Le fantasie/V
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V
Era sopito l’Esule;
Era la notte oscura;
E nulla più del lago
E delle grigie mura.
Ecco ne’ sogni mobili
Una diversa immago;
Ecco un diverso palpito
Del dormiente al cor.
Pargli aver penne agli omeri,
E un ciel che l’innamora
Battere, ai rai vermigli
D’italïana aurora.
Fiuta dall’alto i balsami
De’ suoi materni tigli:
Gode in veder la turgida
Foglia de’ gelsi ancor.
Come la vispa rondine,
Tornata ov’ella nacque,
Spazia sul pian, sul fiume,
Scorre a lambir fin l’acque,
Sale, riscende, librasi
Su l’indefesse piume,
Viene a garrir nei portici,
Svola e garrisce in ciel;
Così fidato all’aere
Ei genïal lo spira,
E cala ognor più il volo,
Più lo raccorcia, e gira
Lento, più lento, a radere
Il vagheggiato suolo;
Com’ape fa indugevole
Circa un fiorito stel.
L’aia, il pratel, la pergola
Dove gioìa fanciullo;
L’erte indicate ai bracchi
Nel giovenil trastullo;
Le fratte d’onde al vespero,
Chino a palpar gli stracchi,
Reddìa, colmo sul femore
Pendendogli il carnier;
Tutti con l’occhio memore
I siti, egli rifruga,
I cari siti, ahi lasso!
Che nell’amara fuga
Larve mandar parevano
A circuïrgli il passo,
A collocargli un tribolo
Sovra ciascun sentier.
Rinato ai dì che furono,
Il mattin farsi ammira
Più rancio; e la salita
Del Sol piena sospira,
Tanto che intorno ei veggasi
Ribrulicar la vita,
Oda il venir degli uomini,
Voli dinanzi a lor.
Tutta un sorriso è l’anima
Di riversarsi ardente.
Presago ei si consola
Nelle accoglienze; e sente
Che incontreria benevolo
Fin anco lei che sola
Sa pur di quale assenzio
Deggia grondargli il cor.
Eccolo, il sol! Frettevoli
Pestan la guazza, e fuori
A seminati, a vigne
Traversano i coltori.
Recan le facce stupide
Che il gramo viver tigne;
Scalzi, cenciosi muovono
Sul suol dell’ubertà.
Dai fumaiuoli annunziansi
Ridesti a mille a mille
I fochi dei castelli,
Dei borghi e delle ville.
Dove più folto è d’uomini,
A due, a tre, a drappelli
Escono agli ozi, all’opere,
Sparsi per la città.
Son questi? È questo il popolo
Per cui con affannosa
Veglia ei cercò il periglio,
Perse ogni amata cosa?
È questo il desiderio
Dell’inquïeto esiglio?
Questo il narrato agli ospiti
Nobil nel suo patir?
Ecco, infra loro il teutono
Dominator passeggia;
Li assal con mano avara;
Li insidia; li dileggia:
Ed ei tacenti prostransi,
Fidi all’infame gara
Di chi più alacre a opprimere,
O chi ’l sia più a servir.
In tante fronti vacue
D’ogni viril concetto,
Chi un pensier può ancor vivo
Sperar d’antico affetto?
Chi vorria farvel nascere?
Chi non averlo a schivo
Come il blandir di femmina
Sul trivio al passeggier?
Lesto da crocchio a crocchio
Il volator trapassa;
E gl’indaganti sguardi
Su quel, su questo abbassa.
I bei presagi tornangli
Ad uno ad un bugiardi;
Pur vola e vola, e indocile
Discrede il suo veder.
Colà una donna? Ahi, misera!
Qual caro suo l’è tolto?
Non è dolor che agguagli
Quel che l’è impresso in volto.
Par che da forze perfide
Messa quaggiù in travagli,
Sporga ver Dio la lagrima
Cui gli uomini insultâr.
Patria!.. Spilberga!... vittime!...
Suona il suo gemer tristo. —
Quel che dir voglia, il sanno;
Com’ella pianga, han visto;
E niun con lei partecipa
Tanto solenne affanno;
Niun gl’infelici e il carcere
Osa con lei nomar.
Chi dietro un flauto gongola,
Che di cadenze il pasca,
E chi allibbisce ombroso
D’ogni stormir di frasca;
Come nel buio il pargolo
Sotto la coltre ascoso,
Se il dì la madre, improvida,
Di spettri a lui parlò.
Altri il pusillo spirito
Onesta d’un vel pio;
Piaggia i tiranni umìle.
E sen fa bello a Dio.
Come se Dio compiacciasi
Quant’è più l’uom servile,
L’uom sovra cui la nobile
Immagin sua stampò!
E quei che fean dell’itale
Trombe sentir lo squillo
Là sulla Raab, soldati
Del tricolor vessillo,
Che a tener fronte, a vincere
Correan, — per tutto usati
L’Austro, il Boemo, l’Unghero
Cacciar dinanzi a sè,
Dove son ei? — Già l’inclita
Destra omicida è polve?
Tutte virtù l’argilla
Del cimiterio involve?
O de’ conigli l’indole
Anco il leon sorbilla,
E dei ruggiti immemore
Lambe a chi ’l calca i piè? —
Al dubbio amaro, l’Esule,
Come una man gli fosse
Posta a oppressar sul core,
Si risentì; si scosse
A distrigar l’anelito,
A benedir l’albòre
Che dalle vane immagini
Al ver lo ravviò.
Desto; — ammutito, immobile
Il suol com’uomo affisse
Che del suo angor vergogni:
Poi quel che vide ei scrisse.
Ma quel che ancor l’ingenuo
Soffre pensando ai sogni,
Sol cui la patria è un idolo
Indovinar lo può.