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Appena il matrimonio fu annunziato e stabilito (1775), Maria Clotilde si diè con ardore allo studio della lingua italiana, avendo a maestro Carlo Goldoni, a quell’epoca già stabilito in Francia, a prepararsi e disporsi pel nuovo stato, e a rendersi gradita nella nuova patria.

Però quando partì per l’Italia appena trilustre, come sua madre quando era andata in Francia, fu col timore nel cuore di riuscire spiacente al principe cui l’avevano assegnata, e glielo disse, appena lo incontrò al Ponte Belvicino, portando già il suo nome.

— Mi troverete molto grassa — susurrò mortificata, accettando la mano che egli le stendeva — e proprio temo di non piacervi.

Carlo Emanuele le rispose galantemente, ma nessuno può dire se nel suo cuore rimanesse pel momento soddisfatto, e Clotilde più di ogni altro lo temè.

I due sposi ricevettero uniti la benedizione nuziale a Chambery, il 5 settembre, e quindi s’indirizzarono a Torino, ove furono accolti con feste anche più splendide di quelle celebrate colà.

Alla Corte di Torino, che subiva la pesante rigidezza della Regina Antonietta Ferdinanda, la quale vi aveva importata buona parte dell’etichetta e del bigottismo spagnuolo, si pensò di preparare alla giovine sposa una grata sorpresa, esponendo, in grazia della di lei divozione, la reliquia del Santo Sudario al pubblico. Ed invero al cuore di Clotilde quella fu la festa più accetta, e lo disse e lo ripetè alla suocera ed allo sposo.