Le notti degli emigrati a Londra/Il marchese di Tregle/VI

Il marchese di Tregle - VI

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Il marchese di Tregle - V Il marchese di Tregle - VII


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VI.


Io aveva rappresentato la mia parte, il meglio che avevo potuto; ma non nasconderò che il mio cuore andava al galoppo e che tutto mi sembrava orribilmente nero. Mi sentii alleviato, trovandomi solo. Però io non mi faceva la minima illusione sul finale del dramma. La mia prigione era la cappella del condannato. Io abbracciai di un colpo d’occhio, come i raggi solari al centro di una lente, tutta la mia vita passata, tutto ciò che mi era caro nel mondo, mia madre, mia sorella, il mio vecchio padre, la mia innamorata, poi mi vidi nel fondo d’un cortile, innanzi a quattro uomini ed un caporale, sul punto di essere fucilato come un cane arrabbiato, senza spettatori, e gettato alle gemonie. Io vidi dei quadri fantastici messi come un riverbero, in faccia della mia vita della vigilia, ricca, felice, amata, libera, scettica. Io vidi tutto ciò al di fuori di me, sentendomi sospeso al di sopra del mio essere, come si dipinge l’angelo custode aleggiando sul suo protetto. Non potei gustar nulla. Mi coricai e mi addormentai.

Il sole anch’esso coricavasi in un mare magnifico, cui tingeva di porpora.

Aprendo gli occhi all’indomani, all’aurora, esaminai la camera ove mi trovavo. Un luogo infame davvero, annerito, deturpato da caricature orribili disegnate al carbone, senza carta alle pareti, senza soffitto, quasi senza vetri alle finestre, ed un buco orrendo in un angolo. [p. 336 modifica]

Il domestico del corpo di guardia scopava, in onor mio, la camera di fuori. Lo chiamai. Venne e mi portò dell’acqua. Poco dopo, si presentò il capitano.

— Ebbene, signor marchese, state allegro. Avete ben dormito, eh!... Oh! ieri sera abbiamo segnalato a Napoli per telegrafo il vostro arresto. Il ministro vi farà mettere in libertà immediatamente, e voi direte, eh! che siete stato trattato con ogni riguardo.

Questa notizia era per me un colpo di fulmine. Essa sollecitava la lugubre soluzione che io aveva intravisto il dì innanzi. Era inevitabile. Il ministro Bozzelli m’invierebbe al generale Busacca, e questo amabile ubbriacone mi avrebbe fatto fucilare in men di tempo che non ne metteva a cioncare un gotto di Madera. Malgrado ciò mi contenni e risposi:

— Avete fatto benissimo. La risposta è arrivata?

— Il telegrafo non parla mica la notte, signor marchese (nel 1848 il telegrafo elettrico non esisteva negli Stati di Ferdinando II). La risposta però può arrivare da un istante all’altro.

— Sta bene, andatevene adesso.

— Volete che vi faccia portare del caffè?

— Grazie. Vedremo più tardi.

E’ partì dondolandosi, le mani dietro il dorso, e lo vidi traversare la piazza. Un’idea solcò il mio spirito come un lampo. Ero perduto: bisognava tutto osare. Terminai la mia toilette, misi i guanti, raccolsi un mozzicone di sigaro gettato via dal capitano, calcai il mio cappello sul capo, ed uscii. Il domestico terminava di scopare l’anticamera; le porte erano aperte. La guardia civica occupava il pian terreno, donde io doveva passare. Scesi la scala e mi rivolsi al sergente: [p. 337 modifica]

— Sergente, datemi del fuoco per accendere il mio sigaro.

Il sergente mi guardò senza rispondere ed obbedì. Io accesi il mozzicone e presi la via della porta.

— Ma, ove andate, signore? mi dimandò il sergente.

— Come, dove vado? Me ne vado, per bacco!

— Ve ne andate, ve ne andate..... ma voi non potete andarvene.

— Ah! grazie. Eccone un’altra che è proprio bella. Fo i miei complimenti al vostro paese.

— Bella brutta, e’ bisogna restar lì, signore, e risalire.

— Davvero?

— Ma....

— Il capitano non vi ha dunque detto, signor sergente, ch’egli è venuto ad annunziarmi che il ministro aveva segnalato da Napoli, che io potevo continuare il mio cammino?

— Neppure una parola di tutto ciò, signor marchese.

— Ebbene, caro voi, andateglielo a dimandare allora a codesto idiota, e vi auguro il buon giorno....

Il sergente restò perplesso, mentre io mi diressi di nuovo verso l’uscio.

E’ disse infine, alzando le spalle:

— Poichè voi mi assicurate che il capitano vi ha detto codesto, non sarò io che vorrò trattenervi. Servitore umilissimo, signor marchese, e buon viaggio.

— Per la vostra gente, dissi io, dandogli una moneta d’oro.

E partii, a passo lento, esaminando, da uomo che non ha fretta, la piazza, la caserma, la casa comu[p. 338 modifica]nale, i contadini che se ne andavano ai campi ed i loro ciuchi. La guardia dinanzi la porta mi seguiva degli occhi: io sentivo il suo sguardo bruciarmi il dorso. Appena però mi fui sottratto ai loro occhi, io non feci che un salto fino alla casa del mio amico Alberto. E vi metteva il piede, quando alla porta, per una di quelle venture, che non sono inverosimili che nei romanzi, io mi sentii avvinghiato dalle braccia di un vecchio prete da un lato, e dall’altro da quelle di un giovincello. Io resistetti. Essi mi baciavano sulle guance, ciascuno dal suo lato, il prete sclamando: «Io sono tuo zio, Tiberio!» ed il giovane echeggiando:

«Tiberio, io sono tuo cugino!»

— Eh! feci io, ma....

Io non avevo davvero il tempo di andarmi ad informare donde mi piovessero quello zio e quel cugino provvidenziali. Li credetti sulla parola, e rendendo loro ingenuamente l’amplesso, dissi:

— Benissimo, poichè siete mio zio e mio cugino, all’opera. Me la sono svignata dalla prigione: salvatemi, adesso.

— Presto, Gabriele, gridò lo zio, prendi Tiberio con te, gettatevi nelle vigne, nascondilo in qualche sito e ritorna per compiere il resto.

Gabriele mi prese dal polso.

— Presto, andiamo, e’ gridò.

— Un istante, risposi io, sfuggendogli dal pugno.

Salii la scala, saltando i scaglioni quattro a quattro, e via nella camera di Serafina.

In questo frattempo, ecco ciò che avveniva al corpo di guardia.

Il sergente, dopo avermi veduto partire, dopo aver [p. 339 modifica]diviso tra i suoi uomini la moneta che io gli aveva lasciata per mancia — facendosi la parte di.... sergente, non senza una lunga discussione — fu preso da un accesso in ritardo, di sentimento del dovere. E’ se ne andò dunque dal capitano per domandargli se io gli aveva detto la verità!

Il capitano era stato proprio allora chiamato dal giudice di pace, a proposito di un dispaccio telegrafico arrivato da Napoli. Il sergente respirò. Continuò dunque lentamente la sua via verso la casa del giudice. Alla porta di questo onorevole magistrato, il sergente incontrò il capitano che usciva, affannoso, frettoloso, con un dispaccio alle mani.

— Ah! arrivi a proposito, sergente, sclamò il capitano. Va a metterti un paio di scarpe nuove; devi partire fra un’ora.

— Partir per dove, capitano? dimandò il sergente, un poco sciancato quantunque sergente, e per ciò appunto detestando di marciare.

— Per dove, per dove? gridò il capitano d’un’aria burbera: per affar di servizio, per Dio! Bisogna che te ne dica il bello ed il meglio, eh! che ti dimandi il permesso e ti faccia le scuse di scomodarti? eh?

— Mille perdoni, capitano, replicò il sergente con voce contrita, ma, per andare, bisogna pur sapere, mi sembra, ove si va.

— Al diavolo, eh! a Cosenza se non ti dispiace. Diciotto miglia con i gendarmi alle calcagna, e gli uni e gli altri ad accompagnare quell’infernale rivoluzionario che abbiamo acchiappato ieri. Ah! se lo avessero messo in brani, eh! Sua Maestà avrebbe fatto cavaliere tutto il paese, compreso il campanone, e te pure, e ci avrebbe esentati dalle imposte per venti anni, eh! [p. 340 modifica]

— Come, capitano, borbottò il sergente, diventando orribilmente livido, il marchese.... dunque....

— Ebbene, sì, sissignore. Il ministro Bozzelli si è levato di buon umore e di buon’ora stamane, e ci fa segnalare di spedire il prigioniero al generale Busacca, a Cosenza. Comprendi, adesso? Otto uomini ed un sergente.... in mezzo di una piazza... portate, arma! caricate, arma! arma, fuoco! Al diavolo i rivoluzionari. Viva il re, nostro adorato padrone!

Io non saprei descrivervi il grido di disperazione gettato dal capitano, quando apprese che io me l’era dato a gambe. Una montagna si abbatteva sul suo capo e lo schiacciava. Immediatamente, gendarmi e guardie civiche sono sotto le armi, la chiamata batte, la campana a martello dà rintocchi, il popolo.... per fortuna, il popolo era ai campi. Immediatamente la casa ove io era è circondata. Io doveva esserci ancora, perchè un’ora non era per anco passata che io aveva lasciato il corpo di guardia.

La prima persona che il capitano incontrò all’uscio della casa, fu mio zio.

Il vecchio prete era l’uomo il più litighino della provincia. Egli sapeva i suoi codici a menadito, e lo si temeva come il colera. Egli si era minato a far processi; ma ciò malgrado, quando non ne aveva dei suoi, egli prendeva a patrocinare quelli di altrui — le cause obliate, abbandonate come impossibili.

Trovandosi d’incontro a quest’uomo, il capitano esitò.

— Ah! mio vecchio amico, sclamò mio zio con una voce tutto mele: come Dio vi manda a proposito! Come va la salute? ed i vostri piccoli? ed i bachi da seta? Fatemi dunque aprir questa porta. Io spasimo di abbracciar mio nipote. [p. 341 modifica]

— Che nipote?

— Ma, il marchese di Tregle, dunque! Voi nol sapevate?..

— Egli è dunque ancora colà?

— Lo credo bene! Non faceva che entrare, ero lì per raggiungerlo, quando, bum! mi si chiudono le porte sul muso.

Il capitano respirò. E’ cominciò allora a bussare ed a gridare:

— In nome del re! aprite, in nome del re....

Infrattanto la forza pubblica si accalcava e circondava casa e giardino. Impossibile di fuggire. Più il capitano bussava però, più l’uscio restava chiuso e la gente di dentro silenziosa. Il padre di Serafina si trovava innanzi al portone come gli altri. Si era rimarcato che il mio cavallo era ancora alla scuderia. Dunque, io era in trappola. Il capitano fece un’ultima intimazione, dichiarando, che egli stava per rovesciar tutto, anche i muri, e si chiamò un chiavaio.

Quest’artefice arrivò. Il capitano gli ordinò di aprire.

— Piano, piano, prese a dire allora il mio eccellente zio; la legge è la legge, mio vecchio amico, ed essa è legge per tutti. Voi dovete entrar lì dentro per affar di servizio. A meraviglia. Io lo desidero più che voi, per abbracciare il marchese mio nipote. Un deputato che va al Parlamento, cappita? gli è interessante di essere zio di codesto, capite! Ma facciamo le cose in regola, senza che, io mi costituisco parte lesa, e vi chiamo responsabile di tutte le irregolarità. L’articolo 23 della Costituzione dice: «il domicilio è inviolabile». Per l’articolo 38 poi, i deputati sono [p. 342 modifica]sottratti alla giurisdizione del potere giudiziario, civile e militare, senza il consentimento previo della Camera. Ora, chi sa, mio vecchio amico? Vi sarà ancora un Parlamento a Napoli: avete visto nella Gazzetta officiale del Regno, che è stato convocato....

Il capitano impallidì. Si trovava preso tra un telegramma del ministro e due articoli dello Statuto. E’ fece chiamare il sindaco.

Questo funzionario era lungo e sottile come un filo di telegrafo elettrico, strangolato nella sua cravatta, muto come una buca da lettere, notaio di professione, suonando l’organo alla chiesa per un salario di ventiquattro carlini l’anno. Egli giunse alla fine, tirandosi a rimorchio il giudice di pace ed il di lui piede sinistro addolenzito dalla podagra. I tre funzionari scarabocchiarono un processo verbale, lo fecero firmare dai testimoni, tra i quali mio zio, che dopo di averne sorvegliato la redazione, ebbe altresì la soddisfazione di firmarlo come teste. Quindi, il portone fu scardinato. Quella gente si precipitò nella corte, non senza una tale quale trepidazione. Una parte scese in cantina, un’altra salì la scala. Ma, paf! sul ballatoio, l’uscio del primo piano si chiude loro sul naso. Si batte di nuovo, si vocia un’altra intimazione, si redige un nuovo processo verbale, poi il magnano fa saltare la stanghetta della toppa ed introduce il magistrato nell’anticamera. La porta della sala da pranzo si chiuse come e’ mettevano il piede nell’anticamera. Bisognò rinovellare l’intimazione in nome del re, il processo verbale ed il resto. Breve, dopo avere violate così legalmente cinque o sei porte, si arrivò a quella della camera di Serafina.

Due ore erano passate. [p. 343 modifica]

Si bussò anche alla porta di Serafina.

— Chi è là? dimandò la giovinetta.

— Aprite, in nome del re.

— Non lo conosco.

— Aprite, o rompiamo tutto.

— Ma, non posso.

— E perchè non potete?

— Sono col mio innamorato.

Il chiavaiuolo aprì, ed i magistrati della piccola città di Scalea trovarono la giovinetta decentemente vestita, assisa sur una seggiola vicina alla finestra, che sporgeva sul giardino a mezza vita di altezza, il visino inquadrato fra due vasi di garofani, infilzando le maglie di un paio di calze, pacifica e sola.

— Ebbene, signorina, gridò il capitano schiumando di rabbia, perchè avete voi resistito al nome del re? perchè avete voi serrate tante porte? perchè non avete aperto alla nostra intimazione? perchè vi siete voi rinchiusa qui, eh! eh! eh!

— Magari, ch’eccone lì dei perchè! replicò Serafina senza commuoversi. Ebbene eccovene un altro adesso: perchè io era in casa mia.

— In casa vostra, in casa vostra! il re entra dovunque signorina....

— Come i cani dunque...?

— ...... Ed anche in casa vostra.

— Se mi aggrada, e quando il mio innamorato non vi è.

— Che innamorato! ove è codesto vostro innamorato, alla fine?

— Cercatelo.

Le guardie rovistavano e rimuginavano di già da per tutto, dietro il piccolo letto, nell’armadio, nello [p. 344 modifica]stanzino di toilette, negli stipi e nelle scatole. Serafina li guardava fare ed una leggera smorfia sarcastica sorvolava per momenti sulle sue labbra. Infine ella fece un segno ed indicò che il suo amoroso se l’era sfumata dalla finestra.

Il capitano lasciò andare un malannaggia. Mio zio gli battè sulla spalla e gli disse:

— Voi siete un eccellente capitano; vi farò nominare maggiore alle prossime elezioni.