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III V
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IV


     Era sopito l’Esule;
     Era la notte oscura.
     Il sogno erano agnelle
     Vaganti alla pastura;
     Campi che leni salgono
     Su per colline belle;
     Lontano a dritta ripidi
     Monti, e altri monti ancor;
     
     Dinanzi una cerùlea
     Laguna, un prorompente
     Fiume che da quell’onde
     Svolve la sua corrente.
     Sovra tant’acque, a specchio,
     Una città risponde;
     Guglie a cui grigio i secoli
     Composero il color;

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     Ed irte di pinacoli
     Case, che su lor grevi
     Denno sentir dei lenti
     Verni seder le nevi;
     E finestrette povere,
     A cui ne’ dì tepenti
     La casalinga vergine
     Infiora il davanzal.
     
     È il tempo in cui l’anemone
     Intisichisce e muore,
     Cedendo i Soli adulti
     A più robusto fiore.
     Purpureo ecco il garofano
     Sbiecar d’in su i virgulti
     Dell’odorato amaraco,
     Del dittamo vital.
     
     Per tutto è moltitudine;
     È un dì come di festa.
     Donne che su i veroni
     Sfoggiano in gaia vesta;
     Giù tra la folta, un séguito
     D’araldi e di baroni,
     Che una novella spandono
     Come gioconda a udir.
     
     Ma che parola parlino,
     Ma che novella sia,
     Ma che risposta renda
     Chi grida per la via,
     Nol può il sognante cogliere,
     Per quant’orecchio intenda:
     È gente che con l’Italo
     Non ha comune il dir.
     
     Que’ suoi baroni emergono
     Segnal d’un dì vetusto:
     È ferreo il lor cappello,
     È tutto maglia il busto:

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     Tal fra le vôlte gotiche
     Distesa in su l’avello
     Gli avi scolpian l’effigie
     Del morto cavalier. —
     
     Passan da trivio in trivio:
     Dar nelle trombe fanno:
     Cennan che il popol taccia;
     Parlano. — Intente stanno
     Le turbe. E plausi e battere
     Di palme a quei procaccia
     Sempre il bandito annunzio,
     Sovra qual trivio il diêr. —
     
     Ma di che fan tripudio?
     Ma che parola han detto?
     Ma sul cammin la calca
     Or di che sta in aspetto?
     La pompa ond’essi ammirano,
     Più e più lontan cavalca!
     E anco lontan non s’odono
     Trombe oramai squillar.
     
     Pur non v’è un uom che smovasi
     A ceder passo altrui.
     Chi d’usurparlo ardisce,
     Balza respinto; e lui
     Del suo manchevol impeto
     Chi’l vantaggiò, schernisce.
     Da ciascun gesto il tendere
     De’ curiosi appar.
     
     All’ondeggiante strepito
     Di sì condensa gente,
     Ecco, una muta sosta
     Or sottentrò repente.
     Pur nè le trombe suonano,
     Nè palafren s’accosta
     Che porti del silenzio
     L’araldo intimator.

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     È un quietar spontaneo,
     Un ripigliar decoro.
     Par anco peritosa
     Una sfidanza in loro,
     Come di chi con palpito
     S’appresta a veder cosa
     Che riverenza insolita
     Sa che dee porgli in cor.
     
     Ecco far ala, e un adito
     Schiuder. Chi è mai che vegna? —
     Non da milizie scorti,
     Non da fastosa insegna,
     Son pochi, — sol cospicui
     Per negri cigli accorti:
     In mezzo il biondo popolo,
     Muovono lento il piè.
     
     A coppia a coppia, in semplici
     Prolisse cappe avvolti.
     Che franchi atti discreti!
     Che dignità nei volti!
     Tra lor dan voce a un cantico;
     Tra lor l’alternan lieti.
     Oh, della cara Italia
     La cara lingua ell’è! —

Lo stesso evangelo toccato da’ suoi,
Toccammo a vicenda; giurammo anche noi
Quel ch’egli col labbro dei Conti giurò.
Su l’anime nostre, su quella di lui
Sta il patto: la perda, la danni colui
Del quale avran detto che primo il falsò.

In Curia solenne, fra un nugol di sguardi,
Qual pari con pari, coi Messi lombardi
Fu duopo al superbo legarsi di fè!
Il popol ch’ei volle punito, soggetto,
Gli sfugge dal piglio; gli siede a rimpetto,
Levata la fronte, sicuro di sè.

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La pace! la pace! Rechiamola ai figli,
Nunziamo alle spose finiti i perigli
Di ch’elle tant’anni pei cari tremâr.
L’immune abituro pregato ai mariti,
Or l’han; nè più mogli di servi scherniti,
Ma donne di franchi s’udranno chiamar.

Addio, belle rive del fiume straniero,
E tu, mitigato signor dell’impero,
E tu, pei Lombardi la fausta città.
Tornati a sedere su i fiumi nativi,
Compagno de’ nostri pensieri più giulivi,
Costanza, il tuo nome perpetuo verrà.

Ma quando da canto le nostre lettiere
Vedrem le sospese labarde guerriere,
E i grumi del sangue che un dì le bruttò;
Un altro bel nome ricorso alla mente
Diremo alle donne; ciascuna, ridente,
Poggiatasi al braccio che i fieri prostrò.

Direm lo sbaraglio del campo battuto,
E il sir di tant’oste tre giorni perduto,
Tre notti fra dumi tentando un sentier.
La regia consorte tre notti l’aspetta,
Tre giorni lo chiama dall’alta veletta:
Al quarto, — misviene fra i muti scudier.

L’han cerco nel greto, nell’ampia boscaglia;
Indarno! — Sergenti, valletti in gramaglia,
Preparan nell’aula l’esequie del re. —
No, povera afflitta, non metterlo il bruno.
Giù al ponte v’è gridi; — lo passa qualcuno:
È desso, — in castello; — domanda di te.

No, povera afflitta, tu colpa non hai;
E il ciel te lo rende; nè tu le saprai
Le angosce sofferte dall’uom del tuo cor.
Ma taci; e ti basti che vano è il corrotto.
Nessun di battaglia s’attenti far motto;
Nessun con inchieste gl’irriti il rossor.

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È altrove, è fra i balli del popol ritroso
Che fervon racconti del dì sanguinoso.
Là chiede ogni voce: Guerrieri, che fu? —
Oh, bello! sul campo venir di que’ prodi,
Tracciarne i vestigi, ridirne le lodi,
Membrarne per tutto l’audace virtù!

Nei dì del Signore, dinanzi gli altari,
Allor che l’uom, netto d’affanni volgari,
L’origin più intende da cui derivò;
Ignoti al rimorso d’averla smentita,
Oh bello! in sen piena sentirci la vita,
Volenti, possenti, quai Dio ne creò!

Nel coglier dell’uve, nel mieter del grano,
Dovunque è una gioia, fia sempre Legnano
L’altera parola che il canto dirà.
Ma, guai pe’ nipoti! se ad essi discesa,
Diventa parola che muor non compresa:
Quel giorno l’infame dei giorni sarà.

Snerbato, curante ciascun di sè solo;
Qual correr d’estranei! qual onta sul suolo
Che a noi tanto sangue, tant’ansie costò.
Allor, non distinti dai vili i gementi,
Guardando un tal volgo, diranno le genti:
I re che ha sul collo, son quei che mertò. —