronia vostra sorella, anteposi la benevolenza della patria a quella de’ congiunti. Io stava come insegna alla quale tutti rivolgeano gli occhi e le speranze per la salvezza comune. Quella io difendea nel comizio con la voce e con mansueti costumi civili. Ecco però che fui desto nella notte, mentre io giacea nelle placide ombre del talamo con la consorte, da incognito insidiatore, il quale mi strinse le fauci all’improvviso. Era ancora dubbiosa la mente mia s’io sofferissi vera morte o tristo sogno, quando m’ingolfai in queste caligini eterne. Certo è morte felice il cadere nel campo della vittoria, e mirare con pupille agonizzanti il nemico fuggitivo; ma perire d’insidie crudeli nel mio talamo, nel sonno, è morte che ancora desta a vendetta lo sdegnato pensiero. — Cornelia ascoltava con altero silenzio, immota nell’atteggiamento, intrepida nel volto; e poich’egli tacque, ella incominciò: — Se ti duoli che ti fosse troncata la vita oltre l’undecimo lustro, quand’eri giá saziato di gloria e di fortuna, quali non saranno i lamenti di questi miei figliuoli alla aurora di giorni illustri, in florida etá, speranze del popolo, terrore della tirannide, maraviglia di Roma, uccisi in modi, come udiste, crudeli? Quand’eglino caddero, furono pianti da tutta l’Italia, ma non da questi occhi miei. A donna qual io sono di magnanima stirpe, a madre di generosi tribuni oppressi per cosí illustre cagione, era ben piú convenevole una altiera allegrezza. Io mi vanto d’avere generati costoro, morti, quantunque indarno, per voi, Quiriti miei. Solo mi duole che spenti questi, io non ebbi altri quali sofferissero egualmente l’ira togata, e le nobili frodi, e le insidie patrizie per quelle alte contese. Io non so chi sia reo della tua morte infelice; ben so che tu adottato per suo figliuolo da mio fratello, ti facesti condottiero della tirannide contro Caio mio figliuolo. So che il Senato propose il premio di tanto oro quanto fosse il peso del teschio di Caio a chi lo recasse troncato. So che il patrizio Septimuleo lo offerse al consolo Lucio Opimio, avendovi prima infuso piombo liquefatto per ottenerne piú ricco guiderdone. Oh Romani! Vedeste pur nelle bilance librarsi il teschio di questo piú della patria figliuolo che mio con altrettanto oro, e premiate a un tempo l’atrocitá e la frode. —
Da tale amarissima novella perturbato, lo spettro di Caio fremea come vento che romba sotterra. Ma l’Emiliano ancora non soddisfatto della sua inchiesta, in quella insistendo cosí replicò: — Or qui dunque si deplorano soltanto le sventure de’ sediziosi plebei, né alcuno sa, o ardisce riferire almeno il suono della fama intorno a’ miei ucciditori? — Tacque, ed aspettava, con onesto contegno, alcuna risposta. Udii quindi un susurro di miste favelle, e parea che alcune larve giá prorompessero a svelare il tristo arcano, ed altre sembrava che le rattenessero ponendo loro le mani sulle labbra. Intanto vidi trapassare una larva fuggitiva, che parea ansiosa di sottrarsi alla moltitudine. Era l’aspetto suo di timida donna, e sollecita di nasconderlo si copriva col velo. Ma uno spettro la raggiunse, impugnò la sparsa di lei capellatura, squarciò il velo, e mostrando all’Emiliano quel volto dolente, disse: — Eccola, non la ravvisi? — Questi subitamente sciamò:
— O mia consorte, o Sempronia, perché da me fuggi, e perché in tal modo manomessa? —
— Taci, — rispose con ira quello spettro il quale la ratteneva, — perocché allora fu trista fama che si dimostrasse, in quella per te estrema notte, costei ben piú sorella de’ Gracchi, che tua consorte. Ella pertanto fuggiva spinta dalla conscienza del suo misfatto. —
Mentre quegli dicea, la donna scuotea il capo e tentava di sciogliere i capelli dalla mano che li stringea. Ma invano, perocché lo spettro vie piú sottomettendola minaccioso, aggrottava le ciglia e fisava in lei torve le sue pupille. Ella tenea dimesse le palpebre, ed appena ardí alquanto innalzarle per rivedere il suo consorte, ma poi immantenente le declinò, come se quella vista le fosse dolorosa. Tutta l’adunanza era ingombrata da un mesto silenzio, quando l’Emiliano pose la destra alla fronte quasi mostrasse orrore di quel sospetto. Fiso quindi gli occhi a quello spettro il quale tenea la donna sottomessa, e riconoscendolo pro ruppe: — Ahi ben amato Lelio, pur mi serbi la tua dolce e quasi fraterna benevolenza? — Quegli divenne lieto, sciolse la donna, stese a lui la destra, e rispose: — La virtú è immortale. — Quindi mirando la donna che disciolta fuggiva, egli aggiunse:
— Or sappi che ti sopravvisse colei vita contaminata da sospetti ignominiosi. Suonò un tristo remore ch’ella in quel tradimento fosse ministro crudele della plebea congiura. Ecco non ardiva alzare a te le insidiose pupille, non muovere le simulatrici labbra, non sostenere la presenza tua. Oh stirpe funesta! Né tu, Caio, fosti esente dal sospetto di esser complice fra quelle tenebre fatali. Né tu, Cornelia, quantunque d’illustri costumi, fosti libera dalle odiose imputazioni per quel tristo avvenimento. —
Alle quali parole divenne vie piú maestosa la matrona, chiese con la destra silenzio, fiso le pupille all’Emiliano stesso, e con intrepido volto rispose: — Certo io non so qual delle nostre sorti sia la piú indegna, o Quiriti miei: se la mia per la quale soggiac qui a cosí stolta calunnia, o la vostra di vivere in tal corruttela che gli oltraggi suoi giungessero fino a Cornelia. Io esposta in alto alla comune considerazione, splendea co’ belli costumi e con decorosa innocenza della vita. Erano i miei pensieri, per indole mia propria, espressi nella fronte, né vi fu in tanta baldanza di quella etá chi ardisse farmi palese cosí vile opinione. Si radunavano anzi intorno a me, fino agli anni estremi, e nella solitudine in cui li trapassai, i piú chiari cittadini, e per la benevolenza comune fui riputata Madre da ciascuno di voi. Ecco dileguate le cagioni di nascondere il vero: qui può ciascuno manifestare i vizi e le virtú della sua vita liberamente. Se avessi avuta alcuna partecipazione nella tua morte arcana, invece di qui negarla ne sarei beta, come di impresa utile alla nostra libertá. Non però con frode, non fra le tenebre mute avrebbe Cornelia operata alcuna illustre vendetta, ma al cospetto di voi, della terra, dell’universo. —
Quindi ella tacque, e mirava intorno altera se alcuno si movesse ad accusarla. Un silenzio riverente anzi manifestava la opinione della innocenza sua, finché tal voce proruppe: — O figliuola dell’Affricano, la tua virtú sorge al cielo quasi rupe, sotto alla quale freme invano la calunnia tempestosa! — Allora Lelio continuò: — Magnanima donna, quella benevolenza a voi tutti nota, la quale io ebbi in vita per questo splendore della patria nostra, mi fa ancora dolente della sua barbara morte. Or si rinnova nell’angoscioso pensiero la memoria di quell’evento crudele. Ma qui, dove non v’è utilitá alcuna di mentire, assai ti difenderebbe questa voce della moltitudine, se la tua sola non fosse per se medesima vittoriosa. —
Mentre eglino aveano cosí ragionato, sparve l’ombra di Caio quasi evitando quell’esperimento della veritá. La madre si attristò per quella fuga, e dimessa la sua nobile baldanza, guardava Tiberio con occhio mesto e sospettoso. Questi pure con l’umil fronte e col silenzio mostrava non bastare né la sua facondia, né la benevolenza fraterna a difendere la causa del contumace. Per la qual cosa il Dittatore alquanto sorrise, e volgendosi a Bruto ripigliò: — Vedi se tanta corruttela poteva nominarsi libertá! — Quegli rispose: — Ben ti compiaci d’esser nato in patria guasta da’ vizi, perocché i tuoi vi trovarono esercizi quotidiani, occasioni pronte, ed opportunitá preparate. Che se tu fossi vivuto in tempi moderati dalla egualitá civáie, meglio si sarebbe allora distinto l’animo tuo ritroso a sofferirla. —
— T’inganni, — Cesare gli rispose, — avvegnaché avrei certo bramato di trapassare tutti nella gloria, ma non nella potenza. Io strinsi il ferro non per opprimere Pompeo, ma per non essere oppresso da lui. Qual poi sarei stato in una patria saggia, appare da quello che fui in una stolta. Imperocché dove la crudeltá era applaudita, la clemenza derisa, la vendetta necessaria, io temperai con grazia e con umanitá la mia fortuna. Che se di alcuna virtú mi debbo pentire, è di quella per cui l’uomo s’innalza a celeste natura, la facilitá al perdono. Siila grondante di sangue civile visse provetto e illeso in ozi campestri; io sempre avaro del vostro e prodigo del mio, fui spento dagl’ingrati. — Cosí dicendo físava gli occhi in Bruto e parea inclinasse all’ira. Questi pure si perturbava a tale rimprovero, di modo che l’antico avvenimento ridestava nuovi sdegni in que’ generosi intelletti. Ma Tullio interponendosi disse: — Pace, o emuli illustri: assai ne duole vedere qui non ancora placate le piú grandi anime fra noi. Quantunque cosí diversi di sentenze e di costumi, pur foste maravigliosi, l’uno per certa severa e quasi divina virtú in mezzo delle corruttele, e l’altro per la sua bontá nell’imperio assoluto. Che se non fosse piú nobile possedimento la libertá, soave era al certo la potenza del Dittatore: chiamalo tiranno, se vuoi, ma fu di tutti il migliore. E però siccome non vi fu mai piú onesto cittadino di Bruto, cosí non vi fu mai despota in somma prosperitá piú di Cesare moderato. Deste pertanto al mondo ambedue un esempio incredibile, per modi contrari, della eccellenza di vostra natura. L’uno rimase qual unica face di virtú nella notte de’ vizi; l’altro, sospinto in mare crudele di sangue e di misfatti, si preservò innocente quanto concede una altissima fortuna. —
Alle quali parole, pronunziate dall’oratore con mansuetudine confacevole a moderare lo sdegno in qualunque, lo spense in loro agevolmente, i quali giá tanto gustarono in questa vita le sue splendide sentenze. Come si dileguano le nubi al soffio di zefiro, cosí da quelle sembianze si sgombrò ogni perturbazione. Il Dittatore stese il primo la destra vittoriosa; e Bruto allora si coperse col lembo della toga il volto, quasi velando altrui quella pietá che lo commovea. Tullio, il quale non avea mai veduto in quella fronte austera alcuno indizio di molli pensieri, era prossimo a versar lagrime per la dolce compiacenza di quegli effetti delle sue parole. La moltitudine spettatrice dal mesto silenzio proruppe in flebile strepito come di mare udito da lontano. Io giá sentiva per le guance scorrermi le stille della pietá, veggendo commossi animi tanto prodi, e per cosí eccelse cagioni. Quando Cicerone, scosso da súbito pensiero, a me disse con tristezza affettuosa: — Giá il mondo volge questo emisferio a’ raggi del sole, e siamo costretti di trascorrere alle tenebre loro contrarie. —
Ancora egli cosí favellava, che gli spettri si dileguarono qual fumo, A lui stesso mancava parlando la voce, quasi fosse allora spinto da imperio celeste alla fuga. Egli sparve pronunziando quelle ultime parole, ed io rimasi con gli occhi desiderosi, il cuore palpitante e le pupille sommerse nella oscuritá. Non era ben consapevole a me stesso di me, se fossi vivo, desto, spento, o sognante. I ragionamenti vari, gli spettri innumerevoli moveano ancora l’intelletto a maraviglia e percuoteano il cuore di molle commiserazione. Io poscia dolente, perché abbandonato da quelle anime valorose, incerto di rivederle e di ascoltarle, pur con supplichevole voce le invocava. Ma le grida mie risonavano senza effetto nelle inesorabili tombe. Rivolsi pertanto i dubbiosi passi a tentone fra le ossa, che talvolta mi scrosciavano sotto il piè vacillante, e rividi il cielo. Giá l’aurora stendea il roseo velo, e zefiro lo scuotea con dolce alito, precorrendo la trionfai luce del sole. Era grato il respirare quel rugiadoso aere a me uscito allora dalle tenebre inferiori. Mi avviai pertanto al mio soggiorno, dove oppresso ornai dalla stanchezza, giacqui. Ma la mente nel sonno volgea pure quelle immagini divenute giá tiranne d’ogni mio pensiero.