Le notti romane/Parte prima/Notte prima/Colloquio I
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NOTTE PRIMA
COLLOQUIO PRIMO
Ragionamenti preliminari con ombra fra tutte illustre; sua imagine, ed occasione per cui sono congregati gli spettri.
Quell’ombra incominciò a profferire con grave ed autorevole
tarditá una orazione. Stavano gli ascoltatori in diversi atti di
udienza maravigliosa, ed io cosí porgea l’orecchio, che tutta l’anima
era nell’udito. Al principio mi sembrò una favella straniera,
e fui mesto di non intenderne le voci; ma il ritorno poi delle medesime
desinenze e de’ suoni corrispondenti, ripercuotendo in giro
le orecchie mie, le fecero in breve consapevoli ch’ella era idioma
latino quantunque in altro modo, ch’ora non è, pronunziato. Anzi
fra poco io ne intesi le sentenze con mia estrema contentezza.
Ragionava pertanto della immensitá de’ cieli, ne’ quali sono dispersi
astri innumerevoli; mi sembrava anche descriverne la
grandezza e le distanze. Adombrava gli effetti maravigliosi della
cagione suprema ed eterna, e le opere sue nella incomprensibile
vastitá dell’universo. Ma si dolea non potere con parole convenienti
esaltare la scienza creatrice, non rimanendo anzi modo piú adequato
ad onorarla che una estrema e tacita ammirazione. Quindi
mi parve ch’egli narrasse alcune sue peregrinazioni celesti per le
sfere, quasi avesse contemplata diligentemente la struttura di
cosí augusto edilízio, trapassando poi a discorrere delle sostanze
intelligenti, e quanto in loro paragone sia vile ogni materia, talché
riputava la sua vita mortale, quando l’ingegno era involto nel fango, un sonno, e piú volte intesi ch’egli appellava ignoranza
ogni umana dottrina.
Il suo discorso procedea come largo fiume con trascorrimento maestoso, a cui la consonanza e la magnificenza delle parole apportavano dignitá e splendore. S’innalzava di poi a ragionare della virtú con sublimi sentenze, nel quale argomento parea lo spettro vie piú contemplativo nel volto quasi agitato da altissimi concetti. Era quindi la sua voce or depressa or forte, or lenta or concitata, or placida or minacciosa, corrispondente alla varietá de’ pensieri. Egli accennava che le umane virtú non altro sono che imperfette imitazioni in paragone della virtú sempiterna; ch’elle, quasi gemme involte in zolla, rilucono di falso splendore, o talvolta si confondono co’ vizi contrari, o sono costrette a seguitare il corso variabile delle opinioni. Una sola pertanto essere la perfetta virtú, la eterna, immutabile, invincibile, divina. Esortava di poi quelle anime dolenti a non sospirare la perduta vita mortale, né querelarsi veggendo ivi le spoglie del caduco ingombro ch’ebbero in quella, ma sorgendo alla contemplazione dell’empireo e della magnificenza divina, tollerassero degnamente l’irrevocabile decreto che le avea sciolte a vita immortale.
Mentre egli cosí ragionava, tutti gli spettri lo ascoltavano con silenzio maraviglioso. Quelli però i quali aveano aspetto virile e marziale, si mostravano paghi di que’ filosofici argomenti; ma quelli de’ fanciulli e delle donne, per lo contrario, manifestavano tristezza, e co’ loro sospiri davan segno di bramare questa vita nuovamente. Ma l’inviolabile confine li trattenea. I miserelli bambini stendeano le braccia alle madri; e queste, ancora con umano affetto, stringeano i parti loro, e pareano ricercare dolenti la luce del cielo. Io percosso da pietá e da maraviglia non ben distinguea se fossi in questa terra, e vivo, rimanendo i miei sensi ammaliati da quelle immagini e da quelle parole. Io giá sentiva con diletto inesplicabile il suono della antica lingua, né piú dubitava che quella non fosse l’anima illustre di alcun romano oratore. Ma poich’egli tacque, le ascoltatrici larve di nuovo si ricoverarono negli avelli, e solo rimase quella che avea favellato. Io venni pure nel mezzo, e fatto superiore alle consuete forze mie da quella por tentosa eloquenza, volgendomi allo spettro, in latino idioma, piú acconciamente ch’io seppi, ragionai in tali sentenze:
— Salve, chiunque tu sei, il quale con si eccelsa facondia parli di argomenti superiori alla infermitá della mente mia. E quantunque io non valga a ben penetrare i tuoi maravigliosi concetti, pur ciò intendo, che tu fossi al nostro mondo lingua non che eloquente ma divina. Vedi che questo ingombro delle membra fa umili i miei pensieri: i tuoi invece, disciolti da tal peso, s’innalzano purissime fiamme al cielo. Che se in te hanno alcuna potenza gli umani preghi, io ti scongiuro a scendere alquanto dalla sublimitá delle tue speculazioni, e ragionar meco in modo conveniente alla fievolezza mia. Risonano le tue parole di celeste armonia, splende in esse la luce delle sempiterne dottrine. Sono queste mie come vagiti al paragone delle tue, e però degnati scendere a questa umana imbecillitá, affinché io possa vantarmi d’avere favellato con una incorporea sostanza. Deh se le rigorose leggi della morte comportano una tale inchiesta, svelami se fosti mortale a noi simile, come è l’apparenza or tua; dove, quando vedesti il nostro sole; che nome fu il tuo, il quale io congetturo che lasciasti a noi chiaro ed eterno. —
Io tacqui, ed egli fiso in me le splendide pupille con alquanta benignitá; poscia sorrise, ma senza che si scemasse la dignitá del volto, manifestando una onesta compiacenza delle mie preghiere. Quindi m’interrogò: — Per qual cagione stai qui vegliando ne’ silenzi di morte, quando i tuoi simili giacciono placidi nella obblivione delle cure? — Ed io sommesso risposi: — Ecco io sono fra queste spoglie illustri, e qui mi tiene la pietá di vederle non meno che la maraviglia di quella virtú ch’ebbero in vita costoro, lo continuamente ho l’animo intento a lei, e la sua grandezza m’empie cosí l’intelletto, ch’egli non dá ricovero ad altri pensieri. —
A queste mie parole divenne vie piú serena la fronte di quello, e poiché rimase alquanto guardandomi con benevolenza, cosí m’interrogò: — Or se ti fosse conceduto ragionare con alcun Romano, quale prima vorresti? — Io, come giudizio giá antico nella mente mia, subitamente risposi: — Marco Tullio Cicerone. — A tale risposta da me profferita con gioia, lo spettro quasi mosso da paterna benignitá proruppe lieto e modesto: — Io sono quegli, io l’omicciuolo arpinate che tu ricerchi. —
Come posso io esprimere quella delizia che m’inondò il petto quando udii questa maravigliosa risposta? Rimasi tacito e perplesso come ad impensata novella; quindi mi lanciai verso lo spettro, e piú volte mi sforzai di abbracciarlo con riverenza affettuosa. Ma ritornarono le braccia vote al petto. Quegli nondimeno si compiaceva del mio onesto desiderio. E quando fu in me temperato l’impeto della contentezza, io contemplai attento quella fronte nella quale stavano i tesori della dottrina, e quelle faconde labbra che altrui ne faceano copia, e quella mano che avea stretto lo stile d’oro, e quel petto ch’ebbe un cuore cosí grande per la patria e cosí tenero a’ suoi. Ben mi duole che la veritá mi costringa a privare d’un piacevole inganno quelli che sono persuasi di possedere o in gemme o in simulacri la immagine di tanto uomo, perché niune somigliano a quella. Non mai pertanto io ho cosí desiderato alcuna perizia di scalpello o di colori in modo che fossi atto ad esprimere quelle sembianze, quanto in tale incredibile occasione per cui io solo fra’ vivi potrei soddisfare il desiderio comune. Ma se in altra guisa non posso, almeno mi studierò supplire con la mediocritá dello stile, adombrando quella immagine con le parole. Il corso degli anni virili sembrava compiuto su quel volto: era alquanto estenuato come di uomo il quale non cura i diletti corporei, e solo si compiace degli intellettuali. Una soave gravitá esprimeva le lunghe contemplazioni della mente, ma una grata modestia insieme parea che nascondesse la copia delle dottrine. Capelli alquanto scarsi, e misti di canutezza, erano senz’artifizio tagliati intorno al capo. La fronte rugosa fra le ciglia manifestava che spesso erano usate contrarsi in profondi pensieri. Splendeano gli occhi grandi, e lenti ne’ moti loro, con certa luce maravigliosa la quale m’è ignoto se l’ebbero in vita. Sovr’essi stavano le ciglia vaste, arcuate, vellose. Erano le guance piuttosto pallide, la bocca alquanto ampia, le labbra turgide, spezialmente l’inferiore, il mento proporzionato. Lo appoggiava spesso, quand’era in silenzio, alla sinistra mano, e però fu verace Plutarco il quale, nella vita di cosí illustre uomo, non ommise questo consueto suo atteggia mento. La statura superava il mediocre; l’abito era la bianca toga. Ragionando modulava la voce e componeva la persona in vari movimenti eleganti, convenevoli alle parole. E però io conobbi quant’era certo ch’egli avesse ordinata la sua declamazione al modo de’ tragici attori, perché ella or con impeto or con moderate inflessioni variando, era anche secondata dal gesto umile o eroico conforme alle sentenze. Il quale concerto recava all’animo un cosí dolce fascino che lo traeva agevolmente a consentire. Oh felici studi miei che m’hanno condotto a superare l’intervallo del tempo, onde ho veduto, ho udito, ho favellato coll’incomparabile oratore!
Io rimanea pertanto immoto, quasi vinto da un delizioso incanto contemplando quella immagine, ed egli pur lasciando ch’io soddisfacessi i miei occhi bramosi, tacea maestoso. Ma in breve si ridestò in me il desiderio di ragionare con lui, e quindi incominciai: — Io non vorrei, o ingegno valoroso, avere perturbata la tua facondia, e quella qualsiasi tranquillitá a voi conceduta, anime illustri, in questi abissi della morte. Il tuo silenzio però, quantunque spirante dignitá, m’empie l’animo di tristezza, e questa rigorosa tua presenza mi fa palpitare. Inchinevole siccome fosti in vita a difendere gl’innocenti con la tua illustre favella, costante verso gli amici, utile e fedele alla patria, pieno di dolce benevolenza verso i congiunti, mansueto ne’ costumi, alto nelle dottrine, io debbo sperare che ora conservi quelle virtú, le quali son dell’animo, e non cadono con le membra. Deh parla dunque, e concedi ch’or io attinga alla fonte le chiare acque della eloquenza tua. —
Alla quale richiesta quegli divenne alquanto lieto, e rispose: — Ben piú agevolmente ch’io credere mai potessi, o pietoso e magnanimo uomo, parli meco la nostra favella. Certo è un evento inopinato che il torrente devastatore di venti secoli non abbia seco rapito quell’idioma. Il tuo generoso proponimento mi commuove, per cui sostieni di ragionare con gli spettri, i quali sogliono cosí perturbare le umane opinioni, che presso tutte le genti furono sempre cagione d’infinite maraviglie. Conviene pertanto che sieno eccelsi i tuoi pensieri, quand’essi vincono la principale infermitá vostra, il vano timore. Ma come sai tu quella indole ch’io ebbi, alla quale concedi cosí oneste lodi, che or pure ascoltandole ne provo un diletto lusinghiero? Perché fra tutti me anteponi, il quale mi stimai a molti inferiore? —
Ed io vie piú animato da quelle urbane richieste, alquanto sommesso risposi: — A cosí grand’animo qual è il tuo, non potea mancare la dolce virtú della verecondia, e però ne leggiamo continuamente le prove ne’ tuoi aurei volumi. Quindi ove tu intraprendi le discussioni della filosofia, quanto sei splendido nella facondia, e ricco di dottrine, tanto moderato ne’ giudizi lasci le sentenze sospese all’arbitrio degli uditori. E questa perplessitá nell’affermare parmi che presso voi illustri antenati fosse una consuetudine di molti, incominciando da Socrate, il quale confuse l’orgoglio di vane dottrine con perpetue interrogazioni. Rara però è questa ornai nel mondo, perocché ora molti con eloquenza impetuosa declamano sentenze mirabili per la audacia loro. —
Tullio, ciò udendo, proruppe sdegnato: — Misera ogni vostra scienza, mentre ella non è che una favilla quasi spenta, in paragone dell’oceano di splendore nel quale si spazia la intelligenza eterna! Quegli fra voi il quale empie di maraviglia il mondo con le sue dottrine, quegli che a voi sembra innalzarsi al cielo con la incredibile sublimitá del suo ingegno, è per noi spiriti sciolti dal servaggio delle membra una stupida mente quale per voi il piú insensato degli animali. E noi cosí puri dalla materia caduca altro non siamo che menti vili al paragone della Suprema. È pertanto un orgoglio compassionevole se alcuno fra voi si affidi alla sua vana sapienza. — Quindi egli tacque lasciando ch’io continuassi l’intrapreso ragionamento.
Ma io per manifestargli piú convenevolmente quanto a me fossero noti gli studi suoi, incominciai a declamare alcuni esordi de’ suoi scritti filosofici, e quindi alcune perorazioni delle sue aringhe, e successivamente, secondo la mia reminiscenza, vari periodi e sentenze delle opere sue diverse. Vidi maraviglioso spettacolo ma vero, mostrare dapprima lo spettro una straordinaria commozione nell’udirmi, e poi stillare lagrime dalle palpebre sulla toga. Io per la pietá di quelle, cessai di piú riferire le sue sentenze. temendo ch’egli fosse dolente ascoltandole deturpate da barbara pronunziazione. Ma quegli soggiunse: — Mentre io era fra voi ottenni fama non mediocre di eloquenza, e ne’ suoi artifizi esercitai tutto quell’ingegno che mi avea conceduto la natura. Vidi spesse volte commuoversi alla mia voce ne’ comizi l’adunanza del popolo come il flutto al vento, grondar lagrime a’ giudici severi, farsi lieti gli squallidi volti degli accusati e mesti quelli de’ calunniatori, confusi gli audaci, timidi i potenti schernitori della giustizia. Pur tu vedi in me un piú maraviglioso effetto della tua semplice favella, perché mi riduci nuovamente alle umane fievolezze. Ecco le tue parole m’ingombrano di dolce perturbazione non consueta in questo pelago della morte. Non potevi, al certo, farmi udire piú grato suono che quello’ delle sentenze mie stesse, in questo luogo, dopo secoli, e con sí pronta reminiscenza. —
Ed io per vie piú produrre in lui quel grato effetto, proseguii narrando quelle avventure della sua morte a noi trasmesse dalla fama, le quali ancora fanno dolenti gli animi di ciascuno. Ma udendole si perturbò lo spettro, e in me fisava meste le sue pupille. Io frenai pertanto le parole, e quegli sospiroso incominciò: — Tu con animo quantunque benigno or mi rechi amarissima novella: io non mai ebbi contezza di questi oltraggi, i quali benché non offendessero che le misere spoglie, pur sono effetti d’ira cosí abbominevole che la reminiscenza loro mi percuote. Antica è l’ingiuria, inefficace lo sdegno, tarda la vendetta, e nondimeno io sento per quelle membra ch’ebbi in vita rinnovarsi in me le sollecitudini umane. — Io rimasi tacito per la maraviglia udendo quelle parole dolorose, e quindi soggiunsi: — Inopinato caso è questo che mi narri! Vedi ch’io ancora vivendo sono stimolato da cosí ardente brama di ragionare con voi. Altri uomini infiniti soffrono la medesima ansietá, ed appena sono rattenuti a soddisfarla dalla spaventevole condizione della morte. Scendono quotidianamente a voi messaggeri di nostre novelle, ed io non intendo come voi non siate solleciti di udirle, essendo anzi infinite le cagioni e gli argomenti che vi dovrebbero a ciò stimolare. —
Quegli rispose: — Diverse, piú che non credi, sono le consuetudini nel tempo eterno di quelle del momento di questa vita. Niuna qualitá nostra è simile o proporzionata a queste della terra. Per voi il tempo, lo spazio, il moto sono il fondamento e la norma d’ogni scienza, e per noi sono qualitá ripugnanti. Imperocché niuna misura ha il tempo infinito; niuna estensione e cambiamento di luogo conviene a tale sostanza che non ne ha, e non ne occupa alcuno. Or ti sia manifesto, anche in tanta oscuritá, che impossibile è fra noi ragionare di questo argomento. Pure, adombrando con umane parole i segreti della seconda vita, sappi che siamo ingolfati nel pelago del tempo, nella immensitá del quale, non che uno estinto, le intere generazioni altro non sono che una fronda che spinta dal vento galleggia ne’ flutti. E come nella vastitá del vostro mare sarebbe avvenimento quasi impossibile che alcuni notando naufraghi s’incontrassero, pensa quanto piú lo sia in questo senza fondo e senza lidi, nel quale se tu spingi il pensiero, vi si turba, vi si stanca, vi si smarrisce, e ti avvisa di non lanciarti vanamente oltre i confini dell’umano intelletto. —
Io ascoltava con incredibile ansietá cosí misteriose parole, e quantunque fossi ingombrato da riverenza per quelle, pure quanto
10 stesso avea poc’anzi veduto, l’adunarsi cioè gli spettri e ragionare con Tullio, a me sembrava ripugnante alla difficoltá da lui asserita d’incontrarsi nell’oceano intellettuale. Gli manifestai quindi questa mia perplessitá con discrete parole, ed egli mansueto rispose: — Lodevole cosa è del pari il consentire a discorso evidente, come
11 dissentire dal contrario, perocché sono entrambi segni d’intelletto sincero. Ma eccomi deliberato a toglierti dall’animo questi dubbi molesti. Eravamo dispersi, e divisi da immensi intervalli nel mare del tempo, né mai alcuno fra noi si era incontrato in questo silenzio eterno, quando udimmo un suono come di tromba, il quale ne convocava a questa parte della terra. E noi seguendone la scorta, come naviganti che mirano il faro nelle notti procellose, qui siamo concorsi in moltitudine innumerevole, e concorriamo. Vedemmo subitamente che queste erano le tombe di coloro i quali con mirabili imprese furono principali autori della grandezza romana. In loro sempre la patria collocò ne’ pericoli le sue speranze, e la sua fiducia nelle prosperitá. Le piú superbe nazioni udivano palpitando il nome di questa progenie. Or che da rustico ferro