Le notti degli emigrati a Londra/Il marchese di Tregle/VII
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VII.
Quando entrai nella camera di Serafina, ella si alzava allora allora. Era ancora in negligé di mattino, in ginocchio d’innanzi ad una madonna grossolanamente miniata, e pregava.
Se voi non aveste mai in vostra vita, amici miei, uno di questi colpi-di-sole d’amore fulminante, che s’infiamma in uno sguardo, che nasce radioso come l’aurora, tutto armato, subito, infinito, quest’apoplessia del cuore in una parola, vi compiango: voi non conoscete l’amore. Serafina mi aveva irradiato di questo amore abbarbagliante. Vedendola per la prima volta, credetti averla di già vista, di già amata, e l’amai. Io era, in oltre, in una fase della vita in cui i minuti contano per anni.
Entrai dunque nella camera di lei e le dissi semplicemente così:
— Serafina, io fuggo. Verranno a cercarmi qui. Non so se ci rivedremo più mai. Ma prima di lasciarti, permettimi dirti, che oggimai non vi saranno più nel mio cuore che tre immagini di donna: quella di mia madre, quella di mia sorella e la tua.
E dicendo ciò con voce soffocata, la baciai, e saltai dalla finestra. Mio cugino mi seguì.
La storia di quella disgraziata Serafina è dolentissima storia. Non la rividi più... Ella è morta......
Traversammo il giardino che si prolungava fuori del borgo, poi un piccolo rigagnolo, ove delle donne lavavano dei pannilini. Brancolammo come serpenti di sotto le siepi e ci aprimmo il passo in mezzo ai vigneti, i di cui sarmenti, ricchi di pampani, serpeggiavano al suolo. Una volta quivi, procedemmo carponi, sguizzando ventre a terra sotto le foglie ed ascendemmo la collina, sempre in vista di Scalea.
Ci trascinammo così per un pezzo fino ad un certo sito, dal lato opposto all’altura. Lì, una siepe spessa, terribilmente irta di ronchi, mi concesse un ricovero. Mio cugino mi cacciò lì sotto come una lucertola. Aggiustò i virgulti della siepe, di guisa che alcuno non avrebbe mai sospettato che la nascondesse un demagogo. Mi disse di uscir da quel ricetto alle due pomeridiane e discender in un boschetto ceduo, vicino la strada consolare, ove egli sarebbe giunto verso le due e mezzo, menando seco il mio cavallo, per continuare la via. E’ mi diede altre istruzioni, poi, carponi sempre, discese di nuovo fino giù al sentiero, si raddrizzò, scosse la polvere, accese il sigaro, incrociò le mani dietro il dorso, e se ne ritornò a Scalea con l’indifferenza di un uomo che ha fatto una passeggiata per digerire. Io lo seguii dello sguardo per quanto potei... ed il mio cuore si chiuse.
Era desso mio cugino? La storia genealogica ch’egli mi aveva abbozzata era poi vera? La risaliva ad ogni modo alla terza moglie del mio bisavolo. Egli e suo zio avevano il dì innanzi udito parlare del mio arresto, nel loro paesello vicino Scalea, ed al mattino erano venuti nobilmente in mio soccorso.
Serafina aveva capito in un lampo, che occorreva darmi il tempo di allontanarmi, prima che i gendarmi e le guardie civiche mi venissero alle calcagna. Suo fratello Alberto era partito la notte, onde andare, con i miei due Albanesi, a portare a mia madre il tristo annunzio del mio arresto. Il vecchio padre, don Cataldo, era uscito di buon’ora per annasare nel borgo ciò che dicevasi e cosa decidessero sul conto mio. Serafina era subito corsa a chiudere il portone di strada ed aveva tirati li chiavistelli, dopo una parola che mio zio le aveva gettato nell’orecchio, ed ella aveva poscia sbarrato l’uno dopo l’altro gli usci di tutte le camere, fino alla sua, dove la si rinchiuse e pregò.
Un’ora dopo questa scena, io udii i gendarmi e le guardie civiche passar davanti al mio cespuglio, andando al mio inseguimento. E’ si erano sparpagliati in ogni verso, non sapendo qual sentiero avessi io preso. Le lavandaie avevano negato di avermi veduto — io aveva, passando, gettato una moneta di argento a quelle povere tupine, che la vigilia avevan voluto sbranarmi. D’altronde, in Italia, la donna è ancora la sola creatura che si abbia un’anima, una coscienza, del patriottismo senza interesse, ed un po’ di senso morale. Stanchi, esausti, abbattuti da trentotto gradi di caldo, i gendarmi fecero sosta proprio innanzi la siepe sotto la quale io era appiattato. Io udii una conversazione sul conto mio — che mi dà la pelle d’oca anche in questo momento, innanzi ad un bol de punch.
E ciò dicendo, Tiberio bevve ridendo un altro bicchiere del liquido delizioso; e poi continuò:
— I gendarmi restarono quivi una mezz’ora — ed io imparai, che un uomo può restare una mezz’ora senza respirare. — Poscia e’ si rimisero in cammino.
L’orecchio attaccato al suolo, udii da prima il suono della loro voce, poi il rumore dei loro passi estinguersi in lontananza. Io aveva sentito il ventre freddo dalle lucertole strisciar sul mio sembiante, e non mi ero mosso per non denunziarmi. Le mosche, le zanzare, le vespe, mi avevano divorato, ed io non aveva battuto palpebra. Una catalessia morale aveva irrigidito il mio corpo. Tutta la vita si era allora concentrata nella vista e nell’udito. Udivo battere il cuore degli uccelli poggiati sul mio roveto. Vedevo dei millepiedi rossi correre su i pampani, ad un tiro di fucile. Rimarcavo mille tinte nella gradazione della luce del sole, a misura ch’esso s’innalzava sull’orizzonte — osservazione curiosa e singolare, che mi ha fatto di poi pigliare il broncio cento volte contro i pittori di paesaggio, che non capiscono nulla, proprio nulla, del cielo. E come il tempo mi parve lungo! e quanto il pigolìo degli uccelli mi assassinava!
Ogni rumore era per me un nemico, una trappola forse. Io aveva sete come se avessi tutta la notte mangiato aringhe o bevuto liquori spiritosi. Lo stomaco è un organo implacabile ed immorale. Una grossa serpe nera — serpe innocente — si cacciò all’ombra sotto la siepe. Gli occhi maravigliosamente belli del rettile ed i miei s’incontrarono, si fissarono.
La serpe si fermò, sollevò un po’ la sua testa civettuola, piena di curiosità e di stupore, e prudentemente si ritirò. Più tardi, gli è un grosso lucertolone verde, pesante, brutale, — un pievano, — che si avvicina al mio viso. Io sputai su di lui. Infine, osai fare un movimento. Presi il mio orologio. Segnava mezzodì. E poi, restai gli occhi inchiodati sul quadrante.
Mio Dio! come un’ora è lunga a scorrere! Un’ora? Ma la non termina mai, non passa mai. Non pertanto, la cadde anch’essa nel baratro del tempo. Quando io vidi le due sfere accavallarsi l’una sull’altra sul numero II, respirai. Era l’ora convenuta con mio cugino. Dovevo mettermi in cammino. Io fermai per cinque minuti ancora la mia respirazione, onde meglio ascoltare, poscia lasciai libero giuoco ai miei polmoni ed uscii.
Avrei desiderato che una notte eterna avviluppasse l’universo: ed e’ brillava un sole di Oriente, fulgidissimo, implacabile. Mi guardai intorno. Non un’anima. Guardai lontano. Nessuno. «Andiamo, mi dissi, cangiando d’un tratto di umore, non so perchè; andiamo dunque! E cominciai a cantare: Malbrough s’en va-t-en guerre.... en guerre.... en guerre.... ripetendo l’en guerre in tuono sempre più basso. Quindi mi arrestai corto e ridivenni timido.
Io marciavo trascinandomi quasi sul ventre, fra i vigneti e le boscaglie. Alle due e mezzo, mi fermai al sito indicatomi da mio cugino. Lo esaminai bene. L’era proprio quello. Vidi la vecchia quercia decapitata, circondata da olivi, sul piazzale della vecchia casa, a cima del monticello. Impossibile di sbagliare. Verificai che non m’ingannavo, mi assisi ed incrociai le braccia.
Scorse un’ora. L’orecchio teso lontan lontano, io osservava macchinalmente una fila di formiche rosse. Mi coricai supino e fissai gli occhi al cielo. Come il cielo è bello! Quindi chiusi gli occhi provando di addormentarmi, e mi addormii.
Ero restato una mezza ora in quello stato di torpore, quando principiai a sentire un forte malessere, una specie di oppressione, quasi fossi stato allogato sotto la potenza di un succhiamento che mi aspirava. Non era dolore: era la sensazione strana di un’estrazione del me fuori di me. Apersi gli occhi diretti allo zenit di un cielo di cobalto. Guardai senza vedere da prima, poi ben presto la mia attenzione si concentrò sur un globo nero, librato perpendicolarmente sul mio capo. Questo punto mi sembrò dapprima immobile, poscia compresi ch’e’ si moveva, vedendolo ingrossare ed approssimarsi. Poco dopo, distinsi un’aquila immensa che, cangiando allora la sua discesa verticale, cominciò a descrivere sul mio corpo dei circoli spirali, larghissimi da prima, più ristretti in seguito, a guisa d’imbuto.
Il mio malessere aumentava, si pronunciava, diveniva poco a poco doloroso. Si sarebbe detto che mi vuotassero. L’aquila discendeva sempre. Essa poteva essere in quel momento a due o trecento metri, perocchè io misurava di già cogli occhi la formidabile tesa delle sue ali, la testa proiettata in avanti, gli artigli terribili contratti sotto il ventre, ma aperti, i suoi occhi spalancati e fissi. Volli rialzarmi: provai uno stento forte a scuotere il peso invisibile che m’inchiodava al suolo.
Io aveva tolto la mia veste, a causa dell’afa opprimente, aveva tolto la cravatta, aperta la camicia sul petto, di guisa che il busto restava quasi nudo.
Un formicolamento, davvero penoso, arrovellava adesso tutto il mio corpo. E l’aquila si avvicinava. I nostri occhi, egualmente devaricati ed immobili, s’incrociavano, si penetravano. Io compresi alla fine che mi trovavo sotto una potenza magnetica feroce, che aumentava di secondo in secondo. L’aquila era a meno di cento metri lontana da me, silenziosa, ma col rostro terribile mezzo aperto, quasi avesse avuto bisogno di respirare più vivamente. I suoi circoli concentrici erano adesso talmente ristretti che sembravami la si lasciasse calare in linea retta, senza batter ala, del suo solo peso, e la si precipitasse sopra di me.
L’imminenza di quest’attacco imprevisto ed inaudito, mi fece ribalzare. Feci uno sforzo come se avessi avuto a sollevare un soffitto cadutomi sopra, e saltai in piedi, prendendo il revolver alla mia cintura. L’aquila si arrestò per un secondo, poi avanzò ancora. Io tirai su di lei, ed agitai il mio pastranello, violentemente. L’aquila si fermò di nuovo per un minuto circa, lasciandomi dibattere per forte paura, poi la fece come un salto indietro, e la vidi rialzarsi lentamente di nuovo verso il cielo, descrivendo le medesime curve che aveva descritte scendendo.
Essa si levò, si levò sempre. Io cominciai a non più distinguere il fulvo colore delle sue piume, poi i suoi membri, poi le sue ali, non ha guari come due vele latine. Essa si rimpiccioliva, si rimpiccioliva ancora. Io non scorgeva più il suo movimento, ma la vedevo perdersi nelle alte regioni, confondersi con i raggi luminosi, infine sparire affatto, fondendosi con l’azzurro del firmamento. Respirai, mi vestii e guardai al mio orologio. Segnava le quattro.
Le quattro, e nessun cugino! Avrebbe egli dimenticato l’ora? Alle quattro e mezzo: non uno strepito nell’aria. Avrebbe egli dimenticato il convegno? Sono le cinque: gli uccelli si svegliano, il moto degl’insetti ricomincia; ma il mio cavallo non giunge. L’avessero arrestato? Alle cinque e mezzo, non c’era essere vivente intorno a me. Ciò che io almanaccava, ciò che io sentiva in quel momento, non saprei esprimerlo: era un ditirambo di bassezza, di dolore, di paure, di sospetti, di scoraggiamento, di dilaniamento che non mi farebbe stimare l’uomo, se egli fosse un essere stimabile. L’uomo in faccia di sè stesso, solo, senza l’elettricità morale che gli comunica il contatto della società, la quale mette in giuoco l’amor proprio di lui, è obbrobioso. No: e non è la fattura di un Dio!
Ed il mio cugino? Non sarebbe egli passato prima che io giungessi, o durante il mio combattimento con l’aquila! Quel giovanetto era egli davvero mio cugino? No: e mi vendeva in quel momento. I gendarmi l’avevano arrestato.... Il vecchio prete era una spia.... E poi che cosa fare? Io non conoscevo i sentieri per andarmene a piedi a casa mia, a traverso le montagne...... E sempre l’orrida fisima, l’indegno delirio: mi hanno tradito! sono solo in mezzo all’incognito, cacciato come un lupo!
Alle sei, nessuno ancora.
Nessuno ancora, alle sei e mezzo.
Quell’agonia avrebbe invecchiato Catone — il Catone di Plutarco.
Mi levai. Il sangue correva nelle mie vene come un gruppo di bruchi. Feci parecchie fiate il giro del vecchio tronco d’albero sotto il quale ero assiso. Ed ascoltavo sempre! ascoltavo! Ma nulla, ma assolutamente nulla! Non un soffio. Il canto degli uccelli, il fruscio delle ali degl’insetti, il leggiero strepito delle foglie sotto la respirazione della brezza, tutto si andava tacendo, poco a poco, l’un dietro l’altro. La notte spiegava le sue vele. Ed il mio cuore batteva a spezzare le costole. Infine mi slanciai di un balzo sulla strada, come una tigre che si precipita sur una preda, senza saper perchè, nè che mi facessi. Erano le sette. Vidi allora un uomo, un pescatore. Per un movimento istintivo, rinculai di un passo. La vista dell’uomo mi richiamava al pudore della dignità. Quell’uomo mi vide anch’egli e venne a me.
— Brav’uomo, gli dissi, non potendolo evitare, mi sono smarrito nel mettermi sulla via di Lauria. Vuoi accompagnarmi? Ti pagherò la tua giornata.
Il contadino sorrise. Si guardò con precauzione intorno, poi mise l’indice sulle labbra.
— Zitto! io vi conosco. Io era a Campotenese con voi. Non abbiate paura. Che volete?
— Ebbene, amico mio, sì. E poichè tu mi conosci, salvami. Conducimi in casa mia, e ti si darà di che vivere per due anni.
— Non posso, signore. Ho in casa mia moglie che l’è ridotta al pan di frumento (all’agonia). Il curioso (il confessore) è al suo capezzale. Che si direbbe se la lasciassi? Non potrei più rimaritarmi: alcuna donna non vorria più di me.
— Ma almeno..... ma questo.... ma quello....
Tutto che gli dissi, fu inutile. Nulla lo toccò, nulla lo tentò, nulla riscosse quell’uomo. E’ si limitò a condurmi alla riva del mare, in un vecchio casolare abbandonato dalla dogana, e mi lasciò quivi per andare in casa sua a cercarmi del pane e vedere se sua moglie era morta. Quel vecchio aveva la testa di San Pietro: una testa ostinata, tenace, violenta, bronzata.
Una mezz’ora dopo, e’ tornò, portandomi del pane ed un pesce fritto. Mi dimandò scusa di avermi fatto aspettar tanto. — E soggiunse: che non era colpa sua, che sua moglie veniva giusto allora di spirare, che egli aveva chiusa la porta, coperto il fuoco, allumato una lucerna innanzi la morta, che aveva qualche ora libera da spendere e che poteva accompagnarmi fino a.....
Io udii uno strepito lontano. La notte era venuta completamente. Udii qualche cosa di appena percettibile, che marciava sulla strada consolare. Il rumore si avvicinava, diveniva più distinto. Era una cavalcatura che camminava, un cavallo che galoppava. Il cuore si chiuse, si allargò, si ristrinse di nuovo: «Sono le genti che vengono a catturarmi; il vecchio S. Pietro è andato a denunziarmi.... Che? un nitrito? un nitrito!....»
Mi precipitai fuori, uscii sulla grande strada....
Il mio cavallo mi aveva fiutato. E’ mi chiamava....
Mio cugino era stato sorvegliato tutto il dì e non aveva potuto partire senza farsi scoprire.
Io saltai come un tigre sul mio cavallo. Senza toccare nè crine nè staffe, mi sentii in sella. E mio cugino inforcava le groppe. Ero salvo! ero salvo!
Io obliai perfino di dir grazie al mio S. Pietro e di dargli la mia borsa. La gioia è brutale ed ingrata. Quell’uomo è desso restato onesto dopo codesto? Questo pensiero mi ha perseguitato non poche notti. Io credo che sì.
In tutta l’odissea di astuzie che mi ebbi a correre in seguito per sottrarmi alla caccia della polizia, prima di toccar il suolo francese, dovunque, gli è il contadino che io ho trovato il più devoto, il più disinteressato, ed a cui mi sono confidato con più abbandono.
Ma la borghesia!
Ahimè!.....