Le notti romane/Parte prima/Notte prima/Colloquio II
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sono frante le ossa illustri, si muove fra noi tumulto maraviglioso, e qui siamo spinti a non mai sperato congresso. Io pertanto ragionava a’ primi che vi concorreano, i quali riconobbi per anime del volgo; e però seguendo il costume ch’ebbi in vita, declamava loro, come nel comizio, autorevolmente. —
COLLOQUIO SECONDO
Bruto e Cesare disputano sulla uccisione del Tiranno.
Mentre in questa guisa Tullio mi trattenea con benigna favella,
risonarono quegli antri di varie sommesse voci in ogni parte, e
quindi e dalla terra, e da’ tortuosi sentieri, e dalle tombe uscivano
di nuovo spettri visibili a certo ingenito loro splendore come di lucciola
palpitante. Aveano l’aspetto in gran parte conforme a quelli
giá appariti, ed in parte erano diversi. Imperocché alcuni erano
vestiti di toga prolissa, altri di saio succinto, altri armati, altri
coperti di stola matronale, per modo ch’io non dubitai che quelle
non fossero le piú illustri larve de’ Romani. Quant’erano maravigliosi
i vostri volti, e quanta la dignitá delle persone! All’apparire
di quelle, io quantunque pieno d’insaziabile desiderio di contemplarle,
pure commosso dalla maestá loro, alquanto ritraendomi
dissi a Tullio: — Reggi la mia costanza, perocché l’umano petto
non resiste ornai all’inopinato portento. —
Quegli a me stendendo la mano protettrice: — Rimani, — disse, e poi benigno mi guardò. Si rivolse quindi alle concorrenti larve, e con mansueta e nobile autoritá chiese con la destra silenzio. Rimasero immantinente le ombre tacite con docilitá maravigliosa affollate intorno a Tullio, ed io presso lui stetti con alito sospeso. Gli spettri si guardavano scambievolmente con ansietá, e Tullio quant’altri mai contemplava la moltitudine. Quand’ecco egli sciamò quasi gemendo: — O mirabile fra noi, e meritamente nominato l’Ultimo de’ Romani, non sei tu Marco Bruto? — Que gli stendendo le braccia rispose: — Son quegli, ancora pronto ad uccidere tiranni. — Quindi le ombre amiche si mescolarono in vani abbracciamenti, procurando di soddisfare con le umane consuetudini l’antica benevolenza loro.
Mentre quelle però godeano un tal dolce riconoscimento, usci fuori della turba con impeto una larva sdegnata, la quale avvicinandosi a quella coppia, fremendo proruppe: — Di che andate voi cosí lieti, quando insieme con Cesare cadde la patria, alla quale fu tolto un benigno moderatore delle discordie sue? — Bruto rivolse i biechi sguardi a quell’ombra, e disse cruccioso: — O vile Antonio, ancora sono le tue parole convenienti a’ tuoi depravati costumi! Ma poiché in vita fosti cosí schernitore di ogni virtú, lascia che ora almeno, senza la molestia delle tue derisioni, possiamo confortarci, anime da’ secoli separate e dalla benevolenza unite perpetuamente. —
Ancora Bruto cosí dicea, quando un’altra larva pur con impeto si mosse, quasi accorrendo a gravissima contesa. La moltitudine lasciava ch’ella s’inoltrasse, come cede il volgo apparendo nobile persona. I due spettri, i quali aveano incominciato a garrire, tacquero, e guardavano a quella. Ella intanto veniva tacendo, e fisava in loro le torve pupille. Era quel silenzio come la calma che minacciosa precede i turbini devastatori. Quindi ella esclamò: — Perfido Bruto, con quali voci di tripudio malvagio vai turbando questi silenzi di morte? Benché il torrente de’ secoli debba avere ornai sommersa la memoria del tuo misfatto e della mia compassionevole morte, in te arde perpetua l’ira, come or fossero le funeste Idi di Marzo! Dunque il sangue mio dalle tante ed ampie ferite sgorgato, non saziò quella sete che ne avesti? Eppure anco gli odi ostinati sogliono temperarsi non solo con la morte della abborrita persona, ma spegnersi del tutto per la pietá del fato comune. —
Cosí dicendo fisava in Bruto le sdegnose pupille. Tacea questi, e il suo silenzio manifestava ch’era l’intelletto immerso in alti pensieri. Perocché intrepido e severo, ma senza ira o derisione, con magnanimitá di stoica disciplina si mostrava ancora invitto dalla fortuna. Antonio allora si avvicinò con benigni atti a quel l’ombra irata la quale si calmò, e dava segni di riconoscere in lui una benevolenza antica. Io ben conobbi che il nuovo spettro era il dittator Cesare, tanto dal suo ragionamento, quanto dalle sembianze sue a noi serbate in monete e simulacri diversi. Stava io pertanto bramoso ascoltatore di cosí eccelsa contesa, quando Tullio interponendosi fra Bruto e il Dittatore con discreta voce: — Plácati, — disse a questo, — o grand’anima, perché Bruto non odiò te, ma la tirannide tua. In vita fosti ammiratore della virtú anche de’ tuoi nemici, e quella mirasti con lieta fronte, e lodasti con benigne parole anche fra gli atroci odi civili. Ben sai quanto rigore stoico fu ne’ di lui costumi, quanta integritá nella vita, quanta innocenza ne’ desideri; e però in lui mosse il braccio feritore, se non soffri ch’io dica la virtú sincera, tollerar devi ch’io affermi una illustre immagine di lei. —
Il Dittatore giá placato ascoltava quelle esortazioni, e lieto rispose: — E che non può la tua favella trionfante, dalla quale io giá fui vinto maravigliosamente nell’accusa di Ligario? Mi caddero dalle mani gli scritti ne’ quali erano prove manifeste del suo delitto, e lo assolsi, non persuaso, ma commosso. —
— Fu questo,— aggiunse Tullio, — ben piú l’effetto di tua naturai clemenza, che della facondia mia. — E Cesare prontamente rispose: — Fu effetto d’entrambe, se vuoi conciliare con equitá le nostre opinioni, e d’entrambe raccogliemmo di poi non degno frutto: io vidi fra gli ucciditori miei quel Ligario stesso. Or pensa qual uomo tu salvasti con la lingua, e quale io con la clemenza. —
Mentre quegli cosí ragionavano. Bruto rimanea tacito con grave contegno. Quindi Tullio, rivolgendosi a lui, gli porse la destra benevolmente dicendo: — Compiesti la impresa, e devi essere pago ornai di avere offerta alla patria una vittima cosí illustre. Il serbare qui gli antichi rancori, quando le oneste cagioni loro sono tolte dal tempo, sarebbe ostinazione vana piuttosto che generosa costanza. Io quindi ti prego, per quella autoritá di benevolenza ch’ebbi presso te nella vita, e per quella comunicazione di chiare dottrine la quale moderò le nostre cure civili, a mostrarti ora magnanimo qual fosti. Se le membra giá inferme e gracili del Dittatore trafiggesti per alta cagione, or ti mostra benigno all’anima sua grande, qui dal tuo ferro spinta in esilio sempiterno. —
Vidi a tali parole dissiparsi la tristezza rigorosa delle sembianze di Bruto. Il Dittatore, con la consueta sua facilitá alla clemenza, allora stese la mano a quella destra che lo avea trafitto. Giá era manifesto nel suo volto che la compiacenza di rivedere cosí magnanimo cittadino estingueva in lui ogni desiderio di vendetta. E però sendo ornai quegli animi sgombrati dalle umane perturbazioni, con sereno volto, benché alquanto pallido e gracile siccome ebbe in vita, cosí Bruto rispose: — O Cesare, io immersi il ferro nel tuo petto non per odio verso te, ma per la pietá di Roma. Or qui dopo venti secoli, distrutte con le membra nostre le occasioni delle umane imprese, possiamo profferire di quelle un giudizio magnanimo ed imparziale. Dimmi pertanto se non ti sembra che fossero i tuoi giorni piú avventurosi alla Repubblica funesti. — Allora Tullio proruppe: — Oh contesa libera, grande, solo convenevole a due tali intelletti! — Ma Antonio volea opporsi a Bruto, secondo quel favore che prestò a Cesare in vita. Questi però gl’impose col cenno che frenasse le parole, e volgendosi a Bruto lo interrogò: — Posciaché fui prostrato dal tuo pugnale, risorse la libertá? —
— No, — rispose quegli sospirando, — ella rimase in preda di questo Antonio ch’or qui vedi, e di Ottaviano tuo nipote, i quali rinnovarono le proscrizioni di Siila e troncarono le teste migliori. — Allora Cesare aggiunse: — E di te, Bruto, che avvenne? Qual premio ti diede la patria per questa che tu pretendi a lei utile atrocitá? — Egli rispose: — Il premio della virtú è la lode de’ saggi e la fama perenne: che se tali guiderdoni togliesse la malvagitá della fortuna, rimane sempre il maggiore e piú certo, la compiacenza di onesto e grande proponimento. —
— Ma pur, — insisteva Cesare, — qual fu la tua fine? — E Bruto mestamente conchiuse: — Oppresso anch’io dal fato di Roma, rivolsi in me quel ferro divenuto inutile per lei. Caddi, ma insieme con la patria, né soffersi il rossore di vederla in servitú. —
— Ecco, — ripigliò il Dittatore, — giá manifesto che la tua impresa fu inutile negli effetti; quindi reggiamo s’ella fu giusta nelle cagioni. Narra pertanto quali esse furono. — E Bruto incominciò:
— Ingegno maraviglioso, ma incapace di quiete; cuor grande, ma nelle sue brame smoderato; indole generosa, ma ripugnante ogni eguaglianza civile; animo spinto quasi da febbrile impeto sempre a straordinarie imprese, furono in te vizi splendidi e pregi insidiosi. Quindi non vi fu mai cittadino piú di te pernizioso in giá inferma libertá. Niuna virtú mai ti rattenne dal tentare alte fortune; ma quando vi fosti giunto lasciasti in vita quelli che rimasero avanzi degli eccidi distruttori, con pompa di clemenza. Né vuo’ che il discorso stia in queste sentenze generali, ma in prova di esse dee scendere alle specialitá. Per la qual cosa tralasciando le obbrobriose dissolutezze de’ tuoi privati costumi, io intendo manifestare i pubblici vizi tuoi. Or ti rammenta come sendo di giovanile etá, ma di tristezza maturo, non potevi partire al proconsolato della Iberia per ignominiosa cagione. Perocché avendo tu dissipate le sostanze ne’ comizi per ottenerlo, i creditori ti rattenevano, né saresti partito a quella dignitá se il ricco nostro Crasso non ti fosse stato mallevadore. Quindi con nuove largizioni giunto al consolato, fosti piú sedizioso di un tribuno della plebe, adulando la quale ti preparavi scaltro la via per innalzarti fra le tempeste civili a sublime fortuna. Gemeva il Senato veggendo che tu proponevi di nuovo la sempre fatale esca di tumulti plebei, la legge Agraria; fremeano i migliori, e l’ottimo fra tutti, il mirabile Catone; il tuo collega Bibulo si opponeva alle tue perniziose imprese. Ma ne appellasti al popolo. Oh deplorabili comizi ne’ quali erano sparsi, per terrore de’ buoni, i tuoi satelliti co’ pugnali coperti dalle toghe! Appena Bibulo incominciò ne’ rostri ad aringare contro la legge da te proposta, la plebe, da te pur mossa, gettò il fango sul venerevole capo del consolo, ruppe i fasci de’ suoi littori, trasse la sua stessa persona per le scale del tempio di Castore, coperse di sangue e di ferite quelli che lo scortavano, e fra loro due tribuni, quantunque inviolabile dignitá. Ben due volte il magnanimo Catone si oppose a quella adunanza tempestosa con la sua voce fin allora venerata, ed altrettante i sicari tuoi lo tras sero da’ rostri con mano violenta. In questa guisa tu, ornai quasi prostituta deposto ogni rossore, perturbavi la Repubblica apertamente. Quindi il tuo insidiato ed oppresso collega fu costretto ricoverarsi nelle domestiche mura gran parte del suo consolato, a te solo abbandonando la libertá spirante nella braccia tue. Quando poi ottenuta la provincia delle Gallie fosti per dieci anni lontano da noi, ti preparavi ad essere vie piú funesto da vicino. Perocché ti furono quelle guerre quasi una palestra gloriosa in cui ti esercitavi a debellare i Romani di poi.
Rammenta il giorno infausto nel quale varcasti il Rubicone, e quindi entrasti in questa patria muta e tremante allo splendore deU’armi tue. Miseri trionfi, e trista disciplina delle tue legioni apportatrici a Roma di gloria fallace e di vera servitú! D’allora in poi schernendo la nostra libertá, quotidianamente ripeteva quella invereconda sentenza, che il nome di Repubblica era vano, che Siila era stato inavveduto deponendo la dittatura, e dovere ornai i Romani rispettare come leggi le tue parole. Ed ecco invaliti gli animi, e mascherati i volti, concorrere la maggior parte come gregge intorno al nuovo tiranno, e con trista gara contendere di superare altrui nella viltá. Incominciarono quindi spargersi nella moltitudine quelle voci insidiose le quali ti acclamavano re; si videro poscia le tue statue coronate di regio diadema, e questo Antonio, allora consolo, nella festa de’ Lupercali venne ignudo tripudiando in quella stolta celebritá, dove tu sedeva in trono d’oro, e ti offerse la reale corona. Egli si prostrò supplichevole a’ tuoi piedi affinché la accettassi, e tu scambievolmente rappresentando quasi tragico attore il rifiuto di quella, ne lasciasti dubbiosi qual fosse di voi piú esperto, l’uno nel fingere, l’altro nell’adulare. Eppure il fremito della moltitudine, il suo silenzio minaccioso a quella scena invereconda, faceano manifesto che ancora tanto non era da te depravato il volgo, che avesse dimenticato l’antico odio contro la regia dignitá. Ma se non fosse stata sufficiente la nostra sagacitá, siccome uomini oppressi dalla fortuna, a penetrare il cuore d’un tiranno, tu medesimo fosti sollecito di farcelo conoscere agevolmente. Avvegnaché L. Cotta, custode de’ libri Sibillini, spargea la voce che secondo quegli oracoli i Parti non doveano essere