Le notti romane/Parte prima/Notte prima/Colloquio V

Notte prima - Colloquio V

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[p. 39 modifica]pitava, credilo, il cuore nel petto quando spinsi i cittadini contro i cittadini. Temea specialmente o incontrarti, o vederti giacente. Ma tu sitibondo del mio sangue, o male amato uomo, potevi pur saziartene con onore quel giorno, andando in traccia di me esposto alla fortuna dell’armi. Certo era piú leale impresa per te il cadere in prova cosí audace, che il sopravvivere implorando la mia clemenza, ottenerla, serbare molti anni vendetta nel cuore, bontá nella fronte, ed alla fine squarciato il velo palesarti sinceramente perfido ed ingrato. Ancora mi sembra vederti col ferro grondante e gli occhi truci, ne’ quali io tardi avveduto lessi la sentenza della mia morte. Spirai, credo, piú di stupore che di ferite, veggendo miei insidiatori quelli ne’ quali avea collocati maggiori benefizi e fidanza maggiore. Fra’ quali allorché ti vidi, io lasciai la difesa di una vita perfino a te odiosa. Avvolta la fronte nella toga, abbandonai a’ vostri ferri le membra, e gemendo

10 spirito s’ingolfò nel pelago della morte. Qual sia poi stato l’imperio mio, se paterno, clemente, leale, a voi spetta o Romani

11 farne libera testimonianza. Tu però. Marco, avevi pur vedute continue guerre civili non per la libertá, ma per la scelta d’un tiranno. Fu pertanto la tua mente oscurata da funesta obblivione quando sperasti che, me uccidendo, non vi fosse altri di me peggiore e pronto a manomettere un popolo di servi. —


COLLOQUIO QUINTO
I Gracchi.


Cesare tacque, e mesto fisava gli occhi in Bruto, il quale declinava a terra i suoi. Udii poscia voci miste, come di moltitudine che ragiona con diverse opinioni su qualche grande avventura. Tacea pur Tullio modestamente, ritroso dal pronunziare in tanta causa. Quando Bruto, sollevata la fronte, cosí lentamente incominciò: [p. 40 modifica]— Tu favelli da tiranno qual fosti insidioso e lusinghiero. Niuna meretrice fu mai cosí perita nel sedurre gli amanti come te nell’indurre gli uomini in servitú. Mal ti vanti però avere conceduta la vita a chi togliere non la dovevi. Questo è vizio speciale della tirannide, il vantarsi benigna quando si astiene da qualche ingiuria la quale sia in suo potere. Certo non è clemenza lasciare in vita quelli che difendono la patria e la libertá degli avi: è malvagitá combatterli, è delitto spegnerli. Forse non ritrovasti, nel tuo ostile ingresso in questa cittá, le vie deserte, le abitazioni vote, i consoli, il Senato, i patrizi, i sacerdoti, e tutti per fine i migliori, concorsi presso Pompeo? Ivi pertanto era la patria sincera, ed a te rimase in queste vie la timida plebe. Né per velare il tuo misfatto conviene che tu ricorra alla pretesa necessitá di imperio assoluto: perché ragioneresti come l’empirico, il quale uccide l’infermo e poi declama ch’egli vivere non potea.

Narrasti con diligenza artificiosa le nostre civili perturbazioni affine di stenderti la via a quella, per te convenevole, conseguenza, che la sola podestá assoluta potea sedarle. Ma se Pompeo avea cosí la fortuna come la giustizia dalla sua parte, avresti veduto che la patria non era in quella disperata condizione. Egli terribile a’ nostri nemici, e per noi mansueto, splendido, e non mai fastoso di gloria, sempre moderato negli eventi piú felici, non bramava altra dignitá in patria che una libera fiducia nelle sue virtú sincere. Quanto i suoi trionfi lo innalzarono sopra ciascuno, tanto si compiacque di scendere alla eguaglianza comune. Egli sommesso agli ordini civili, sincero amatore della concordia, riverente al Senato, di niun’altra dignitá era piú lieto che di quella di cittadino. Tu invece di niun’altra cosa piú esultavi che di schernire quel ceto venerando, beffarti di ogni legge, e dichiarare la patria stolta. Perciò narrasti le atrocitá di Siila, e tali pur furono. Ma quegli almeno gettò la mannaia, o stanco o saziato, e disse: “ Eccomi a voi pari, e pronto a rendervi ragione di quanto sangue ho sparso ”. Il quale atto diffonde mirabile splendore su quelle atrocitá. Egli uccise molti cittadini, ma non la patria. Tu invece facesti e l’una e l’altra uccisione. Di niuna cosa però tanto mi maraviglio, quanto del tuo rimprovero ch’io ti abbia trafitto [p. 41 modifica]insidiosamente. E in quale altro modo si possono mai o si debbono eseguire queste imprese? Ebbi i migliori cittadini consapevoli e lodatori del mio proponimento, né vi fui mosso che dal continuo ed unanime consenso loro. Fu quella guerra assai piú giusta della tua in Farsaglia, benché non egualmente avventurosa. Tanta è poi la tua dissolutezza, che mi appelli figliuolo, e mi gravi che abbia offesa quella dolce benevolenza di natura. Ma la dignitá de’ costumi vieta che si palesino gli effetti delle colpevoli dimestichezze. Che se tu mi generasti nel talamo non tuo, io ti ho spento perché la patria vivesse. Io posposi ogni altro all’amore di quella: fu il cuore di gelo per gli affetti stranieri, e solo infiammato da cosí generosa vendetta. Non odiai però Cesare, ma la tirannide sua. La mano tremò quando immerse il pugnale, vacillò il pensiero, e fu in pericolo la mia virtú. Or ti basti, magnanimo nemico, l’avere anche per un momento resa perplessa la costanza di Bruto. —

Disse, e tacque. Poi stese la mano al Dittatore, il quale benevolmente la strinse, e parea che ad ambi scorressero per le guance lagrime furtive in contegno maestoso.

Rimaneano i due illustri emuli in quell’atteggiamento, quando usci della turba una matrona la quale traeva per mano due giovani audaci nell’aspetto, ed esclamò: — Ecco, o Romani, le prime vittime della tirannide, i vostri mal premiati difenditori. Niuno si vanti d’essere stato per cosí illustre cagione piú misero di loro, e niuna madre presuma di avere generati fra noi cittadini migliori di questi. — Cosí dicendo ella sciolse i due giovani dalle mani, gli spinse nel mezzo, ed aggiunse: — Parlate or voi. —

Un di loro pertanto con mesta voce incominciò: — Io spero che ravvisate in me, quantunque senza membra, Tiberio Gracco; questi è Caio, mio germano; e questa non fa mestieri che alcuno vi rammenti ch’ella è Cornelia, nostra genitrice. Riconoscete agevolmente all’aspetto maestoso la figliuola di Scipione Affricano, la erede della sua magnanimitá. Noi siamo qui spinti da onda procellosa, or commossa nel pelago della morte, a tali venerevoli spoglie. Tu devi, o madre, confortarti perché miri, dopo [p. 42 modifica]lunga etá, questi avelli dove stanno le ceneri gloriose di tua stirpe. —

Come nube all’improvviso adombra la splendente luna, cosí queste parole oscurarono di tristezza il maestoso volto della matrona. I figliuoli stendendo le braccia a lei sembravano confortarla. Tutta l’adunanza tacea con maravigliosa calma, segno manifesto di riverente aspettazione. Quand’ecco la donna con dispettosa mano sgombrò il velo dalla fronte, e scosse il capo cosí che le chiome disciolte ondeggiarono su’ candidi omeri; quindi pro ruppe: — Misere ossa invano bagnate dalle nostre lagrime! Dunque non furono sufficienti né la fama delle opere, né lo splendore delle virtú a preservarvi dagli oltraggi piú indegni? Non la cura nostra di collocarvi in questi avelli, non i vostri nomi su loro scolpiti vi sottrassero alle ingiurie della fortuna. Vedemmo pure a queste urne avvicinarsi i Quiriti con silenzio doloroso. Me fortunata che lasciai il velo caduco in Miseno, dove trassi l’ultima parte della mia tumultuosa vita narrando, con degno orgoglio, le vostre sventure, o generosi figliuoli, e quelle dell’almo padre mio! Tu pure meno di costoro misero, o grande Affricano, perché lungi dalla patria sconoscente, volgesti gli anni estremi della vita illustre in Linterno con ozio dignitoso, dove lasciasti le tue spoglie mortali! —

Cosí dicendo, ella squarciava le bende matronali avvolte a’ capelli e stillava dagli occhi lagrime di sdegno. Allora Tiberio a lei cosí benignamente favellò: — O madre, niuna cosa è esente quaggiú dall’imperio del tempo. Le genti innanzi noi famose sofferirono le sue ingiurie come ora noi qui le soffriamo. I secoli incalzano onda sopra onda, sommergono le umane grandezze, e le spingono dentro gli abissi della obblivione. Su questa terra appaiono e spariscono le generazioni come ombre fugaci. La vivente passeggia sulle tombe degli avi. I turbini dispettosi spargono alla fine in polvere le moli superbe, le umili tombe, le ceneri compiante. Deh non contendere, o madre, col fato comune ed eterno! — E quella intrepida rispose: — Niun tempo dovea spegnere la gloria de’ Scipioni, perch’ella empie l’universo di splendore. Certo l’Italia ora è esposta agli insulti de’ barbari e [p. 43 modifica]de’ corsali, o forse è deserta, o in potere di conquistatori che la istoria nostra hanno sommersa nel sangue de’ vanti. Niuno qui piú intende il nostro idioma, niuno udí mai il suono della fama antica, perocché altrimenti non sarebbero cosí manomessi questi avelli dove erano scolpiti que’ splendidi nomi. — Alle quali parole io fui prossimo a lanciarmi nel mezzo e difendere la nostra etá. Ma prevalse il desiderio d’ascoltare que’ ragionamenti maravigliosi, turbando i quali con molesti garrimenti io temei che le ombre non si dileguassero sdegnose.

Tullio intanto, e Cesare, e Bruto, ed Antonio, e le piú illustri larve contemplavano con ansietá quelle sembianze famose, da loro non mai, siccome posteri, conosciute. Era l’aspetto di Tiberio grave e mansueto, quello di Caio torbido ed iracondo. L’etá loro parea infra il trigesimo anno. Cornelia avea le sembianze di bellezza matura senza gli oltraggi del tempo. Non rimanea in loro alcuna mollezza femminile. Gli occhi quasi marziali, il ciglio severo, le tumide e composte labbra aliene dal sorriso ornavano quel volto di una casta e grandiosa eleganza. Ma Tiberio, poiché volse intorno lo sguardo, cosí benigno incominciò:

-— Ancora parmi conoscere, o miei Romani, espressa nelle immagini incorporee, l’antica vostra benevolenza. Riconoscete pur voi me spento per la vostra libertá. Erano queste mura nominate patria da’ ricchi, per noi ovile della tirannide loro. Noi oppressi perpetuamente dalle usure, sempre debitori, e prodighi sempre del sangue nostro, eravamo spinti alla guerra da’ consoli per togliere loro il tedio prodotto dalle giuste nostre querele. I patrizi empievano le orecchie altrui con quelle venerevoli parole: patria, Repubblica, gloria, grandezza del Popolo Romano; ma i loro scrigni con oro, e il ventre co’ splendidi conviti. Fino dalla fondazione della Repubblica, determinava pur la nota e sempre delusa legge Licinia che le terre pubbliche acquistate dall’esercito fossero distribuite al comune. Ma que’ medesimi campi che avevano le zolle intrise del sangue nostro, furono sempre donati a’ patrizi, i quali giaceano a lieta mensa intanto che noi lo spargevamo. Io tribuno per voi prodi e mendici, a’ quali trasparivano dal saio sdrucito le cicatrici marziali, offersi il petto mio contro [p. 44 modifica]questo furto antico. Furono i miei modi in combatterlo civili, cioè la legge e la ragione. Ma gli insidiosi avversari sottrassero destramente dall’adunato comizio le urne e le schedole, mentre i suffragi erano in procinto. Col quale artifizio delusi i miei primi sforzi, furono poi combattuti i secondi con atrocitá manifesta. Vedeste i Padri togati avventarsi contro me sostenuti nella perfida violenza da’ loro servi e clienti. Io mi studiava di sedare quel tumulto con le parole. Ma niuna umana voce bastava a superare lo strepito immenso del comizio tempestoso qual mare. Quindi non potendo in altro modo farvi noto in qual pericolo io fossi, portai la destra al capo accennandovi ch’egli era esposto ad imminenti oltraggi. Vidi allora il consolo Scipione Nasica raccogliere con la sinistra la toga, alzare la destra, e trarre seco il Senato e satelliti suoi contro me subitamente. Egli certo sciamava feroci e tumultuose parole, come alle labbra ed agli occhi suoi era manifesto, ma io non intendeva quali. Veniva contro me il furore togato quasi onda che sommerge. I Padri Coscritti rompevano sdegnati gli scanni del comizio, e armati con que’ frammenti, assalirono la mia inerme ed inviolabile persona. La stupida plebe cedeva a’ Padri, se di tal nome sono degni gli oppressori, e rimanea anche prostrata dalle percosse de’ fusti loro. Io strascinato per le vesti, e colto da gravi colpi alle tempia, spirai dolente piú del fato di Roma che del mio. Or se vive in voi qualche riconoscenza verso me per voi estinto miseramente, deh mi narri alcuno perché mossi tanto furore quando toccai la fronte, e quali furono gli ucciditori miei. —

Alla quale richiesta Caio proruppe: — Ahi dopo lunga etá ben trovato fratello in questo oceano di morte, perché brami di udire malvagitá maggiori di quelle che proccurasti correggere invano? Quel tuo cenno fu con pronta frode interpretato da’ senatori come un segno che tu chiedevi la corona reale. Quindi sciamavano gli scaltri magnificando questo desiderio tuo per concitare contro te il furore del volgo. Il consolo Nasica in quell’atteggiamento in cui lo vedesti gridava: «Chi vuol salva la patria or sia meco». Presso al quale corse l’ordine de’ patrizi quasi tratti da nocchiero disperato a naufragare con la patria [p. 45 modifica]comune. Vedemmo allora la toga, insegna di eloquenza e di pace, apportare la distruzione e chieder sangue. Tu prostrato dalla ondeggiante calca, fosti percosso nel capo da’ tuoi stessi colleghi Satireio e Rufo co’ frammenti de’ sedili. Ed era tanta la superbia de’ misfatti, che Rufo soleva di poi vantarsi di que’ colpi siccome d’impresa gloriosa. In quel tumulto non meno che trecento cittadini rimasero spenti nel comizio. Chiesi invano le tue spoglie a’ patrizi feroci, bramoso di onorarle con pompa funerale. Gettate anzi nel Tevere, scesero al mare ludibrio de’ venti. Non sazio però il Senato per quelle stragi, spinse molti in esilio di poi, altri sottopose alla scure, perché liberi d’intelletto e della giusta causa fautori. Tra’ quali C. Billio, chiuso in una botte co’ serpi, soddisfece l’ira togata che allora inventò queU’abbominevole supplizio. Ma non la tua morte, non quegli esternimi atterrirono la costanza mia, anzi le furono di sprone. Quel giorno in cui si dovea finalmente concedere al popolo il premio acquistato dal suo valore, la mia consorte, presaga ch’io non ritornava a’ suoi amplessi, si lanciò supplichevole alle mie ginocchia sulla soglia domestica stringendo un nostro fanciullo al timido seno. Io però in quell’aurora estrema, e piú chiara di tutte, solo infiammato dal glorioso mio proponimento, serbai freddo il cuore a quegli affetti i quali vincono anche le fiere. Lasciai con severo silenzio quella porta nella quale piú non entrai, e vidi in quella cadere svenuta la misera donna e forse estinta. Non mi rattenne la pietá di lei, non del figliuolo, ma quella della patria al comizio mi guidò. Certo fu maravigliosa la severitá di Bruto, il quale spense i figliuoli suoi per la salvezza di Roma. Pur egli almeno condannò giovani traditori di quella. Io vidi cadere la mia consorte innocente non solo, anzi splendida per bellezza d’animo e di persona, ed ornata di candidi costumi. —