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diviso tra i suoi uomini la moneta che io gli aveva lasciata per mancia — facendosi la parte di.... sergente, non senza una lunga discussione — fu preso da un accesso in ritardo, di sentimento del dovere. E’ se ne andò dunque dal capitano per domandargli se io gli aveva detto la verità!

Il capitano era stato proprio allora chiamato dal giudice di pace, a proposito di un dispaccio telegrafico arrivato da Napoli. Il sergente respirò. Continuò dunque lentamente la sua via verso la casa del giudice. Alla porta di questo onorevole magistrato, il sergente incontrò il capitano che usciva, affannoso, frettoloso, con un dispaccio alle mani.

— Ah! arrivi a proposito, sergente, sclamò il capitano. Va a metterti un paio di scarpe nuove; devi partire fra un’ora.

— Partir per dove, capitano? dimandò il sergente, un poco sciancato quantunque sergente, e per ciò appunto detestando di marciare.

— Per dove, per dove? gridò il capitano d’un’aria burbera: per affar di servizio, per Dio! Bisogna che te ne dica il bello ed il meglio, eh! che ti dimandi il permesso e ti faccia le scuse di scomodarti? eh?

— Mille perdoni, capitano, replicò il sergente con voce contrita, ma, per andare, bisogna pur sapere, mi sembra, ove si va.

— Al diavolo, eh! a Cosenza se non ti dispiace. Diciotto miglia con i gendarmi alle calcagna, e gli uni e gli altri ad accompagnare quell’infernale rivoluzionario che abbiamo acchiappato ieri. Ah! se lo avessero messo in brani, eh! Sua Maestà avrebbe fatto cavaliere tutto il paese, compreso il campanone, e te pure, e ci avrebbe esentati dalle imposte per venti anni, eh!