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nale, i contadini che se ne andavano ai campi ed i loro ciuchi. La guardia dinanzi la porta mi seguiva degli occhi: io sentivo il suo sguardo bruciarmi il dorso. Appena però mi fui sottratto ai loro occhi, io non feci che un salto fino alla casa del mio amico Alberto. E vi metteva il piede, quando alla porta, per una di quelle venture, che non sono inverosimili che nei romanzi, io mi sentii avvinghiato dalle braccia di un vecchio prete da un lato, e dall’altro da quelle di un giovincello. Io resistetti. Essi mi baciavano sulle guance, ciascuno dal suo lato, il prete sclamando: «Io sono tuo zio, Tiberio!» ed il giovane echeggiando:

«Tiberio, io sono tuo cugino!»

— Eh! feci io, ma....

Io non avevo davvero il tempo di andarmi ad informare donde mi piovessero quello zio e quel cugino provvidenziali. Li credetti sulla parola, e rendendo loro ingenuamente l’amplesso, dissi:

— Benissimo, poichè siete mio zio e mio cugino, all’opera. Me la sono svignata dalla prigione: salvatemi, adesso.

— Presto, Gabriele, gridò lo zio, prendi Tiberio con te, gettatevi nelle vigne, nascondilo in qualche sito e ritorna per compiere il resto.

Gabriele mi prese dal polso.

— Presto, andiamo, e’ gridò.

— Un istante, risposi io, sfuggendogli dal pugno.

Salii la scala, saltando i scaglioni quattro a quattro, e via nella camera di Serafina.

In questo frattempo, ecco ciò che avveniva al corpo di guardia.

Il sergente, dopo avermi veduto partire, dopo aver