Le donne di casa Savoia/XXXIX. Maria Clotilde di Borbone
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Maria Clotilde di Borbone
(la beata)
moglie di Carlo Emanuele IV
1759-1802.
XXIX.
MARIA CLOTILDE DI BORBONE
(la beata)
Regina di Sardegna
n. 1759 — m. 1802
.....col pianto Aleardi |
che alla Corte corrotta di Luigi XV riuscì a darle un’educazione accuratissima, indirizzandola con cura speciale alle virtù religiose. Del resto anche le sue quattro zie, educate tutte in un convento a ottanta leghe da Parigi, per economia, erano modelli di virtù, perchè Luigi XV, come padre, era affettuosissimo. Le premure di quell’ottima signora, la quale, forse temendo che in quella farraggine di principesse della Casa di Francia difficilmente Clotilde avrebbe potuto maritarsi, la preparava a incontrare così, senza fatica, altro destino, furono coronate da un successo che superò le sue speranze; tanto che, appena giovinetta, voleva seguire l’esempio della minore delle sue zie, la principessa Luisa, e farsi monaca nelle Carmelitane a S. Dionigi. E certo il suo voto sarebbe stato esaudito, se la morte di Luigi XV non avesse cambiato molte cose, e altrettante l’ascensione al trono di suo fratello Luigi XVI, che le proibì la monacazione.
Clotilde restò dunque nel mondo, e il suo più vivo pensiero fu di curare attentamente l’educazione della sorellina Elisabetta, alla quale era riserbata sì triste sorte, e ad ispirarle in cuore sensi di religione e di pietà, che dovevano essere poi di sì valido sostegno alla infelice prigioniera del Tempio, alla compagna di Maria Antonietta sul palco fatale.
Ma allora sì tristi giorni erano ben lontani, e le due principessine, a cui sembrava che tutto sorridesse nel mondo, provavano dolci soddisfazioni a portare almeno un raggio di felicità nei tuguri e negli ospedali, soccorrendo i poverelli e gli infermi, imitando così la bontà della madre e dell’ava, la cui virtuosa fama risuonava ancora intorno ad esse. Clotilde poi, appena uno dei suoi di famiglia, o anche qualche famigliare cadeva ammalato, non cedeva a nessuno il diritto di fargli da infermiera. Ad onta di sì pietose inclinazioni, il carattere di Clotilde era lieto e tranquillo, e già da quell’età giovanile dimostrava una fermezza, una nobiltà d’animo ed una energia, che mal si sarebbero indovinate giudicandola superficialmente.
Due figlie di Vittorio Amedeo III erano andate, come ho già detto, spose a Parigi; l’una, Maria Giuseppina, unita al conte di Provenza, poi Luigi XVIII: l’altra, Maria Teresa, al conte d’Artois, poi Carlo X; e specialmente dalla Corte di Francia si desiderava che una principessa di Borbone si maritasse in Piemonte, e si trattò così il matrimonio di Clotilde. Vittorio Amedeo non era in principio molto proclive a questa alleanza, specialmente perchè temeva che tanti matrimoni francesi nella sua famiglia spiacessero all’Austria, poi, sapendo che la giovinetta inclinava alla pinguedine, e che suo figlio detestava le donne grasse, e anche temendo che quel difetto portasse delle conseguenze; ma le due principesse sue figlie tanto dissero e fecero, innamorate come erano della cognatina, e tanto la magnificarono al padre, che il Re finalmente cede. E siccome Carlo Emanuele, Principe di Piemonte, non aveva nessuna preferenza per alcuna delle tre principesse propostegli a spose, si lascio facilmente persuadere a sceglierla; e Giuseppina Teresa, Principessa vedova di Carignano, che allora si trovava a Parigi, fu dal Re, come ho scritto altrove, incaricata della domanda ufficiale, di cui pure sappiamo già le vicende. Appena il matrimonio fu annunziato e stabilito (1775), Maria Clotilde si diè con ardore allo studio della lingua italiana, avendo a maestro Carlo Goldoni, a quell’epoca già stabilito in Francia, a prepararsi e disporsi pel nuovo stato, e a rendersi gradita nella nuova patria.
Però quando partì per l’Italia appena trilustre, come sua madre quando era andata in Francia, fu col timore nel cuore di riuscire spiacente al principe cui l’avevano assegnata, e glielo disse, appena lo incontrò al Ponte Belvicino, portando già il suo nome.
— Mi troverete molto grassa — susurrò mortificata, accettando la mano che egli le stendeva — e proprio temo di non piacervi.
Carlo Emanuele le rispose galantemente, ma nessuno può dire se nel suo cuore rimanesse pel momento soddisfatto, e Clotilde più di ogni altro lo temè.
I due sposi ricevettero uniti la benedizione nuziale a Chambery, il 5 settembre, e quindi s’indirizzarono a Torino, ove furono accolti con feste anche più splendide di quelle celebrate colà.
Alla Corte di Torino, che subiva la pesante rigidezza della Regina Antonietta Ferdinanda, la quale vi aveva importata buona parte dell’etichetta e del bigottismo spagnuolo, si pensò di preparare alla giovine sposa una grata sorpresa, esponendo, in grazia della di lei divozione, la reliquia del Santo Sudario al pubblico. Ed invero al cuore di Clotilde quella fu la festa più accetta, e lo disse e lo ripetè alla suocera ed allo sposo. Però, sul principio della sua venuta in Italia, Maria Clotilde non piacevasi soltanto di cose religiose. Si dilettava di mode, di vesti, di divertimenti, e stava molto pili volontieri a Moncalieri, un poco solitaria, ove, diceva, non la opprimevano la tristezza e la solitudine delle serate di Torino. Ma i tempi e l’ambiente non erano favorevoli a svolgerla verso la mondanità; e all’austerità spagnuola della Regina, si aggiunse presto la scrupolosa riservatezza e le pratiche religiose della sposa, per rendere la Corte pesantissima a chi doveva frequentarla. La Regina Ferdinanda aveva assoggettato tutti, compresi i figli, ad un severissimo cerimoniale, che doveva gravare ancora per lunghi anni sulla Reggia; ma la pudicizia di Clotilde che voleva nelle dame una eccessiva correttezza nel vestire, e che aveva giurato guerra agli scolli, di qualunque misura, la riduceva un convento. Banditi i balli e i concerti, messe all’indice le conversazioni briose, nel palazzo reale si parlava e si operava come se si attendesse di ora in ora (dice Nicomede Bianchi) il giudizio finale.
La Principessa di Piemonte però, anche nella sua eccessiva divozione, era francese, perciò più spigliata assai della suocera, e introdusse l’uso di andare tutto l’anno alle prediche nelle chiese, alle novene, alle processioni, ecc. Di più pregava tutto il giorno, e sovente il marito la trovava inginocchiata a braccia aperte, o prostesa colla fronte al suolo. Siccome nella devozione le forme esterne riescono sempre antipatiche, non si capisce se non spiegandolo con la grettezza di vedute dei tempi, come la giovane sposa, che era ornata di tante e forti virtù, e che sentiva la religione nell’anima, in tutta la sua purezza e la sua santità, vi si abbandonasse.
E pur troppo, per le cose terrene, quell’eccessiva pietà, che riempiva tutto, senza quasi dare adito ad altri sentimenti, doveva riuscir fatale, come infatti fu, quando ai giorni della prova, non si riscontrarono nella reggia che virtù inutili, o non applicabili.
Nondimeno, finché Clotilde fu Principessa ereditaria, la regolarità tutta monastica di condotta che ella si prescriveva, non le tolse niente della sua amenità. Si prestò di buon animo a tutti gli esperimenti farmaceutici a cui si volle sottoporla per dimagrare, vi scherzava anche sopra ingoiando pillole e polveri, tanto che finalmente dimagrò, ma.... figli non ne vennero. Clotilde si prendeva poi molto a cuore anche le cose di famiglia, e la morte di una sorella del marito, dopo appena un anno di matrimonio, e in età giovanissima, fu, ella disse, il primo passo per lei sulla via del dolore1. Dopo alcuni anni, l’amore degli sposi fu puramente spirituale, ma per la dolcezza dei modi, i generosi sentimenti, la solidità della conversazione, oltre la tenerezza del marito, che la chiamava sua consigliera, Clotilde si era guadagnata la stima e l’affetto di tutti quelli che la circondavano, e il popolo la diceva l’angiolo tutelare del Piemonte, perchè fu detto doversi alle sue preghiere la scoperta di una trama contro la famiglia reale.
Quando poi, non essendovi discendenza dai Principi di Piemonte, Vittorio Amedeo pensò ad ammogliare il suo secondogenito, Clotilde limito d’allora la sua missione alla pietà e alla religione, ed a mantenere la pace nella famiglia, ove il malumore era sempre all’ordine del giorno, a causa della differenza di educazione, di stato e di opinioni, che regnava tra suo marito ed i fratelli.
Coi rivolgimenti politici si accentuò la discordia. Non è però mio compito, né mio intendimento ripetere qui le cause che spingevano i popoli all’irrequietezza e al malcontento, né vedere e discutere da qual parte stesse la ragione, e da quale il torto. Io narro semplicemente. La rivoluzione prendeva ogni giorno più piede in Francia, e minacciava dilagare dalle Alpi in Italia.
Vittorio Amedeo, per la posizione del suo regno, si trovava il primo esposto al pericolo, e sapeva quanto gli sarebbe stato difficile difendersi dagli assalti francesi venendo ad una rottura con la Francia. Perciò propose, e strinse al più presto, una lega con tutti i potentati italiani. Clotilde pavida riguardava alla patria e alla famiglia sua; e quando il sanguinoso dramma fu compiuto, quando ebbe notizia della fine terribile a cui era soggiaciuto il suo infelice fratello Luigi XVI, quando nessun dubbio le rimase circa la sorte della sua diletta sorella, caduta anch’essa sul patibolo, per un momento parve soggiacere a tanto strazio! Ma in breve la forza d’animo e la rassegnazione trionfarono su di lei, che pose ogni sua cura ad alleviare il dolore dei superstiti, a soccorrere gli esuli, ed a preparare asilo ed aiuti pei fuorusciti, che dalla Francia in preda allo sfacelo si riversavano in Savoia.
Le grandi potenze, spaventate dagli avvenimenti, si unirono alla Lega italiana, con l’Austria alla testa, e la guerra alla Francia si fece generale. Ma chi può ridire i danni e i guai che da ciò ebbe il Piemonte? Il duca d’Aosta prese parte alla guerra, le principesse diedero i loro monili per sopperire alle immense spese, fecero voto di vestire umilmente, e raddoppiarono le pratiche religiose e le pubbliche preghiere. Maria Clotilde andava più che mai per le chiese, in compagnia di una sola dama, e nella reggia vestiva costantemente l’abito votivo da lei preso il giorno in cui la ghigliottina aveva sperperata la sua famiglia. E quando tornava dalla chiesa era sempre seguita da un lungo codazzo di popolo rispettoso.
La guerra divampava oramai in tutta Europa, e Vittorio Amedeo si trovava ad aver la peggio di fronte alla Francia, ove incominciava ad emergere il Bonaparte. Il Piemonte invaso, mezzo lo Stato perduto, la pace urgente, essendo esausto di forze e di danaro, ecco la sua situazione. E prima la tregua, poi la pace vennero, ma a ben tristi e dure condizioni!
Bonaparte, capitano generale, e primo Console del Direttorio, era riuscito a cambiare le sorti di Francia, che oramai faceva tremare l’Europa, e mirava ad insignorirsi di tutta Italia. A questo punto la morte di Vittorio Amedeo portò sul trono Sabaudo la nostra Maria Clotilde, al fianco di quel buono, ma troppo buono, Re Carlo Emanuele IV. Egli, con l’animo ottimo aveva il corpo infermo, perchè pativa straordinariamente di nervi, e sdegnava di avere consiglieri i fratelli nel governo. Sicché si lasciò rigirare a loro piacere da Bonaparte e dal Direttorio, e venne fatta tra essi una promessa di amicizia, che dalla parte della Francia non si aveva nessuna idea di mantenere. La fortuna del generale francese era addirittura insolente; oramai gli bastava presentarsi per vincere, e ideando creare una Repubblica d’Italia, gettata la maschera, imponeva agli amici di poco fa o la cessione o la guerra. Milano, Venezia, Genova, erano già cadute, e la Francia repubblicana studiava il modo di usare le forze del Re di Sardegna in tempo di guerra, e di distruggerlo poi durante la pace, quando il mal seme delle congiure e delle sollevazioni, venuto di Francia, fece scoppiare in Piemonte la guerra civile, e altre pagine sanguinose dovè a questo punto registrare la Storia, giacché quella guerra non fu domata senza lotte. Intanto anche a Roma era sorta la repubblica, e Pio VI costretto ad andare in esilio. Carlo Emanuele, prostrato d’animo e di corpo, tormentato dalla malattia nervosa che lo affliggeva, sentendosi troppo inferiore alle difficoltà che lo circondavano, voleva abdicare, ma la Regina lo esortò a non deporre il peso della corona, appunto perchè era grave, e di compiere sino alla fine il suo dovere di Principe. La Francia intanto continuava a simulare amicizia pel Piemonte, spodestandolo via via, senza che il Re lo comprendesse, tanto da giungere fino ad impadronirsi di alcune città e della cittadella di Torino; e, colla scusa di frenare gli insorti, avocando a sé ogni autorità. Arrivato a questo punto, il triumvirato non indietreggiò dinanzi all’idea di chiedere al Re una rinunzia, accusandolo di tradimento perchè alla sua Corte accoglieva i ministri plenipotenziari di Russia e d’Inghilterra.
Fu qui che la virtù e la rassegnazione di Maria Clotilde rifulsero in tutto il loro splendore; e in tutte le disgrazie che afflissero poi la famiglia Sabauda, ella mostrò la forza d’animo che l’aveva sorretta nella catastrofe della sua propria famiglia. Riportandosi tutta ai decreti di Dio, che, ella diceva, vuole formati i Re e i popoli alla scuola dell’avversità, ispirava e sosteneva, colle parole e coll’esempio, il marito.
Carlo Emanuele aveva oramai compreso che lo scettro sostenuto per mille anni dalla sua famiglia si frangeva nelle sue mani, e non gli rimaneva più che da salvare l’onore. Pure, alla richiesta di abdicazione, egli fu colpito da un attacco del suo solito male, e stette fuori di se alcune ore. La Regina invece, che durante l’assedio aveva udito rimbombare dalla cittadella le cannonate che festeggiavano l’anniversario della morte di suo fratello, non perde mai la sua angelica serenità d’animo. Vittorio Emanuele duca d’Aosta, invece, voleva resistere, ma il Re gliene dimostrò l’inutilità; e dopo aver pubblicate in una dichiarazione le prove della sua innocenza, che dovevano accompagnare, per i posteri, la memoria della sua caduta, firmò, astrettovi dalle minacce dell’inviato francese, un atto di rinuncia per se e per i suoi, i cui articoli furono dibattuti per nove ore. Finalmente alle due dopo la mezzanotte del dì 8 settembre 1798, piegandosi Clausel alle istanze del Re e della Regina, che rifiutavansi di consegnare il duca d’Aosta alla repubblica, contentandosi che esso, come erede della corona, confermasse le stipulazioni accordate, si venne alla conclusione. Subito dopo il Re si dispose ad uscire dal palazzo dei suoi avi, per ritirarsi colla famiglia nell’isola di Sardegna, che sola gli rimaneva.
Ma la di lui salute, naturalmente delicata, era tanto scossa in quei momenti supremi, che tutto il da farsi rimetteva alla moglie, la quale, anche in questa circostanza, lo sostenne con la sua fede.
— Rivolgetevi alla Regina — diceva ad ogni richiesta — io non posso far di meglio che di rimettermi a lei, che è illuminata e sostenuta dal cielo.
Così ella dovè sostenere anche tutte le fatiche della sùbita partenza. Toccò a lei a rialzare gli spiriti abbattuti, asciugare le lacrime che la disperazione strappava, dare le più savie disposizioni perchè la bisogna si compiesse nel più breve tempo possibile, dirigerla con prudenza e giustizia, ristringere il personale di servizio, far gradire le scuse a chi non portava seco, esprimere la gratitudine a chi, per non separarsi, aveva detto di seguirli senza interesse alcuno, venire ad umili richieste coi capi francesi per la revoca di qualche ordine desolante, occuparsi amorevolmente del Re, che in quell’ore terribili era soggiaciuto ad un nuovo attacco, e tutto ciò compiè in brevi ore questa principessa, il cui rimpianto più piccolo fu quello di lasciare il trono.
Alle dieci di sera del 9 dicembre 1798, la famiglia Sabauda lasciò l’antico palazzo degli avi. Tutti erano accasciati, e solo rifulgeva la serenità d’animo della Regina. Gli esuli illustri discesero le scale al lume delle torcie, e traversarono il giardino scortati da trenta cavalieri piemontesi e da trenta dragoni francesi. La commozione e il dolore erano dipinti su tutti i volti. Il Re salì silenzioso colla Regina nella prima carrozza: la neve cadeva a grossi fiocchi, ed il cielo era oscurissimo. Il corteggio si componeva di trenta carrozze, che, illuminate sinistramente dalla luce rossastra delle torcie a vento, si avviavan silenziose per la via maestra che scende pel centro d’Italia.
Per la via, trovarono nelle osterie alloggi impossibili, curiosità che stancavano, baccano da’ stordire. A Voghera la tempra di Maria Clotilde cede alla febbre, che l’assalì fortissima, seguita da un’eruzione che le coprì tutta la persona, e che, costretta a trascurarla, e a proseguire nella via dell’esilio in quella rigidissima stagione, doveva riuscirle fatale. A Stradella l’eruzione, presentatasi dapprima benigna, rientrò, e da quell’istante la Regina fu colpita da una tosse che contribuì più di qualunque altra cosa a precipitare la sua salute, senza che dalla sua bocca uscisse mai un lamento o una mormorazione.
La malattia di Maria Clotilde, e il rigor dell’inverno, costrinsero il reale corteggio a fermarsi per qualche giorno al Colorno, villeggiatura della Corte parmense. Di qui il re inviò al governatore di Sardegna l’ordine di colà annunziare il suo arrivo; e separatisi quindi da una parte del seguito, in forza della legge che colpiva gli emigrati, gli esuli regali proseguivano per Toscana, e furono ricevuti a Firenze da Ferdinando III di Lorena con segni di amicizia ed interessamento, ed alloggiati principescamente nella villa del Poggio Imperiale.
Ivi Carlo Emanuele si prefiggeva soggiornare a lungo per ristabilire la sua salute e quella della Regina, ma l’orizzonte politico annuvolandosi sempre più, lo costrinse a desistere dal suo progetto. Sicché, appena appagato l’ardente desiderio suo e della moglie, di ossequiare nella vicina Certosa Pio VI, esule come essi, nella tarda età di ottantadue anni, e ricevutine conforti di parole e benedizioni, seguì il consiglio di Clotilde, che aveva premura di partir presto per la Sardegna, onde non ricevere dal Direttorio nuove soperchierie, e si diresse a Livorno.
Di qui il 24 febbraio 1799 fecero vela per l’isola, sulla fregata toscana Rondinella (nome di buon augurio), con un seguito di sei navi ed una inglese di scorta. Ma il seguito di persone era allora ancor più assottigliato, e alla Regina non era rimasta che una sola cameriera, la signora Stuper.
— Non bisogna lasciarsi abbattere — ella nondimeno diceva al Re — non ci manca nulla quando Iddio è con noi.
Ma, come se tutti potessero insultare impunemente il sovrano decaduto, un corsaro osò approfittare della notte oscura, per assalire a colpi di cannone il bastimento reale, immergendo tutti i passeggieri nello spavento, però senza nessun risultato, perchè fu respinto vigorosamente e con pochi colpi. Del resto anche se fosse riuscito nell’intento, non avrebbe davvero trovato il bottino che egli sperava, perchè Carlo Emanuele, con una continenza che non si potrà mai abbastanza lodare — come è scritto negli Annali del Muratori — lasciava nelle abbandonate stanze del patrio palazzo, le gioie preziose della corona, tutte le argenterie, e settecentomila lire in doppie d’oro.
Dopo sette giorni di viaggio la famiglia reale giunse a Cagliari la domenica 3 marzo. Quivi prima di sbarcare, il Re, seguendo il consiglio dei suoi fedeli, proclamò la nullità degli atti, ai quali a Torino lo avevano costretto di apporre la firma; e ciò in omaggio al proprio onore, agli interessi di famiglia e ai rapporti politici con le altre potenze.
Adempiuto a questo dovere, Clotilde disse al marito che ve ne era da compiere un altro altrettanto imprescindibile, e scesi a terra, prima di ogni altra cosa si recarono alla Cattedrale, ove si cantò un Te Deum in ringraziamento a Dio, che li aveva fatti giungere a salvamento.
Indirizzatisi quindi al palazzo reale, fu tra una folla immensa e plaudente che percorsero la via.
Qui, nella quiete dell’isola, il Re proponevasi di fare tante belle e buone cose per la terra che gli era stata sì generosa di asilo. La Regina, attiva, energica, lo incoraggiava e sosteneva nei savi divisamenti, e la calma ritornava a poco a poco negli animi confortati dalla speranza che una lettera dell’ammiraglio Nelson, giunta il 28 aprile, aveva suscitato, avvisando il Re che le armi russe ed austriache progredivano nella conquista dell’alta Italia.
Qualche tempo dopo gli austro-russi fecero a Carlo Emanuele l’invito di ritornare in terra ferma e rioccuparvi i suoi Stati. Ed egli, lasciando la Reggenza all’ultimo dei fratelli, Carlo Felice, l’unico che allora si trovasse in Sardegna, partì sollecito con la Regina per Livorno. Le sue sventure però non erano terminate, e appena giunto a Firenze dovè fare sosta, colpito dalle notizie della crisi di Parigi, operata da Bonaparte, che ne raccoglieva tutto il frutto. Quivi, ancora nella villa del Poggio Imperiale, trascorse bene otto mesi in negoziati con Napoleone, che non conducevano a nulla. Poi dalla Toscana, ove stava assai bene, volle andare ad ossequiare il nuovo Papa, allora creato a Venezia. E la Regina, che pure aveva per Firenze una decisa simpatia, ed era innamorata dei grandiosi suoi monasteri, i quali le promettevano tanta serena pace, lo seguì con entusiasmo. Incontrarono il Pontefice a Foligno, e Pio VII li accolse con premurosa tenerezza ed offerse loro sicuro asilo a Roma. Per la devota Clotilde il soggiorno di Roma significava la felicità maggiore a cui potesse agognare, sicché subito vi si trasferirono.
Ben presto però Macdonald e Brune ripresero le ostilità, ed essi doverono rifugiarsi a Napoli, fissando il loro domicilio nella reggia di Caserta, allora non peranche terminata. Questo trasloco procurò un profondo dolore alla Regina, che nondimeno vi si sottopose con la consueta serenità.
Durante il soggiorno di Caserta, Carlo Emanuele dovè accorgersi che Napoleone, primo Console, eludeva audacemente le proposte dei gabinetti inglese e russo in di lui favore, e che quell’insaziabile conquistatore non avrebbe mai restituito il Piemonte.
Infatti si seppe in breve ch’ei l’aveva diviso in sei dipartimenti, dichiarato settima Divisione militare, e che non vi era molto da almanaccare per capire a qual sorte lo si riserbava. Ciò abbattè più che mai quel carattere debole, quel fisico sconquassato, cui bastava una cattiva notizia, una contrarietà qualunque, per ridurlo in convulsioni. E anche in questo caso toccò alla Regina ad aver coraggio per due, ad esortarlo alla rassegnazione, a rianimarlo con l’esempio.
Nella vita, dice Nicomede Bianchi nella sua storia della Monarchia Piemontese, vi sono battaglie, per sostener le quali fanno d’uopo virtù gagliarde, maggiori di quelle richieste in terra. Maria Clotilde le possedeva, e le usava con costanza, prudenza e coraggio, verso il marito. Eppure essa era ammalata ed afflittissima, e costretta come era la famiglia a fare ancora nuove economie, sottoposta ad un’altra riduzione di servitù. Ma l’angelica creatura non si doleva di dover bastare da se a tutti i suoi bisogni, bensì provava amaro cruccio di non potere aver che il congedo da offrire in ricambio della fedeltà ai suoi affezionati.
Correvano gli ultimi giorni del carnevale 1802, e in quell’epoca di esultanze e di piaceri. Maria Clotilde ritirata nell’immenso palazzo di Caserta, scorreva il suo tempo in preghiere e in riflessioni. Un dopo pranzo, recatasi a pregare nella chiesa della Trinità, sentì a poco a poco mancarsi le forze, e sarebbe malamente caduta, se la signora che l’accompagnava e alcune devote che la conoscevano e l’amavano non l’avessero sostenuta.
Riportata alla reggia e posta a letto, le si manifestò una febbre maligna che pose subito la sua vita in pericolo, e in breve, in mezzo ad atroci spasimi che essa sopportava senza mandare un lamento, rimpiangendo solo di cagionare disturbo a chi l’assisteva, fu agli estremi.
La prima domenica di quaresima, sul tramonto, il Re, desolato e lacrimoso era lì presso il suo letto e la vide socchiudere gli occhi come assopendosi: in un singhiozzo esclamò: — Clotilde, Clotilde! ricordati di me!
Essa riaperse un istante gli occhi, li abbassò per esprimere un sì, e sorridendo spirò.
Descrivere la desolazione di Carlo Emanuele, sarebbe impossibile! Da ventisei anni essa era tutto per lui, ed ora rimaneva morto lui pure per metà.
Maria Clotilde aveva allora quarantadue anni, cinque mesi e dieci giorni. — Dal suo testamento fu rilevato che se avesse sopravvissuto al marito, si sarebbe fatta monaca nel convento di S. Maria Maddalena dei Pazzi a Firenze; che non voleva onori di funerali, e che non voleva essere imbalsamata. Di più lasciò scritto che la si sotterrasse col suo abito votivo di religiosa, da lei comunemente portato in vita.
Una folla enorme seguì la sua bara dal palazzo reale di Caserta a S. Caterina a Chiaia in Napoli, dove aveva scelto di essere sepolta. Non era il codazzo di una Regina, ma la schiera dei beneficati e degli ammiratori della benefattrice, della santa. Per via non si facevano che le sue lodi, non si ripetevano che le sue ultime parole, e si raccontavano i suoi ultimi istanti con quell’esaltazione, quella commozione tutta propria del popolo napoletano. La spoglia di Maria Clotilde, chiusa in duplice cassa, fu poi murata nella parete della cappella della Divina Pastora, dove un semplice epitaffio sopra una lastra di marmo ne ricorda senza enfasi, dice il Frézet, la nascita, le sventure e la virtù.
In breve, a richiesta del Re e per la testimonianza dei popoli, il Pontefice Pio VII die corso alle pratiche per la di lei beatificazione e canonizzazione; ed oggi se Maria Clotilde come Regina è dimenticata o criticata, come creatura superiore, come spirito eletto, è sempre più onorata e invocata, ed è posta fra i santi protettori di Casa Savoia.
- ↑ Maria Carolina, ultima delle figlie di Vittorio Amedeo III, sposata a diciasette anni, nel 1781, al principe Antonio Clemente di Sassonia. Nell’abbandonare il suo paese, che tanto amava, parve mesta; ed essendo morta l’anno appresso a Dresda, il popolo piemontese pensò che fosse mancata per nostalgia. Nel contado di quella nostra provincia cantano ancora una canzone, la quale ci dice, fra le altre cose, che sul ponte oltre Vercelli, nel congedarsi dalla famiglia, cosi parlasse:
(Traduco dal dialetto)
Fratelli, miei fratelli, stringetemi la mano
Che men vado in Sassonia, da noi tanto lontano;
Stringetemi la mano, cari, col fiordaliso,
Amici, cari amici, arrivederci in Paradiso.