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PARTE PRIMA
coronata di allori trionfali. Pertanto Nasica ti spense, o Tiberio,
in necessaria e giusta guerra nel comizio, siccome pubblico nemico.
Ed io pur apertamente mi ti opposi, o tristo Caio, io figliuolo
di Paolo Emilio mirabile trionfatore, io quantunque non nato
fra’ Scipioni pure ascritto alla stirpe loro, e di quella degno, io
distruggitore di Cartagine, io tutela vostra, o Romani, e terrore
de’ vostri nemici, Scipione Emiliano. Or voi plebei fratelli, piú
congiunti di colpe che di sangue, narraste le crudeltá nostre, ma
trapassaste le vostre con silenzio artifizioso. Ma chi sparse in
quelle da voi eccitate discordie fatali il primo sangue? Tu, plebe
atroce, sempre indegna di libertá perché la depravi in licenza:
tu vile quando oppressa, baldanzosa quando libera, commettesti
il primo attentato nella inviolabile persona del tribuno Ottavio.
Fu tratto a furore di volgo da’ rostri, mentre vi aringava,
e potè salvarsi a stento per la maravigliosa fedeltá di un servo.
Questi degno di libertá piú di voi, si frappose nel tumulto a riparare
le percosse, tanto che da quelle gli furono spenti gli occhi
nella fronte. Farmi ancora vederlo errare a tentone per lo comizio
con le cavitá degli occhi vote e sanguinose, e chiedere altrui
contezza del suo signore. Doletevi pertanto di voi stessi, i quali
avete insegnato a stendere audace mano sopra i tribuni, e che
spregiando ogni autoritá rendeste necessaria la violenza. Io medesimo
sono un esempio funesto della ferocia vostra, il quale benché
marito di Sempronia vostra sorella, anteposi la benevolenza
della patria a quella de’ congiunti. Io stava come insegna alla
quale tutti rivolgeano gli occhi e le speranze per la salvezza
comune. Quella io difendea nel comizio con la voce e con mansueti
costumi civili. Ecco però che fui desto nella notte, mentre io
giacea nelle placide ombre del talamo con la consorte, da incognito
insidiatore, il quale mi strinse le fauci all’improvviso. Era ancora
dubbiosa la mente mia s’io sofferissi vera morte o tristo sogno,
quando m’ingolfai in queste caligini eterne. Certo è morte felice
il cadere nel campo della vittoria, e mirare con pupille agonizzanti
il nemico fuggitivo; ma perire d’insidie crudeli nel mio
talamo, nel sonno, è morte che ancora desta a vendetta lo sdegnato
pensiero. —