Le notti romane/Parte prima/Notte prima/Colloquio III

Notte prima - Colloquio III

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[p. 22 modifica]vinti che da un re, e convenire darti quel nome per poterli debellare. Giunse perfino la servile codardia a quel maraviglioso eccesso, che taluno propose in Senato il decreto che ti fosse conceduta libera dissolutezza nella comune servitú, onde tu potessi trarre qualunque donna alle voglie tue. Or se queste non erano prove di tirannico imperio, quali altre aspettar si doveano se non che il vivere nostro e de’ figliuoli, ed il candore delle consorti e delle nostre fanciulle, fosse un dono giornaliero della clemenza tua? Che piú? Vedi sparsa di membra romane Farsaglia, troncata da’ traditori la testa di Pompeo, erranti i buoni, la patria in lutto. Sono gli aridi ossami nostri il trono tuo: hai tinto il manto non di porpora, ma di sangue romano. Intanto le infami lusinghe ti appellano Giove Giulio e Dio Invincibile: surgono templi, are, simulacri; sacerdoti offrono libazioni, incensi, sagrifizî alla tua divinitá ch’io spensi con un pugnale. —


COLLOQUIO TERZO
Cesare espone le corruttele della Repubblica e sostiene la necessitá della Monarchia.


Tacque Bruto, e Cesare volgendosi alla moltitudine incominciò: — Se alcuna grazia mai io Giulio Cesare con la mia liberalitá, co’ miei trionfi e con la grandezza dell’animo ho acquistata presso voi, io vi prego darmene in morte questo solo guiderdone, che ora mi ascoltiate benevolmente. Se fui colpevole, giá il ferro di costui e de’ suoi seguaci appagò le ire vostre con terribile vendetta. Mi sia pertanto conceduta quella facoltá, neppure negata a’ malfattori, di proteggere la propria causa con oneste parole. — Quindi si diresse a Bruto, e in questa guisa prosegui:

— Giacché sponesti le ragioni per le quali mi hai tolto a Roma siccome funesto ingombro suo, devi sofferire ch’io esponga quelle che m’indussero a sollevarmi dalla eguaglianza civile. Delle quali [p. 23 modifica]sia la prima, e quasi il tronco di tutte, questa, che Roma era condotta a tale destino, che in quel tempo chiunque avesse qualche eccellenza di virtú, dovea scegliere una di tali due condizioni per necessitá: o l’imperio, o la servitú. La moltitudine poi non potea nutrire piú sano desiderio che di ricoverarsi dalle ingiurie d’esultante licenza sotto il governo di un moderatore supremo. Ingiurie non giá recenti, né poche, ma infinite, inveterate, insanabili e distruggitrici: elle non aveano solo resa inferma la sincera libertá, ma agonizante, ma spenta gran tempo innanzi che noi fossimo prodotti alla vita.

E perché di queste mie generali asserzioni apparisca la veritá, sovvengati che quasi un secolo prima ch’io cadessi da te svenato, era giunta la baldanza di Curiazio, tribuno della plebe, a minacciare i due consoli Scipione Nasica e D. Giunio Bruto di carcere, talché fu prossimo l’effetto di quel furore del volgo, giá perturbato da stolta licenza. Appena scorse poi un lustro da tal misero consolato, che incominciarono non giá le discordie, ma le guerre civili nel tribunato de’ Gracchi. Che se la violenta morte loro non fosse giá prova certa delle estreme ed irremediabili depravazioni, venne immediatamente in Roma un re barbaro a manifestarle a tutte le genti. Io parlo di Giugurta, usurpatore del trono della Numidia con la strage fraudolenta de’ suoi germani. I nostri consoli Scauro e Calpumio, spediti a vendicarla, ritornarono vinti da’ suoi tesori. Chiamato poi a qui difendere la sua causa da un Senato giá da lui guasto con le usurpate ricchezze, venne sollecito, animoso, con serena fronte, consapevole della viltá de’ giudici suoi. Mentre anzi pendeano le accuse di que’ parricidi, ne commise un nuovo apertamente in questa cittá nella persona di Massiva, altro suo germano qui ricoverato invano dal suo ferro insidiatore. Né di questa, e delle innumerevoli sue malvagitá, altra pena il Senato pronunziò, se non ch’egli partisse. Della qual connivenza lo stesso reo monarca n’ebbe tanta maraviglia, che uscendo si rivolse a queste mura e profferí quello scherno obbrobrioso e meritato: «Venale cittá, ben presto perirai, se ritrovi un compratore».

Che se rimanea qualche cittadino immune dalla corruttela [p. 24 modifica]universale, egli era il bersaglio degli insulti comuni. E però Q. Metello Numidico allora censore, il petto del quale era ancora caldo delle antiche virtú, fu cosí odiato che il tribuno C. Asinio lo prese nella via in pieno meriggio e lo trasse alla rupe Tarpea affine di gettarlo da quella, se da taluno, il quale accorse, non gli fosse stato impedito quel proponimento. Fu nondimeno in quel tumulto cosí manomesso il censore, che gli usciva il sangue dalle orecchie. E tanto era molesta la sua virtú, che non potendone sofferire neppure l’aspetto, si diede ad oltraggiarlo con aperta iniquitá il piú audace fra gli uomini che mai furono e mai saranno, il tribuno Saturnino. Non eloquenza, non dignitá prevalevano piú nel comizio, ma le pietre, il fango, le ferite. In quella adunanza di pace e di libero consiglio, il tribuno feroce condottiero di stolta plebe si avventò contro Metello, il quale si ritrasse in Campidoglio. Ma ivi pure lo perseguitò, deliberato di ucciderlo dove poc’anzi avea trionfato; né senza scorrere dalla pendice del colle riva di sangue civile, fu da’ patrizi sottratta al volgo atroce quella vita fra tutte preziosa. La quale però da quotidiani insulti oltraggiata, serbò a tempi meno tristi Metello ricoverandosi in Rodi.

Saturnino quindi esultante nella ebbrezza delle sanguinose imprese, finito il suo tribunato, vi aspirò nuovamente. Ma quando si vide escluso da’ suffragi, si mosse nel comizio co’ suoi tristi seguaci a maravigliosa violenza. Ivi, al cospetto vostro, o docili Quiriti, uccise Aulo Nonnio, l’ultimo de’ dieci tribuni allora scelto, e se medesimo proclamò in vece di quello. Non eravate forse meritevoli di questi oltraggi? Saturnino rimase non solo in quella dignitá, ma la esercitò con furore convenevole al tristo modo con cui l’avea conseguita. Qual cosa era dunque sicura in Roma, fuorché la iniquitá? Qual magistrato era sacro, qual legge inviolata, qual virtú non vilipesa? Ahimè che narro eventi odiosi, ancora lamentevoli, quantunque sommersi dal tempo, ed abietti in confronto delle eterne contemplazioni! Ma l’aspetto di questa moltitudine di antenati, di conviventi, di posteri, dopo tanti secoli concorsa, richiama le sollecitudini della vita mortale. Vi sará taluno fra voi testimonio dell’inaudito oltraggio fatto da Saturnino [p. 25 modifica]a Glaucia pretore. Mentre questi sedea nel comizio, quegli dolendosi che gli fosse molesta la sua presenza, lo scacciò, e ruppe la di lui sedia curule. Ma di che aver maraviglia? Forse non giunse la invereconda ferocia di quel tribuno ad uccidere per mano de’ suoi sicari, innanzi il popolo ed il Senato, Memmio in procinto di ottenere con la maggioranza de’ voti il consolato? Voi però fino allora freddi testimoni di tante indegnitá, in quel giorno piú non le sofferiste. Quasi destati subitamente da letargo, uccideste, a furore di volgo, Saturnino: fu squarciato a brani, fu il suo teschio portato in trionfo per la cittá, vilipeso in morte quant’era stato insolente nella vita. Cosí le stragi erano pena delle stragi, si correggevano i delitti co’ delitti, ed i rimedi erano una conferma de’ mali. Pur divenuto questo cielo men tristo, da che non era piú oscurato dalle opere di quel tribuno, vi riapparve come un raggio di sole fra le nubi tempestose l’illustre Metello, il medesimo anno in cui io nacqui.

Ed eccomi io stesso, nel principio della vita, spettatore delle civili perturbazioni. Dall’una parte il tribuno Druso eccitava la licenza del volgo, e dall’altra il senatore Cepione sostenea la tirannide degli ottimati. Delle quali contese, quantunque gravi e perniziose, vi fu nondimeno una cagione puerile. Rammenteranno qui taluni ch’erano que’ due nella gioventú loro cosí stretti da benevolenza ignominiosa, che si contraccambiarono le consorti. Ma poi all’incanto di alcune suppellettili vennero a competenza fra loro per la compera di un anello, bramandolo entrambi. E da quella occasione crebbero sempre cosí gli sdegni, che sfogandoli nel comizio trassero la misera cittá nel ruinoso impeto delle contese loro. Nella violenza delle quali il tribuno giunse a minacciare quell’emulo di gettarlo dalla rupe Tarpea, non piú desiderabile meta de’ trionfatori, ma supplizio a chi si opponesse all’ira della plebe. Che se quella fu minaccia ad un illustre senatore, Filippo allora consolo sofferse gli effetti dell’audacia di Druso. Perché sendo a costui molesta quella autoritá, lo trasse in carcere cosí manomesso dal furore plebeo, che gli grondava il sangue dalle nari. Alla vista del quale profferí Druso con feroce sogghigno quel detto amaro: «Non è sangue, ma sugo di tordi», quasi egli scher [p. 26 modifica]nisse il consolo, siccome intemperante ne’ conviti. Non altro freno ornai rimaneva alla violenza, che la violenza. E però, prima che finisse il tribunato suo, fu Druso per insidia ucciso di notte, senza che mai si sieno conosciuti gli autori della sua morte. Fossero almeno sepolte con lui quelle triste discordie! No: si rinnovarono anzi immantinente quelle che tante fiate aveano sconvolta la Repubblica per gl’imprestiti de’ patrizi alla plebe. Questi giudizi spettavano al pretore. A. Sempronio Asellio, il quale era allora in tale dignitá, procurava di opporsi agli avidi creditori, che opprimevano la plebe con le usure. E per confermare che la giustizia era nome vano, il pretore fu assalito da patrizi, mentre celebrava un olocausto; percosso con le pietre, gli cadde la sacra patera dalla mano, e tentò rifuggire nel prossimo delubro di Vesta. Ma i persecutori gli troncarono la via, e costretto ricoverarsi in una taverna, vi fu ucciso. Invano il Senato invitò con la sua autoritá e co’ premi ciascuno a palesare i colpevoli di quella atrocitá, i quali rimasero occulti, benché l’avessero commessa in mezzo della frequenza vostra. Niun’altra cosa era pertanto felice in Roma, se non la malvagitá. Ed ecco innanzi a’ pensieri aprirsi volume vasto, immenso, scritto col sangue romano. Io vi leggo le imprese di due insaziabili di tracannarlo, di Mario e di Siila. —

A questi nomi l’aura suonò di lamenti, le fronti apparvero meste, gli atteggiamenti esprimevano orrore. Cesare alquanto rimase in silenzio, come nocchiero il quale dalla prora guarda intrepido la fremente onda, e quindi proruppe: — Ahi tarde e vane querele! Or se i nomi soltanto di que’ carnefici vi fanno ribrezzo, perché ne sofferiste le stragi? — Poi tacque, e in quella pausa dignitosa la moltitudine si calmò. Allora proseguendo egli aggiunse:

— Era SiLla consolo nella robusta virilitá di dieci lustri l’anno susseguente alla uccisione del pretore Asellio. Chiedea essere capitano dell’esercito contro il piú glorioso e formidabile nemico de’ Romani, Mitridate. Mario, giá illustre per gli trionfi de’ Numidi, de’ Teutoni, de’ Cimbri, e per sei consolati, giunto all’anno settuagesimo, pingue di membra e infermo, stimolato da smania febbrile di ambizione, volea trarre gli anni estremi nella Cappadocia e [p. 27 modifica]nel Ponto, e contendea a Silla quella spedizione. Gara magnanima ne’ pensieri, e trista nelle opere! Avvegnaché Mario, per ottenere i vostri suffragi, trasse al suo desiderio il tribuno P. Sulpizio, uomo insaziabile d’oro e di sangue. Era certo costui superiore a ciascuno ne’ vizi, ma quale di questi in lui prevalesse era sentenza dubbiosa. La cittadinanza romana, presso gli avi nostri premio di fedeli alleati, era venduta pubblicamente da quel tribuno. Cosí empieva il comizio di uomini tristi divenuti cittadini non col servire la patria, ma col depravarla. E perché l’incredibile audacia delle sue imprese fosse manifesta, avea sempre stipendiati ben tremila suoi satelliti armati, né appariva nel comizio se non circondato da seicento giovani dell’ordine de’ cavalieri, che portavano il nome di Anti-Senato. Del qual titolo fastosi, aspiravano a meritarlo con sediziose e tiranniche operazioni. E però il Senato avendo fatto Silla imperatore contro Mitridate, il tribuno spinse i suoi carnefici plebei a sostenere la istanza di Mario. Ecco i ferri balenano, grondano: i consoli fuggono; giacciono molti nel comizio. Silla si ricovera presso l’esercito nella Campania. Mario è proclamato capitano di quello nel comizio da plebe delirante, che ha i piedi nel sangue ancora tiepido che vi scorre. Ma Silla, il quale non fu mai nelle opere sue ammollito da alcuna pietá, senso per lui impossibile e abborrito, mosse le sue legioni, destinate a nuovi trionfi nell’Asia, contro la patria a vendetta crudele.

Fu il suo ingresso in queste mura come di tigre digiuna. Risonavano per le vie, e nelle abitazioni, pianto, lamenti, strepito d’arme, gemere di moribondi. Silla medesimo, stringendo una face, gridava a’ suoi d’incendere la cittá senza commiserazione. Voi atterriti quanto disperati gettavate dalle sommitá delle fumanti case vostre le ruine sopra i feroci Sillani, i quali vie piú imperversando per quelle difese, recavano alle fiamme nuovo alimento. Non era giá tumulto, ma guerra a suono di trombe. L’aquila vostra, come insegna di morte e di servitú per voi, era innalzata in Roma da un suo cittadino. Oh giorno deplorabile, anzi nefando, anzi l’estremo di ogni speranza di sincera libertá! Quel Mario che aveva salvata piú volte Roma e la Italia da’ bar [p. 28 modifica]bari, allora fuggí da queste mura. Che se le infami stragi si possono segnalare col nome di vittoria, Silla vi rimase vincitore. Immantinente raggiunse l’esercito nella Campania e trapassò in Grecia contro Mitridate. Né per l’assenza di que’ feroci competitori la patria respirò, anzi in lei vi continuarono le discordie i suoi medesimi due consoli, Cn. Ottavio e Cinna. Questi, benché avesse giurato in Campidoglio fedeltá a Silla, ricevuti poi trecento talenti da’ fautori di Mario, diede l’armi a’ servi ed alla plebe, e propose che fosse richiamato; l’altro collega vi si opponeva. Vedeste la guerra fra due consoli nel comizio inondato del sangue vostro e sparso di molte milliaia di voi spenti. Cinna sconfitto uscí da Roma; trascorse la Italia, adunò seguaci. Mario stesso con lui si congiunse, ed ambedue infiammati da vendetta feroce rivolsero a queste mura il ferro ancora caldo di sangue civile. La difesa di Roma fu allora affidata a Pompeo Strabone. Ma quasi anche il cielo abborrisse quello spettacolo atroce, nel quale presso le patrie mura i padri uccidevano i figliuoli, i fratelli i fratelli, si oscurò per súbita procella, e un fulmine consumò quel vostro difenditore. In tante calamitá la plebe, divenuta vie piú barbara, tolse dal feretro, nel quale era condotto al rogo, il cadavere fulminato, e lo trasse per le vie. O Romani, da questo nacque Pompeo da voi meritamente cognominato il Grande, i pregi illustri del quale io ammirai, quantunque emulo di non divisibile cosa, l’imperio!

La necessitá però della fortuna costrinse in breve il Senato a chiedere non pace, ma pietá a’ due crudeli assalitori. Entrò Cinna primieramente, preceduto da’ suoi littori; Mario si rattenne alla soglia, e con sorriso atroce disse che non potea entrare se prima il popolo non lo richiamasse ne’ comizi dall’esilio al quale lo avea condannato. Mentre con sollecita ansietá si raccoglievano i suffragi, ecco Mario spinse le squadre a formidabili imprese, chiuse tutte le porte della cittá, sparse per quella i suoi sicari, la piú parte schiavi da lui sciolti agli estermini di quel giorno di sangue. Vedeste le vie ingombrate dagli spenti, le membra loro tratte a ludibrio del volgo, i bambini franti alle mura, le madri svenate, le fanciulle violate. Non cosí lupo famelico sbrana gli [p. 29 modifica]agnelli intruso nell’ovile, come lo spietato Mario esterminava i cittadini. Furono i rostri coperti subitamente di teschi de’ patrizi piú illustri. Voi Romani, poc’anzi io non so se liberi o insolenti, allora insensati alle ingiurie estreme, tremanti all’aspetto di strazi incredibili, porgevate mansueti la gola a’ sicari, i quali sogghignando ve la trafiggevano. Che se in tanta codardia il consolo Cneo Ottavio nel seggio curule in toga fra’ suoi littori aspettò intrepido gli eventi della fortuna, certo non fu quello un sincero esempio di costanza. Perché quantunque da’ sicari assalito rimanesse in quel maestoso contegno, e in quello fosse da loro ucciso, nelle sue vesti poi gli fu trovata la risposta di un astrologo il quale lo accertava che non sarebbe perito in quelle perturbazioni.

Quali malvagitá debbo io rammentarvi, quali trapassare, che in tanta copia si destano al mio pensiero? Il senatore Sesto Licinio fu per ordine di Mario precipitato dalla rupe Tarpea. Il figliuolo stesso di Mario uccise un tribuno della plebe, e mandò il di lui capo a suo padre come gratissima offerta. Due della mia stirpe, Lucio e Caio Cesari fratelli, caddero in que’ funesti avvenimenti. Imperocché sendosi Caio ricoverato da un suo cliente, al quale avea salvata la vita con la eloquenza sua, fu da lui ingratamente denunziato a’ sicari mariani. Lucio fu svenato alla tomba di Vario tribuno, giá nemico de’ buoni mentre visse, e ch’ebbe, estinto, questa vittima convenevole alla sua indole feroce. P. Crasso vide uccidere un suo figliuolo, né potendo sopravvivere a quella angoscia, su di lui si trafisse. Chiude il tempo nel suo vasto grembo infinite malvagitá allora accadute; questa però dee ancora deplorarsi da voi, cioè la morte di M. Antonio oratore. Né alcuno presupponga altra cagione per cui Mario lo condannasse, fuorché l’ingenito odio de’ tristi contro i buoni. Quel carnefice era a mensa, quando seppe che M. Antonio era preso da’ sicari suoi. Ebbro di Falerno e di sangue, gridò per gioia, batté le mani ed i piedi esultando con tripudio feroce. I commensali lo rattennero a stento ch’egli medesimo non accorresse ad ucciderlo. Ordinò ad Anio, suo tribuno militare, che gli recasse quel capo venerevole immantenente. Quegli giunto alla casa di Antonio vi spinse i satelliti [p. 30 modifica]ad eseguire la strage, e stette nella soglia. L’aspetto di tanto uomo, e la sua eccelsa facondia, rattenne i ferri di que’ micidiari. Il tribuno, giá sdegnato per quel breve indugio, entrò nell’abitazione e di sua mano recise la testa all’oratore, mentre i satelliti rimaneano ad ascoltarlo con gli occhi lagrimosi, vinti dalla pietá in loro mossa dalle sue illustri parole. Quindi recò il teschio a Mario, il quale accolse l’uccisore con forsennati amplessi, collocò la sanguinosa offerta fra le vivande della mensa alla quale ancora sedea crapulando. Lungo tempo egli soddisfece le atroci pupille in quel teschio, il quale poi con gli altri innumerevoli fu appeso a’ rostri, divenuto oggetto di orrore dove lo era stato di maraviglia.

Non meriti, non dignitá poteano frenare il cieco impeto dell’ira in Mario, che anelando vendetta non si saziava d’inondare di sangue quella cittá donde era scacciato poc’anzi per bellica fortuna. E pertanto Catulo stesso, giá suo collega, e che specialmente avea contribuito alla vittoria de’ Cimbri, non potè allora ottenere grazia da lui. Anzi come fosse la sua gloria uno splendore molesto, né preghiere presenti, né meriti anteriori, né gli allori comuni poterono mai piegare l’animo di Mario, che sempre diede quella terribile risposta: * Muoia». Per la quale Catulo disperato fece ardere materia combustibile in cella chiusa, e in quella vampa si affogò. Anche Merula, sacerdote di Giove, prevenne fra tanti estermini l’insidie, da se medesimo svenandosi innanzi il simulacro di quel nume. Erano tante però le morti disegnate nel feroce pensiero, che Mario stesso non avea tempo di pronunziarne a tutti la sentenza. Quindi convenne co’ suoi esecutori un modo spedito di far cadere a’ suoi piedi nelle vie i cittadini. Fu questo: a chiunque egli non restituisse il saluto, si dovea togliere immantenente la vita. Molti accorreano supplichevoli, o per sé o per gli congiunti, sembrando a ciascuno grazia il vivere in tanta distruzione, e molti cadeano a’ piè del provetto carnefice, il quale con un silenzio funesto li condannava. Anche gli amici suoi, seppur ne hanno i malvagi, non si avvicinavano a lui in que’ sanguinosi eventi, se non col pallore di morte in fronte. Ben cinque giorni e cinque notti quella fiera manomise, arse, insanguinò questa terra, che si dovea aprire per ingoiarlo. Né furono giá queste mura confini [p. 31 modifica]alla immensa vendetta di costui, anzi la Italia tutta fu inondata di sangue. In mezzo del quale tripudiava ne’ splendidi conviti, lieto di rimirarlo scorrere a fumanti rivi. In breve però la sua intemperanza fece quella vendetta la quale a’ vostri ferri piú giustamente apparteneva. Mario alfine morí di crapula, e provetto, il quale meritava spirare d’inedia, e in culla. Non è facile il deliberare s’egli sia stato piú funesto a’ nemici nostri o a noi.

Non fu però sgravata Roma, per la morte di lui, dal tristo peso di quella oppressione. Anzi nelle sue stesse pompe funerali, Fimbria, il piú feroce de’ satelliti suoi, agitato da improvviso furore, ordinò a’ sicari di uccidere il pontefice massimo Scevola il quale celebrava quel rito. E perché questi si sottrasse fuggendo, quegli giunse alla incredibile audacia di citare quel grave, saggio, inviolabile uomo al comizio qual reo. Dove richiesto Fimbria di esporne la sua accusa, disse ch’ella era questa, cioè che Scevola non avea ricevuti nelle membra i colpi che gli erano destinati. Quindi il nome non meno che l’atrocitá di Mario tutta rimase, come retaggio funesto, nel suo figliuolo. Il quale fatto consolo quattro anni dopo la morte del padre, fu sollecito di mietere le vite de’ migliori, che restavano come rade spighe dimenticate nella raccolta. Ma non potendo superare il padre nella crudeltá, volle segnalarsi nella perfidia. E però avendo convocato il Senato, quando sedeano i senatori nell’aula, furono da’ sicari mariani, giá esperti in quotidiane carnificine, la maggior parte uccisi. Nel quale sterminio fu compreso alfine Scevola, che nell’atrio del tempio di Vesta cadde svenato.

Mentre quelle stragi contaminavano Roma, Siila combatteva in Asia contro Mitridate. Ma subitamente volgendo a noi le sue legioni, qui apparve spaventevole distruggitore. E per la prima impresa, intanto ch’egli presedea al Senato nel tempio di Bellona, fece svenare, chiusi in luogo prossimo, ben seimila guerrieri mariani che gli si erano dati prigionieri. Le agonizzanti grida di quella moltitudine trafitta da’ sicari, chiusero negli anelanti petti le parole a ciascun senatore. Un silenzio di morte ingombrò quella venerevole adunanza. I volti dipinti di pallore, le pupille dubbiose erano la sola eloquenza degli atterriti pensieri. Ma Siila, come se [p. 32 modifica]fosse in uffizio tranquillo, profferí quella sentenza maravigliosa per la sua calma feroce: «Ponete mente agli affari: sono pochi sediziosi che per mio comando vengono gastigati». Dopo la quale carnificina vedeste immantenente scorrere il sangue per le vie tutte, lanciandosi in ogni parte sitibondi di quello i ministri del furore sfilano. E in tanta incertezza della vita parve clemente la invenzione di proscrivere. Perché la tavola funesta, in cui tante illustri vite erano vendute per due talenti ciascheduna, lasciava sperare che fossero salve quelle che in lei non erano comprese.

Apparvero scritti primamente in quel ruolo di morte i due consoli di tal anno per sempre funesto, e poi i patrizi e’ senatori piú chiari al numero di quasi cinquemila. E perché non perisse la memoria di tale distruzione, Siila con temeritá stupenda fece scrivere il nome di que’ sventurati nel pubblico registro. Cosí per una spaventevole perturbazione delle menti, elle non distinguevano piú le qualitá contrarie siccome il vizio e la virtú, anzi l’una con l’altra rimaneano confuse. Se pertanto il padre, il fratello, il figliuolo al proscritto padre, fratello, figliuolo dava ricovero, dovea morire con esso. Che se i congiunti uccideano il proscritto, ne otteneano e premio e lode, come avvenne a Catilina, il quale incominciò la sua funesta carriera dal fraticidio. Non templi, non lari, non casa paterna, non talamo di sposa furono asilo dalle insidie, che si diffusero per la Italia tutta. I mariti furono trafitti negli amplessi tremanti delle consorti, i figliuoli nel seno palpitante delle madri. Né uomini solo, ma donne ancora furono proscritte, condannando Siila perfino quel sesso inerme, non emulo della sua potenza, presso anche i barbari inviolato, e che in ogni petto umano suole spegnere, anziché accendere le ire crudeli. —