Le fantasie/III
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III
Era sopito l’Esule;
Era la notte oscura;
Un altro il sogno. — Ei siede
Svagato a una pianura.
Stirpe di padri adulteri,
Quivi trescar non vede,
Ma catafratto un popolo
Dalla battaglia uscir.
Quel che giurâr, l’attennero;
Han combattuto, han vinto.
Sotto il tallon dei forti
Giace il Tedesco estinto.
Ecco i dispersi accorrere
Che scapigliati e smorti
Cercan ridursi all’aquile,
Chiaman sussidio al sir.
Egli? — è scampato. Il veggiono
Nel bosco i suoi donzelli
Le man recarsi al mento,
Stracciarne i rossi velli;
Mentre i lombardi cantici
Col trïonfal concento
A lui da tergo intimano
Che qui non dee regnar.
Preda dei primi a irrompere
Nel padiglion deserto,
Ecco ostentar pel campo
L’aurea collana e il serto;
E la superba clamide,
E delle borchie il lampo
Ecco, a ludibrio, l’omero
Di vil giumenta ornar.
Come tra i brandi, mistico
Auspicio d’Israele,
L’Arca del divin patto
Con lor venìa fedele;
Così la croce, indizio
Dell’immortal riscatto,
Cinta dal fior de’ militi,
Qui sul Carroccio sta.
Ecco, i lor giachi sciogliere,
Depor le cervelliere,
E tutte intorno al Cristo
Si riposâr le schiere.
Eccole a Dio, cui temono,
Prostrarsi, ed il conquisto
Gli riferir dell’ardua
Lombarda libertà.
Per la campagna, orribile
Di morti e di morenti,
Donne van mute in volta,
Cercando impazïenti
Quei che han mancato al novero
Quando squillò a raccolta,
Quando le madri accorsero
Festanti ai vincitor.
E anch’essi han le lor lagrime;
Figli dell’uomo anch’essi,
Che aspira ai gaudi, e interi
Non gli son mai concessi!
Curve là donne ingegnansi
D’intorno ad un che i fieri
Spasimi di morte occupano
Con l’ultimo pallor.
Sovra i nemici esanimi
Ei si languìa caduto.
L’hanno le pie sorretto:
L’hanno tra’ suoi renduto.
Per tre ferite sanguina
Rotto al guerriero il petto;
Nè tuttavolta il rigido
Pugno l’acciar lentò.
Ma non han detto al misero
Che più non v’è cui fera?
Che in tutto il campo sola
Sventa la sua bandiera?
Che, cui la fuga all’avide
Lance lombarde invola,
Perde il Ticino al valico,
Li dà sommersi al Po?
Il sa che spose ai liberi,
Madri d’angustia uscite
Son queste che devote
Bacian le sue ferite.
Oh, quanta gioia irradia
Le moribonde gote!
Di qual conforto provida
Rimerita il valor!
Presso a migrar, lo spirito
Si stringe al cor; l’aïta,
L’agita, il riconduce
Al batter della vita:
Gli occhi virtù ripigliano
A comportar la luce;
Odi, sul labbro valida
Ferve la voce ancor! —
Dove son le tre nunzie de’ santi,
Le colombe che uscir dall’altare?
Con che bello, che fausto aleggiare
Del Carroccio all’antenna salîr!
Fur le bande nimiche allor viste
Ceder campo, tremar del portento,
E percosso da miro spavento
Rovesciarsi il cavallo del sir.
Dio fu nosco. Al drappel de la Morte,
Alla foga de’ carri falcati
Ei fu guida, per chiane e fossati
Impigliando gli avversi guerrier.
Sì, Colui che par lento agli afflitti,
È il Dio vigil che pugna per essi;
Nel suo giorno ei solleva gli oppressi,
Fa su i prenci il disprezzo cader.
Or m’udite! Al giaciglio de’ servi
Questa rissa di sangue vi toglie:
Saldi, eretti, rïarsi di voglie,
Vi fa donni del vostro vigor.
Ma vi affida un destin che v’è nuovo,
Che vi sbalza su ignoti sentieri:
A percorrerli voi, v’è mestieri
Altro spirto comporvi, altro cor.
Oh! dannati que’ giorni quand’uomo
Da qual fosse città peregrino,
Per qual porta pigliasse il cammino,
Uscìa verso un’esosa città!
Non la siepe che l’orto v’impruna
È il confin dell’Italia, o ringhiosi;
Sono i monti il suo lembo: gli esosi
Son le torme che vengon di là.
Le fiumane dei vostri valloni
Si devian per correnti diverse;
Ma nel mar tutte quante riverse,
Perdon nome, e si abbraccian tra lor:
Così voi, come il mar le lor acque,
Tutti accolga un supremo pensiere,
Tutti mesca e confonda un volere,
L’odio al giogo d’estranio signor.
Le città, siccom’una con una,
Abbian pace anche dentro; e l’insegni,
Col deporre i profani disegni,
L’uom che stola e manipol vestì.
Capitan, valvassor, cittadino
Cessi ognun dei livori di parte.
Il Lombardo che è scritto ad un’Arte,
Non dispetti chi un’altra seguì.
Al fratel di più forte consiglio
Chi vergogni obbedir non vi sia;
Perchè nulla vergogna più ria
Che obbedire al soldato stranier.
Se un rettor, se un de’ consoli falla,
Tollerate anche i guai dell’errore,
Perchè nulla miseria maggiore
Che in dominio d’estranei cader.
E voi, madri, crescete una prole
Sobria, ingenua, pudica, operosa.
Libertà mal costume non sposa,
Per sozzure non mette mai piè. —
Addio tutti.... Appressate al morente....
Ch’io mi posi a una destra vittrice.
Cari miei, non mi dite infelice;
Non piangete, o fratelli, per me.
Era allor da compiangermi, quando
A scamparvi, per Dio! dal servaggio,
Vi richiesi un dì sol di coraggio,
E mi deste litigi e viltà!
Tutto in gioia or mi torna, fin anco
Se del tanto dolor mi ricordi.
È il dolor che n’ha fatto concordi:
La concordia vincenti ne fa.
Miser quei che in sua vita non colse
Un fior mai dalla speme promesso!
Quei che senza venirgli mai presso,
Corse anelo, insistente ad un fin!
Peggio ancor, se qui giunto com’io,
Qui sul passo che sganna ogni illuso,
Vôlto indietro, s’accorge confuso
Ch’era iniquo il fornito cammin!
Ma la via ch’io mi scelsi, fu santa.
Ma il dover ch’era il mio, l’ho compiuto.
Questo dì ch’io volea, l’ho veduto:
Or clemente m’accolga Chi ’l fe’!
Qualche volta, pensose la sera,
Mi rammentin le donne ai mariti:
Qualche volta ne’ vostri conviti
Sorga alcuno che dica di me.
— In parole fu acerbo con noi
Fin che Italia nell’ozio si tenne.
Quando il giorno dell’opre poi venne,
Uno sguardo egli intorno girò;
Pose in lance il servaggio e la morte;
Eran pari; — e a Dio l’alma commise:
In Pontida il suo sangue promise;
Il suo sangue a Legnano versò.—