Le notti degli emigrati a Londra/Il marchese di Tregle/V
Questo testo è completo. |
◄ | Il marchese di Tregle - IV | Il marchese di Tregle - VI | ► |
V.
Ecco ciò che era accaduto.
Alcuni individui mi avevano visto sbarcare alla marina, in un’assisa di uffiziale di stato maggiore. Il governo provvisorio di Cosenza mi avrebbe nominato papa, se lo avessi dimandato, onde sbarazzarsi della mia persona. Io non dimandai che un grado, senza soldo nè funzione, per aver l’occasione di osservar le cose da vicino, con mio comodo. I pescatori di Scalea mi avevan preso nientemeno che per il comandante in capo della insurrezione, per un generale, un maresciallo forse. Essendosi poscia recati nel piazzale della chiesa, di dove la domenica, nelle belle giornate, il popolo dell’Italia meridionale vede celebrare la messa, questi pescatori avevano comunicata la notizia al popolaccio del borgo. La novella della nostra disfatta vi era già capitata da due giorni. La medesima gente, la settimana precedente, aveva coraggiosamente fucilato il busto in gesso di re Ferdinando sulla piazza pubblica — quel busto augusto che presiedeva alle udienze del giudice di pace ed ispirava le sentenze di questo magistrato.
Nel medesimo tempo si era visto passare la mia valigia.
— La è zeppa di oro! si avvisò di dire un uomo di spirito, il barbiere del villaggio.
— Davvero? gridarono tutti, cogli occhi lucenti.
— Zeppa, zeppa. Il generale va ad attizzare la rivoluzione in Basilicata. Io mi so questo...... da una persona che lo sapeva.
Occorreva altro? Il giudice, il sindaco, il capitano della guardia civica, appresero dalla medesima voce che il generale siciliano era entrato appunto allora nel paese.
— Santu diavolone! susurrò il giudice di pace all’orecchio del capitano, ecco un’occasione che Dio ci manda, per riscattare l’affare del busto, e salvar vostro figlio, che era egli pure tra i rivoltosi. Questo paga quello.
— Verissimo! gridò il capitano, colpito da quella luminosa idea.
E senza metter tempo in mezzo, popolo e capi, ciascuno col suo intento, gli uni per rubarmi, gli altri per transigere col governo, eccoli lì tutti dirigersi in tumulto verso casa Cupido, ove io dimorava. Il sindaco si fe’ avanti e bussò. Alberto, che era alla finestra co’ miei due bravi Albanesi, coi moschetti in ordine, mise fuori il capo, si cavò pulitamente il berretto e domandò:
— Che cosa volete, signor sindaco?
— In nome del re, rispose il degno magistrato, io richiedo il rivoluzionario, il nemico di S. M. il re nostro signore e della nazione, che si cela in casa vostra.
— Eh eh! fece Alberto voltando la cosa in celia. Incognito! una bestia di questa sorta qui dentro. Andate in casa del capitano piuttosto.
Questi impallidì e replicò:
— Io constato che voi resistete al nome del re e userò la forza. Popolo, diss’egli poscia, vengono qui per spingerti all’insurrezione contro il re, nostro augusto padrone; abbasso i traditori, a morte i giacobini!
Il popolo fedele, che fiutava l’oro della mia valigia — ahimè! non vi era che qualche vestito e delle cartacce — bruciando di amore per il trono, per l’altare, per la proprietà e per la famiglia, gridò, ruggì come un’eco terribile:
— Abbasso i giacobini! morte alla nazione!
L’era edificante. Io restava, colle braccia incrociate, dietro Alberto, e contemplava Serafina.
— Come l’è bella! mi dicevo, sentendo il sangue rifluire verso il cuore.
Il rossore, il pallore, si alternavano, come i fiotti del mare alle spiagge, sul sembiante della fanciulla. I suoi grandi occhi riflettevano il cielo ed avrebbero rischiarato la prigione di Ugolino.
— Andiamo a cercar l’accetta e atterriamo la porta, urlava la plebaglia rigenerata.
— Insomma, dissi io ad Alberto, dimanda a codesti bravi cittadini, che diavolo vogliono e per chi mi piglian dessi!
Alberto ripetè la domanda. Il giudice, scegliendo l’accento più ufficiale, dichiarò che io era il generale Ribotti, e che era suo dovere impedire la conflagrazione del regno.
— Non si tratta che di ciò? gridai io, tirando da parte Alberto e suo padre e mettendomi alla finestra a mia volta.
Poi, indirizzandomi a quell’onesto pubblico ed al suo organo officiale:
— Tu la pigli grossa, sclamai, cioè, voi v’ingannate, signor funzionario. Il general Ribotti, a quest’ora, digerisce, fuma, beve e se la batte in ritirata con i nostri valorosi fratelli di Sicilia. Io sono il marchese di Tregle, deputato al Parlamento e mi reco alla Camera.
— Voi andate dunque alla Camera per le vie scorciatoie? osservò l’arciprete della Comune.
— Vegliardo, risposi io con prosopopea, imparate che tutte le strade sono buone, quando conducono l’uomo a compiere il suo dovere. Io mi reco alla Camera... erborizzando per le vostre montagne.
— Ah! voi fate della botanica in assisa d’insorto!
— Oh che? andreste per avventura a cercarmi taccole adesso sul taglio e la moda del mio abito? Augusto vecchio, apprendete che questo qui è proprio l’uniforme dei membri del Parlamento della regina Vittoria.
— Ohibò! ohibò! egli è il generale Ribotti; lo si conosce, lo si è visto. In prigione, alla ghigliottina! Consegnatecelo, o metteremo fuoco alla porta della casa.
— Piano, eh! dissi io....
E qui, via! mi misi ad improvvisare uno speech serio. Era proprio serio? Nol so, per dio. Ma insomma, parlai. M’interruppero. Io dimandai il silenzio e l’ordine. Mi fischiarono. Ripresi la parola. Mi gettarono dei limoni. Io li presi al volo e continuai. Coprirono la mia voce di urli, d’ingiurie, di bestemmie, di ogni specie di grida di bestia. Io mi coprii infine con dignità, protestai e mi ritrai dalla finestra.
Intanto le accette cominciavano a dar rovello alla porta. Non vi era tempo da perdere. I due Albanesi, Alberto, suo padre, Serafina ella stessa, volevano tirar moschettate sull’udienza in disordine. Io mi opposi. Abbottonai la mia casacca di velluto, calcai sul capo il cappello, misi i guanti.... sì, i guanti gialli che dovevano servirmi per prestare il giuramento alla Costituzione di Ferdinando II... ed ordinai di aprire la porta.
Ed eccomi in mezzo alla moltitudine. Vi erano lì duemila persone. Tutti si precipitarono sopra di me ad una volta. Un furfante mise la mano alla mia cravatta — una bella cravatta tricolore.
— Villano! gridai io sdegnato, non disfare il mio nodo.
E gli applicai una ceffata. Una mano carica dei destini di una nazione, dev’essere pesante: la si rispetta. E’ rinculò. Il capitano, il giudice, il sindaco mi circondarono. Ma era impossibile di avanzare.
— Fate largo! gridava la guardia civica.
— In prigione! alla ghigliottina! braitava la canaglia — i fanciulli e le donne più alto degli altri.
Povere creature! esse hanno così di raro uno spettacolo nella rude loro vita dei campi! Un’impiccaggione, l’è una rugiada: fa epoca. Facemmo qualche passo. Ad un tratto, un uomo si precipita sopra di me, con un trincetto di calzolaio alla mano.
— Lasciatemi bere il sangue di codesto nemico del mio re! grugniva il manigoldo, scoccandomi un colpo della sua terribile arma.
Io aveva riconosciuto nella folla un giovane chiamato Galvani, un dì mio compagno di studi a Napoli. Questo ragazzo gridava, a rompersi le costole, che io non era mica il Ribotti, che io era il marchese di Tregle, quando il ciabattino si slanciò su di me. Galvani arrivò a tempo per ritenere il braccio dell’assassino; di guisa che non vi ebbe altra disgrazia, che una bella fessura alla mia bella assisa.
Allora la guardia civica, che si era infine aperta una via, mi circondò:
— Gli è meglio che andiate in prigione, mi susurrò all’orecchio Galvani. Quivi, sarete salvo.
Io parlai, protestai, presi a testimonio uomini e bestie, sulla violenza che si adoperava contro un rappresentante della nazione che recavasi al Parlamento, e rotolai, o piuttosto mi rotolarono verso la prigione.
Ed eccomi là.
Non era proprio la prigione ove mi avevano condotto — quelle prigioni di Calabria ove una palla di cannone prenderebbe una flussione di petto e la febbre putrida! M’installarono nel corpo di guardia; al primo piano. Io avevo una guardia che faceva sentinella alla mia porta.
Appena in gattabuia, io rifaceva il nodo della mia cravatta innanzi ad un vetro, quando il capitano della guardia civica si presentò. Si chiamava don Prospero. Era un informe cubo di carne: non braccia, non gambe, non collo. Una zucca popona, mitragliata dal vaiuolo, tenevagli luogo di testa. Dei mustacchi più formidabili di quelli di Vittorio Emanuele. Gli occhiali verdi nascondevano gli occhi. Le falde dell’uniforme a coda di rondine, aprendosi, mostravano i rattoppi ed i rabberci delle sue brache. Un naso lungo, molto lungo, lunghissimo, quasi altrettanto lungo che quello dell’ex Imperatrice dei francesi. Quando parlava, la sua bocca era una cascata a getto continuo.
— Ebbene, signor marchese, eh! l’abbiamo scappata bella. Voi direte alla Camera che io ho fatto ammirabilmente il mio dovere, eh! Cosa posso fare adesso per servirvi, eh!
— Andate a farvi..... No, prendete carta ed inchiostro, e scrivete.
Il capitano andò giù a cercare quello che occorreva e ritornò. Io gli dettai una protesta in regola. E’ scrisse.
— Ora, gli dissi io quando egli ebbe finito, portate codesto in mio nome al giudice di pace.
— All’istante, signor marchese. Il mio figlio vi conosce. Voi direte alla Camera che io sono un buon patriotta, eh! Come vi ho protetto! Vi bisogna altro?
— Mandatemi tutto ciò che è necessario qui: un letto prima d’ogni cosa.
— Vostro umilissimo servitore, signor marchese. Vi manderò da pranzo da casa mia....
— Non andare ad intossicarmi, per lo meno, vecchio galuppo! Va, va.
Lo spinsi.... e caddi affranto sur uno sgabello.