Le avventure di Saffo/Libro I/Capitolo X
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CAPITOLO X.
La preghiera del tempio.
Andavano così al crescente raggio dell’alba Saffo e l’ancella, alle quali il vento mattutino scuoteva i veli, mentre che agitava le frondi degli alberi, sulla cima de’ quali gorgogliavano gli augelli aspettando lieti la già vicina luce del sole, i di cui primi raggi indoravano il lembo delle nubi. Spettacolo in vero gratissimo per chi sorgendo dal soave sonno dia principio a’ tranquilli ufficj diurni; ma insipidi oggetti per un cuore trafitto da stimolo così pungente, quant’era quello dell’infelice donzella, che mesta fra la gioja del rinascente giorno, premea con passo languido le rugiadose erbe sul fiorito sentiero. Giunsero in breve al tempio, siccome non lungi due tratti di dardo fuori della città. Era cinto da querce antiche, le quali i più provetti cittadini avevano sempre vedute così alte e frondose; ma pure non eccedevano la sommità del maestoso edifizio, che da lungi appariva, superando le verdi cime mosse dal vento. Già era aperto il tempio circondato in ogni parte da uno spazioso atrio sostenuto da marmoree lucide colonne, ove erano appesi i doni e i voti offerti alla Dea. Dentro risonavano i mattutini inni di supplichevoli donne consacrate a quei riti, ed il vapore de’ sacrifizj esalava alle volte affumicate. Entrò pertanto, non senza religioso terrore, nella soglia divina, la fanciulla conscia della sua empietà, e giunta all’idolo della Dea, pose a’ di lui piedi le colombe annodate in modo, che dovessero rimanervi; e quindi, colla fronte china, e le braccia raccolte in grembo, tacitamente pregò. Intanto l’ancella, in disparte non lungi, accompagnava, con animo propenso, i supplichevoli atti di lei. O potente Dea, disse la donzella, ben è di tuo figlio ogni dardo amoroso, ma tu hai intriso il mio, prima che lo vibrasse, in qualche sugo di venefica pianta; perchè laddove le amorose ferite sono, per quanto intesi, cagione di molti diletti misti di poche pene, io per lo contrario non so che sia alcuna di quelle dolcezze, che molti cuori da te ottengono, e tutte soffro quelle amare angosce, che sparse in molti cuori, molti ne renderebbero sventurati. Ho perduto l’amato oggetto prima di acquistarlo, amo non amata da chi ha affascinati tutti i miei sensi. E ciò che distrugge ogni alito di speranza si è, che tu prodiga meco del tuo foco struggitore, fosti avara dell’avvenenza; per lo contrario ricolmandone colui, che tu mi costringi ad amare così sventuratamente. Placati, bella e terribil Dea, che se due colombe ti ho usurpate, eccone altre, e me stessa vittima, ben più di loro, dolente. Ma se ti compiaci della vendetta, vedi omai quant’ella è grave, perocchè in tempo brevissimo sono già più infelice di quegli amanti, che hanno rugginose le catene. Così pregava la fanciulla, e le scorreano dalle palpebre lagrime vanamente sparse. Quando, da lei non veduto, entrò Faone nel tempio, siccome soleva, per ringraziare giornalmente la divinità benefattrice. Stava Saffo involta nel manto, per nascondere altrui il turbamento delle sue sembianze, e stanca di continui lamenti, tacque alla fine, sedendo languida sulla base di marmorea colonna. Faone s’inoltrò verso dell’idolo, e gettò sull’ara accesa avanti di esso dell’indico incenso, il quale crepitando immantinente esalò in fumo odoroso. Il grato vapore scosse la donzella dal suo letargo: sollevò gli occhi, e vide l’amabile vincitore: al di cui aspetto improvviso, turbata insieme dalla maraviglia e dal diletto, cessò di pregar la Dea, che nel di lei animo scancellasse l’amore, perchè vedendolo si compiaceva di amarlo. Anzi, cambiando voti, pregolla che inspirasse a lui almeno qualche pietà, dalla quale al tenero affetto è proclive il sentiero. Mentre che tacita contemplandolo, e vereconda tai voti porgeva alla Dea, Faone guardava il vapore, che si sollevava dall’ardente incenso, gettandone di nuovo nelle infiammate brace quando il primo fosse consunto, compiacendosi di onorare il Nume a lui così propizio. La Dea intanto, o fosse nuova benignità verso del cortese nocchiero, o fosse per vieppiù accrescere il tormentoso ardore di Saffo, con nuovi raggi di sovraumana bellezza rendeva in quel punto, ancor più leggiadro il di lui volto, già ripieno di grazie; e Saffo guardandolo con insaziabili pupille, ne traea nuovo alimento alla sua fiamma. Averebbe pur voluto avvicinarsi a lui; ma la modestia de’ costumi tratteneva la libertà del desiderio, onde perplessa fra l’attrattiva ed il ritegno, chinandosi alla vicina Rodope; Guarda, le disse, chi prega a quelle are, indicandole il garzone che ardeva profumi. Per certo, esclamò la fedele ancella, sono degne di pietà le tue smanie, posciachè Venere ha rinnovate in costui le sembianze di Adone, sul di cui fato ella cotanto pianse, desiderando forse che tu pure versi per lui tante lagrime, quante irrigarono le bellissime di lei gote immortali. Mentre elleno così ragionavano, avendo oramai Faone arso tutto l’incenso, rivolse intorno lo sguardo, e riconobbe a caso la fanciulla, ricordandosi de i versi, e de i fiori. Era non meno cortese che leggiadro, e però, non trascurando un opportuno ufficio, la ringraziò di nuovo, a lei accostandosi; e lodando il metro de i versi, disse ch’erano più belli, che veri. Rispose palpitando la donzella con voci interrotte (perchè la eloquenza di amore sono i sospiri): Anzi sono più veri che belli. Soggiunse il garzone: Ben si conviene la piacevolezza delle parole ad una lingua favorita dalle muse, le quali t’ispirano versi così soavi, senza che tu le implori; ma nondimeno, piuttosto che verace, è ripiena di lusinghe la poetica melodia, che anzi si compiace, d’ingegnose illusioni; e questo, io credo, ti avvenne allorchè profferisti, così prodigamente, il non meritato encomio. Interruppe Saffo affascinata dalla soavità del ragionamento, ma pure con cauto ritegno: Quale non dev’essere il tuo potere nell’imperio di amore, quandochè ti è propizia la di lui madre, che a tutti egualmente non sorride! E mentre così dicea, quasi pentita di espressioni involontarie, si ricoprì il volto, abbassando il velo disciolto. Forse t’avviene, disse Faone, di lagnarti di questa Dea prematuramente, perocchè non puoi ancora dolerti con giustizia, in così fresca età, di amare non corrisposta. Oltre di che ti ha compartito il cielo un pregio più distinto della peribile bellezza, la inspirazione poetica, la quale soggioga le anime al pari della musica, ammollendo non che gli animi gentili, anco i feroci, e le belve e le furie, come si narra di Orfeo. Non giova, rispose la fanciulla, nè l’ingegno, nè la giovinezza allorchè amore con quel dardo, con cui ci ha trafitti, non percuote anche l’amato oggetto. Che se egli ignora i nostri desiderj, ed abbia anzi rivolti altrove i suoi, dove è mai quel rimedio che possa risanare un’anima che si strugge in così mal corrisposti affanni? Evvi, rispose Faone; e quale sarà mai? diss’ella impaziente; ed egli aggiunse: Il dare il nostro cuore a chi l’accetta, e ritrarlo da chi lo ricusa. Veramente, proruppe la donzella, tu da monarca dispotico nell’amoroso dominio, qual ti dichiara la celeste forma, che ti ha impressa la Dea, scegli e ricusi con tanto arbitrio; laddove la stessa Dea, non a tutti propizia, condanna altri cuori a pene amorose, che a te sembrano finte, perchè libero ne trionfi. Al che si aggiunge, che tu sei persuaso a ragione, che non puoi perdere un cuore acquistato, o che perdendolo ne troverai molti; onde immaginare non potresti la misera condizione di quelli, che gemono non ascoltati a queste are, dove forse la Dea si serve di te medesimo per esercitare a te incognite vendette. La facilità del ragionamento invitava a proseguirlo, e però Faone piacevolmente rispose: Non sia mai ch’io divenga ministro delle vendette, perchè mi sarebbe troppo grave così odioso impiego. Tu sei, disse quella, come i grandi, che inesperti delle angustie di bassa fortuna, non si commuovono a pietà de’ mendici. Tu ingegnosamente ragioni, rispose Faone, ma la tua opinione mal corrisponde agli onesti sensi dell’animo mio. E giacchè tu mi inviti cogli allettamenti di non meritata lode, e insieme con lo stimolo d’ingiusti rimproveri, a palesarti il segreto del cuore, io ti dirò, che amo sinceramente. Che se questa Dea, siccome avanti di lei, attesto per gratitudine, ha voluto spandere su di me qualche raggio benigno, per cui mi sia meno difficile la difficile fortuna di piacere, sappi, o leggiadra fanciulla, che non avverrà mai, ch’io, abusando di questi pregi, mi compiaccia d’inspirare altrui un affetto ch’io non provi. Al che soggiunse mestamente Saffo; Se Venere ti ha donata questa amabile avvenenza, Minerva ti ha formato il cuore. Dunque tu ami? E quindi palpitando aggiunse; E qual è il fortunato oggetto, a cui consacrasti il cuore? Rispose Faone: Giacchè con tanta benevolenza ti mostri curiosa degli arcani di lui, io ti dirò, che l’ho dato a Cleonice, la quale mi ama, se gravemente, il che non credo, io non fossi ingannato. Oh non lo credere, anima sincera, disse ella, che ingannare non ti puoi, ogni qual volta ti credi amato! Poichè, rispose il garzone, non ti dispiace che io alquanto prolunghi un ragionamento che mi rendi piacevole, io ti dirò, che lasciai a Cleonice i vaghissimi tuoi fiori, interpretando che me gli porgessi a tale uso. Ben sai, che di tutte le lodi che allettino un vincitor di palestra, la più gradita è quella che si dirige all’oggetto dal di lui cuore prescelto. Nella quale opinione ora vieppiù mi confermo, considerando le gentili tue maniere, che ti obbligano ad ingegnose lodi, ed a delicati uffizj degni d’animo cortese. Così oneste, ma indifferenti espressioni oramai empivano di nuova mestizia il cuore di Saffo, che ascoltava dalla bellissima bocca la misera sentenza, e però tacque chinando a terra torbidamente le pupille. Il quale atto congetturando Faone, che fosse segno di tedio in lei nato dal prolisso trattenimento, aggiunse: Forse io usurpo questi preziosi momenti a qualche tuo amante, e se non altro troppo ho io interrotta la tranquillità delle tue preghiere, poichè già vedo cambiarsi la piacevole brama di ragionare in un silenzio religioso. Sia pur felice ne’ tuoi amori, gentile donzella, e possa io meritare ne’ primi giuochi i tuoi versi leggiadri. Così dicendo, salutando lei e Rodope non meno, che in disparte sedeva rispettosa, alquanto si allontanò. Incontrandosi in un ministro del tempio, gli domandò il nome, non ancora a lui cognito, della fanciulla; da cui poichè lo intese, uscì fuori. Saffo lo accompagnava con tenere pupille, e Rodope intanto non ardiva d’interrogarla, se le erano stati piacevoli, o molesti i seguiti ragionamenti. Ma poichè vide, che si ricopriva col velo gli occhi, e soffocando i singhiozzi tergeva le copiose lagrime, ben comprese, che non altro che veleno aveva nuovamente succhiato il labbro troppo avido di così diffuso trattenimento, onde tacita aspettò, che le porgesse occasione di rinnovare gli affettuosi conforti. Nume crudele (proruppe la fanciulla con irreligioso delirio rivolta alla Dea) potevi tu immaginare più barbara discordia, che il negarmi gli allettamenti del volto, ed empirmi il cuore di così infruttuosi desiderj, onde io provi nel tempo istesso l’angoscia della mia umiliazione, e il tormentoso oggetto del trionfo altrui! Voleva abbandonarsi ad empie esclamazioni, ma la interruppe Rodope accorrendo, e disse: Te infelice, se ne’ tuoi mali dimentichi non che la verecondia verginale, la riverenza de’ Numi; perchè l’invocarli è conforto de’ miseri, ma è necessità per chi sia in odio a loro. Che se tu bestemmi chi dovresti placare... Ah saggiamente parli, rispose la donzella, perchè non hai oppresso il cuore; e quindi rivolta al Nume, disse con sommesse parole; Ben ti è noto quanto ottenebrato sia quest’animo da’ turbati desiderj, di cui tu lo hai riempito, perlochè almeno se non provi pietà del mio cuore, abbila del mio intelletto, il quale non è di sè consapevole, mentre che ne’ sensi miei trascorrono le invincibili brame che tu loro infondesti. Così dicendo, salutata prima la Dea, uscì dolente, e l’ancella l’accompagnò verso la paterna soglia, non interrompendo le benevole esortazioni.