Le avventure della villeggiatura/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Sala terrena in casa di Filippo, con tavolini da gioco, sedie, canapè ecc. Gran porta aperta nel fondo, per dove si passa nel giardino.
Brigida, Paolino, Tita, Beltrame.
Brigida. Venite, venite, che tutti dormono.
Paolino. Anche da noi non è molto che si son coricati.
Tita. E le mie padrone, non c’è dubbio che si sveglino per tre ore almeno.
Beltrame. Se vegliano tutta la notte, bisogna che dormano il giorno.
Paolino. E voi, signora Brigida, come avete fatto a levarvi si di buon’ora?
Brigida. Oh! io ho dormito benissimo. Quando ha principiato la conversazione, io sono andata a dormire. Hanno giocato, hanno cenato, hanno ritornato a giocare, ed io me la godeva dormendo. A giorno la padrona mi ha fatto chiamare; mi sono alzata, l’ho spogliata, l’ho messa a letto, ho serrata la camera, e mi sono bravamente vestita. Ho fatto una buona passeggiata in giardino, ho raccolto i miei gelsomini, e ho goduto il maggior piacere di questo mondo.
Paolino. Così veramente qualche cosa si gode. Ma che cosa godono i nostri padroni?
Brigida. Niente. Per loro la città e la villa è la stessa cosa. Fanno per tutto la medesima vita.
Paolino. Non vi è altra differenza, se non che in campagna trattano più persone, e spendono molto più.
Brigida. Orsù, questa mattina voglio aver anch’io l’onore di trattare i miei cavalieri. (scherzando) Come volete essere serviti? Volete caffè, cioccolata, bottiglia? Comandate.
Paolino. Io prenderò piuttosto la cioccolata.
Tita. Anch’io cioccolata.
Beltrame. Ed io un bicchiere di qualche cosa di buono.
Brigida. Volentieri; vi servo subito. (in atto di partire)
Tita. Ehi! la cioccolata io non la prendo senza qualche galanteria. (a Brigida)
Brigida. Eh! ci s’intende.
Paolino. La signora Brigida sa ben ella quel che va fatto.
Brigida. Già della roba ce n’è, già la consumano malamente; è meglio che godiamo qualche cosa anche noi. (parte)
SCENA II.
Paolino, Tita, Beltrame.
Paolino. Domani mattina, alla stessa ora, vi aspetto a favorire da me.
Tita. Bene, e un’altra mattina favorirete da me.
Paolino. Il vostro padrone è in campagna? (a Tita)
Tita. Il mio padrone è a Livorno, e la padrona sta qui a godersela. Il marito fatica in città a lavorare, e la moglie in campagna a spendere e a divertirsi.
Paolino. Sì, certo, la signora Costanza fa qui la sua gran figura. Chi non la conoscesse, non direbbe mai che è moglie d’un bottegaio.
Beltrame. Capperi, se fa figura! La chiamano per soprannome la governatrice di Montenero.
Paolino. E chi è quella giovane che in quest’anno è venuta a villeggiare con lei?
Tita. È una sua nipote, povera, miserabile, che non ha niente al mondo. Tutto quello che ha in dosso, glielo ha prestato la mia padrona.
Paolino. E perchè aggravar suo marito di quest’altra spesa? Perchè far venire in campagna una nipote, col peso di doverla vestire?
Tita. Vi dirò, ci è il suo perchè. La signora Costanza, la mia padrona, è ancora giovane, è vero; ma in oggi a Montenero ci sono delle giovani più di lei. E dove vi è la gioventù, vi è il gran mondo; ed ella per non esser di meno, si è provveduta di una nipote di sedici anni.
SCENA III.
Brigida, Servitori che portano cioccolate, vino ecc.
Brigida. Eccomi, eccomi, compatite se vi ho fatto un poco aspettare.
Paolino. Niente, ci siamo benissimo divertiti.
Brigida. Come?
Paolino. A dir bene del prossimo. (ridendo)
Brigida. Bravi, bravi, ho capito. Oh! chi volesse dire... chi volesse discorrere su quel che succede in villa, vi sarebbero da far de’ tomi. Si vanno a struggere i poeti per far commedie. Vengano qui, se vogliono fare delle commedie. Signor Paolino, a voi. (gli dà la cioccolata) Che vengano a vedere la nostra vecchia, se vogliono un bell’argomento. A voi, Tita. (gli dà la cioccolata) Sessantacinque anni, e si dà ancora ad intendere di essere corteggiata. (dà i biscottini a tutti e due) E il signor Ferdinando la sa sì ben secondare, che pare innamorato morto di lei, e la buona vecchia se ne lusinga; ma credo che quel drittaccio la pilucchi ben bene. Signor Beltrame, questo vi dovrebbe piacere. (vuota il vino in un bicchiere, e glielo dà)
Beltrame. Questa mi pare la miglior cioccolata del mondo.
Brigida. Tenete due biscottini. E questa novità di cui tutti parlano, che il signor Guglielmo si sia scoperto amante della signora Vittoria, è vera, o non è vera? Voi, Paolino, lo dovrete sapere.
Paolino. Dicono che in calesso sia corsa qualche parola. Lo staffiere, ch’era di dietro al calesso, dice ch’era il finestrino aperto, che poi l’hanno serrato, ma che tant’e tanto qualche cosa ha sentito.
Brigida. Eh! sì, due giovani in un calesso è una bella occasione.
Beltrame. Buono, veramente buono. (vuol rendere il bicchiere)
Brigida. Ne volete un altro?
Beltrame. No; sto bene.
Brigida. Eh! via, un altro.
Beltrame. No, davvero, sto bene.
Brigida. Per amor mio, un altro.
Beltrame. Corpo di bacco! date qui. Si può far meno per amor vostro?
Brigida. Così mi piace, che gli uomini sian compiacenti.
Paolino. Domattina, signora Brigida, signor Tita, signor Beltrame, vi aspetto da me.
Tita. E dopo domani da me.
Beltrame. Io non sono in caso di potervi trattare. Il mio padrone beve il caffè e la cioccolata fuori di casa, e da noi non se ne sente l’odore.
Paolino. Il vostro padrone non è il signor dottore, il medico di condotta di Montenero? (a Beltrame)
Beltrame. Sì, appunto. Sono tant’anni che è medico di campagna, e non ha mai potuto avere la grazia di esser medico di città.
Paolino. Ieri è stato da noi a bevere la cioccolata.
Brigida. Da voi? L’ha bevuta anche da noi.
Tita. E se vi dicessi, che l’ha bevuta anche da noi?
Brigida. Buon prò faccia al signor dottore.
Paolino. Questa mattina farà probabilmente lo stesso giro.
Beltrame. Per questa mattina no, perchè non c’è a Montenero. È andato a fare una visita in Maremma, e non vi tornerà fin domani.
Brigida. Che vuol dire, che voi non siete andato con lui?
Beltrame. Sono venuti a prenderlo con sedia e servitore, ed ha lasciato me in custodia di suo figliuolo.
Brigida. Di quello sciocco del signor Tognino?
Tita. Sì, sciocco! È un certo sciocco! Fa l’amore da disperato colla signora Rosina.
Brigida. Colla nipote della signora Costanza?
Beltrame. Sì, è vero. L’hanno tirato giù ben bene. Coll’occasione che il signor dottore suo padre fa il servente alla signora Costanza, egli si è attaccato alla nipote.
Brigida. Davvero, raccontatemi...
Paolino. Vien gente.
Tita. Andiamo via.
Brigida. Andiamo, andiamo in giardino; vo’ saper la cosa com’è.
Paolino. Cose belle. (parte)
Tita. Cose solite. (parte)
Beltrame. Frutti di gioventù! (parte)
Brigida. Avventure della campagna. (parte)
SCENA IV.
Ferdinando in abito di confidenza, poi un Servitore.
Ferdinando. Ehi! chi è di là? Chi è di là? Non c’è nessuno? Che dormano ancora tutti costoro? Ehi, chi è di là?
Servitore. Comandi.
Ferdinando. Che diavolo, s’ha da sfiatarsi per aver un servitore.
Servitore. Perdoni.
Ferdinando. Portatemi la cioccolata.
Servitore. Sarà servita. (Scroccone! comanda con questa buona grazia, come se fosse in casa sua, o come se fosse in una osteria). (parte)
Ferdinando. Il signor Filippo è un buonissimo galantuomo; ma non sa farsi servire. Tutta volta si sta meglio qui, che in ogni altro luogo. Si gode più libertà, si mangia meglio, e vi è migliore conversazione. È stato bene per me, che mi sia accompagnato in calesso colla cameriera di casa; con questo pretesto sono restato qui, in luogo di andar dal signor Leonardo. Colà pure non si sta male, ma qui si sta egregiamente. In somma tutto va bene, e per colmo di buona sorte, quest’anno il gioco non mi va male. Facciamo un po’ di bilancio; veggiamo in che stato si trova la nostra cassa, (siede ad un tavolino, e cava un libretto di tasca) A minchiate, vincita, lire dieciotto. A primiera, vincita, lire sessantadue. Al trentuno, vincita, lire novantasei; a faraone, vincita, zecchini sedici, fanno in tutto... (conteggia) in tutto sarò in avvantaggio di trenta zecchini incirca. Eh! se continua così... Ma che diavolo fate? Mi portate questa cioccolata? Venite mai, che siate maledetti? (grida forte)
SCENA V.
Filippo ed il suddetto.
Filippo. Caro amico, fatemi la finezza di non gridare.
Ferdinando. Ma voi non dite mai niente, e la servitù fa tutto quello che vuole.
Filippo. Io son servito benissimo, e non grido mai.
Ferdinando. Per me non ci penso. Ma avete degli altri ospiti in casa; e si lamentano della servitù.
Filippo. Vi dirò, amico; i miei servitori li pago io, e chi non è contento, se ne può andare liberamente.
Ferdinando. Avete ancora bevuto la cioccolata?
Filippo. Io no.
Ferdinando. E che cosa aspettate a prenderla?
Filippo. Aspetto il mio comodo, la mia volontà e il mio piacere.
Ferdinando. Ma io la prenderei volentieri.
Filippo. Servitevi.
Ferdinando. Son tre ore che l’ho ordinata. Ehi, dico, vi è caso d’aver questa cioccolata? (alla scena, forte)
Filippo. Ma non gridate.
Ferdinando. Ma se non la portano.
Filippo. Abbiate pazienza. Saranno più del solito affaccendati; oggi si dà pranzo. Saremo in undici o dodici a tavola; la servitù non può far tutto in un fiato.
Ferdinando. (Per quel ch’io vedo, questa mattina non ci ha da essere fondamento). Schiavo, signor Filippo.
Filippo. Dove andate?
Ferdinando. A bevere la cioccolata in qualche altro luogo.
Filippo. Caro amico, fra voi e me, che nessuno ci senta: voi peccate un poco di ghiottoneria.
Ferdinando. Il mio stomaco ci patisce. Non mangio quasi niente la sera.
Filippo. Mi pare per altro, che ieri alla bella cena del signor Leonardo vi siate portato bene.
Ferdinando. Oh! ieri sera è stato un accidente.
Filippo. Se avessi mangiato quel che avete mangiato voi, digiunerei per tre giorni.
Ferdinando. Oh! ecco la cioccolata. (Il servitore ne porta una tazza)
Filippo. Non andate a prenderla fuori? Accomodatevi. Questa la prenderò io.
Ferdinando. Ve ne avete avuto a male?
Filippo. No, non mi ho per male di queste cose. Andate liberamente, che questa la prenderò io.
Ferdinando. Siete pure grazioso, signor Filippo. Siamo buoni amici; non voglio che andiate in collera. La prenderò io. (prende la cioccolata)
Filippo. Benissimo. La cerimonia non può essere più obbligante. Sbattetene una per me. (al servitore)
Servitore. Signore, se non viene Brigida, non ce n’è.
Filippo. Ieri sera non ne avete messo in infusione, secondo il solito? Servitore. Sì, signore, ma ora non ce n’è più.
Filippo. Mia figlia non l’ha bevuta, mia sorella non l’ha bevuta, il signor Guglielmo non l’ha bevuta; dove è andata la cioccolata?
Servitore. Io non so altro, signore; so che nella cioccolatiera non ce n’è più.
Filippo. Bene, se non ce n’è più, toccherà a me a star senza. Oh! a queste cose già sono avvezzo.
Ferdinando. È buona. Veramente la vostra cioccolata è perfetta.
Filippo. Procuro di farla fare senza risparmio.
Ferdinando. Con permissione. Vado a far quattro passi.
Filippo. Venite qua; giochiamo due partite a picchetto.
Ferdinando. A quest’ora?
Filippo. Sì, ora che non c’è nessuno; se aspetto l’ora della conversazione, si mettono a tagliare, fanno le loro partite, ed io non trovo un can che mi guardi.
Ferdinando. Caro signor Filippo, io ora non ho volontà di giocare.
Filippo. Due partite, per compiacenza.
Ferdinando. Scusatemi, ho bisogno di camminare; più tardi, più tardi, giocheremo più al tardi. (Figurarsi s’io voglio star lì a giocare due soldi la partita con questo vecchio). (parte)
Filippo. Se lo dico! nessuno mi bada. Tutti si divertono alle mie spalle, ed io, se vorrò divertirmi, mi converrà andare alla spezieria a giocare a dama collo speziale. Oh! mi ha parlato pur bene il signor Fulgenzio. Basta; anche per quest’anno ci sono. Se marito la mia figliuola, vo’ appigionare la casa e la possessione, e non voglio altra villeggiatura. Ma io, se non villeggio, ci patisco. Se non ho compagnia, son morto. Non so che dire. Sono avvezzato così. Il mio non ha da essere mio; me l’hanno da divorare; e la minor parte ha da esser sempre la mia. (parte)
SCENA VI.
Saletta in casa di Costanza.
Costanza e Rosina.
Costanza. Brava, nipote, brava, mi piacete. Siete assettata perfettamente.
Rosina. Ci ho messo tutto il mio studio questa mattina per farmi un’acconciatura di gusto.
Costanza. Avete fatto benissimo, perchè oggi dal signor Filippo ci saranno tutte le bellezze di Montenero, e si vedranno delle acconciature stupende.
Rosina. Oh! sì; si vedranno le solite caricature. Furie, teste di leoni e medaglioni antichi.
Costanza. È vero; propriamente si disfigurano.
Rosina. Che si tengano i loro parrucchieri, ch’io non li stimo un acca. Questi non fanno che copiar le mode che vengono; e non badano se la moda convenga o disconvenga all’aria e al viso della persona.
Costanza. Verissimo; è una cosa mostruosa vedere un visino minuto in mezzo una macchina di capelli, che cambia perfino la fisionomia.
Rosina. Che mai vuol dire, che non si è ancora veduto il signor Tognino? Mi ha detto che sarebbe venuto a far colazione con noi.
Costanza. Eh! verrà, non temete. Si vede che vi vuol bene.
Rosina. Sì, s’io volessi, mi sposerebbe domani.
Costanza. La professione del medico è finalmente una professione civile, e potreste andar del pari con chi che sia.
Rosina. Mi dispiace che vi vuol tempo, prima ch’egli sia in istato di esercitarla.
Costanza. Oh! quanto ci vuole? È stato a Pisa a studiare; presto si addottora, e presto può fare il medico.
Rosina. Dicono che sa poco, e che se non istudia un po’ meglio, sarà difficile ch’egli riesca.
Costanza. Eh! mi fate ridere. Per addottorarsi non ci vuol molto. Un poco di memoria, un poco di protezione, in quindici giorni è belle spicciato. Quando è addottorato, non gli manca subito una condotta. Gli amici suoi, gli amici nostri gliela faranno ottenere.
Rosina. E la pratica?
Costanza. La pratica la farà in condotta.
Rosina. Beati i primi che gli capitan sotto.
Costanza. Se sarà fortunato, tutte le cose gli anderan bene.
Rosina. Suo padre sarà poi contento?
Costanza. Io spero di sì. Il signor dottore, non fo per dire, ha della bontà grande per me.
SCENA VII.
Ferdinando e le suddette.
Ferdinando. O di casa. Si può venire? (di dentro)
Costanza. Venga, venga, è padrone. (verso la scena) Il signor Ferdinando. (a Rosina)
Rosina. Che vuol da noi questo seccatore?
Costanza. Non lo sapete? È uno che si caccia per tutto; e bisogna fargli delle finezze, perchè è una lingua che taglia e fende.
Rosina. Corbella quella povera vecchia, che è una compassione.
Ferdinando. Servo, signore, padrone mie riverite.
Rosina. Serva.
Costanza. Serva divota.
Ferdinando. Cospetto! che bellezze son queste?
Rosina. Ci burla, signore.
Ferdinando. Ma siete così sole? Non avete compagnia, non avete nessuno?
Costanza. Questa mattina non è ancora venuto nessuno.
Ferdinando. E il signor dottore non è ancora venuto questa mattina?
Costanza. Non signore, è in Maremma a fare una visita.
Ferdinando. E il dottorino in erba non si è veduto?
Costanza. Non ancora.
Ferdinando. Gran bel capo d’opera è quel ragazzo! Ma, oh diavolo! non mi ricordava ch’è l’idolo della signora Rosina. Scusatemi, signora, voi siete una giovane che ha del talento; non credo che la parzialità vi possa dare ad intendere, ch’egli sia spiritoso.
Rosina. Io non dico che abbia molto spirito; ma non mi pare che sia da porre in ridicolo.
Ferdinando. No, no, ha il suo merito, è di buona grazia. (Il secondare non costa niente).
Costanza. Signor Ferdinando, volete che vi faccia fare il caffè?
Ferdinando. Obbligatissimo. La mattina non lo prendo mai.
Costanza. Avrete preso la cioccolata.
Ferdinando. Sì, una pessima cioccolata.
Costanza. E dove l’avete avuta così cattiva?
Ferdinando. Dove sto, dal signor Filippo. Un uomo che spende assai, che spende quello che può e quello che non può, ed è pessimamente servito.
Rosina. Oggi siamo invitate a pranzo da lui.
Ferdinando. Sì, vedrete della robaccia; della roba, se siamo in dodici, bastante per ventiquattro, ma senza gusto, senza delicatezza: carnaccia, piatti ricolmi, montagne di roba mal cotta, mal condita, tutta grasso, carica di spezierie; roba che sazia a vederla, e non s’ha un piacere al mondo a mangiarla.
Costanza. Per dir la verità, ieri sera dal signor Leonardo ci hanno dato una cena molto polita.
Ferdinando. Sì, polita se voi volete. Ma niente di raro.
Costanza. C’erano de’ beccafichi sontuosi.
Ferdinando. Ma quanti erano? Io non credo che arrivassero a otto beccafichi per ciascheduno.
Rosina. Io mi sono divertita bene col tonno.
Ferdinando. Oibò! era condito con dell’olio cattivo. Quando non è olio di Lucca del più perfetto, io non lo posso soffrire.
Rosina. Oh! vedete chi viene, signora zia?
Costanza. Sì, sì, Tognino.
Ferdinando. Ho ben piacere che venga il signor Tognino.
Costanza. Vi prego, signor Ferdinando; quel povero ragazzo non lo prendete per mano.
Ferdinando. Mi maraviglio, signora Costanza, io non sono capace...
Rosina. Perchè poi chi volesse dire del signor Ferdinando colla sua vecchia, se ne potrebbono dir di belle.
Ferdinando. Lasciatemi star la mia vecchia, che quella è l’idolo mio. (ironicamente)
Costanza. Sì sì, l’idolo vostro, ho capito.
SCENA VIII.
Tognino e detti.
Tognino. Padrone, ben levate. Cosa fanno? Stanno bene? Me ne consolo.
Rosina. Buon giorno, signor Tognino.
Ferdinando. Signor Tognino carissimo, ho l’onor di protestarle la mia umilissima servitù. (con caricatura)
Tognino. Padrone. (salutando Ferdinando)
Costanza. Avete dormito bene la scorsa notte?
Tognino. Signora sì.
Rosina. Vi ha fatto male la cena?
Tognino. Oh male! Perchè male? Non mi ha fatto niente male.
Ferdinando. E poi, se gli avesse fatto male, non sa egli di medicina? Non saprebbe egli curarsi?
Tognino. Signor sì, che saprei curarmi.
Ferdinando. A un uomo che avesse mangiato troppo, che si sentisse aggravato lo stomaco, che cosa ordinereste voi, signor Tognino?
Rosina. Oh! egli non è ancor medico; e non è obbligato a saper queste cose.
Tognino. Signora sì, ch’io lo so.
Ferdinando. Egli lo sa, signora mia, egli lo sa benissimo, e voi, compatitemi, gli fate torto, e non avete di lui quella stima ch’ei merita. Dite a me, signor Tognino, che cosa gli ordinereste?
Tognino. Gli ordinerei della cassia, e della manna, e della sena, e del cremor di tartaro, e del sal d’Inghilterra.
Costanza. Cioè, o una cosa, o l’altra.
Ferdinando. E tutto insieme, se ve ne fosse bisogno.
Tognino. E tutto insieme, se ve ne fosse bisogno.
Ferdinando. Bravo; evviva il signor dottorino.
Rosina. Orsù, mutiamo discorso.
Costanza. A che ora è partito vostro signor padre? (a Tognino)
Tognino. Quando è partito, io dormiva. Non so che ora fosse.
Costanza. Non ve l’hanno detto in casa a che ora è partito?
Tognino. Me l’hanno detto, ma non me ne ricordo.
Ferdinando. (Spiritosissima creatura!)
Rosina. E quando credete ch’egli ritorni?
Tognino. Io credo che ritornerà, quando avrà finito di fare quello che deve fare.
Ferdinando. Non c’è dubbio. Dice benissimo. In quell’età, pare impossibile ch’ei sappia dir tanto.
Rosina. Orsù, signore, gliel’ho detto e glielo torno a dire: guardi se stesso, e non istia a corbellare. (a Ferdinando)
Tognino. Mi corbella il signor Ferdinando? (a Ferdinando)
Costanza. Ditemi. Avete fatto colezione? (a Tognino)
Tognino. Io no, son venuto qui a farla.
Rosina. Ed io v’ho aspettato, e la faremo insieme.
Ferdinando. Ma! è fortunato il signor Tognino.
Tognino. Perchè fortunato?
Ferdinando. Perchè fa spasimar le fanciulle.
Costanza. Lasciamo andare questi discorsi. (a Ferdinando)
Rosina. (Povero il mio Tognino, non gli badate), (piano a Tognino)
Tognino. (Quando sarete mia, per casa non ce lo voglio), (piano a Rosina, e battendo i piedi.)
Ferdinando. Che cosa ha il signor Tognino?
Costanza. Lasciatelo stare.
Ferdinando. Ma io gli voglio bene.
Tognino. E a me non me ne importa niente del vostro bene. (gli fa uno sgarbo)
Ferdinando. Grazioso, amabile, delizioso!
SCENA IX.
Tita e detti.
Tita. Signora, una visita. (a Costanza)
Costanza. E chi è?
Tita. La signora Vittoria.
Costanza. Padrona, mi fa grazia. (a Tita)
Tognino. E la colezione?
Rosina. Vi contentate, signora zia, che andiamo a far colezione?
Costanza. Tita, conducete di là mia nipote e il signor Tognino, date loro qualche cosa di buono, e state lì con essi loro, e non vi partite.
Tita. Sì, signora. (parte)
Ferdinando. (Donna di garbo! Buona custodia! Ammirabile cautela!) (con ironia)
Rosina. Andiamo. (a Tognino)
Ferdinando. Buon prò faccia al signor Tognino.
Tognino. Grazie. Padrone.
Ferdinando. Mi faccia un brindisi.
Rosina. Oh, sono pure annoiata! (a Ferdinando)
Ferdinando. Viva mille anni il signor Tognino.
Tognino. Oh, sono pure annoiato! (a Ferdinando)
Rosina. Andiamo. (prende Tognino per un braccio, e lo strascina in maniera che si vede la goffaggine di Tognino.)
SCENA X.
Costanza e Ferdinando, poi Vittoria.
Costanza. Ma, caro signor Ferdinando...
Ferdinando. Ma, cara signora Costanza, chi si può tenere, si tenga.
Vittoria. Serva sua, signora Costanza. Perdoni se ho tardato a a fare il mio debito.
Costanza. Cosa dice mai? In ogni tempo mi fa onore; mi favorisce. La prego d’accomodarsi. (siedono)
Ferdinando. (Che dite eh? In che gala si è messa?) (sedendo, piano a Vittoria.)
Vittoria. (Tutto cattivo; non si sa nemmeno vestire), (a Ferdinando)
Costanza. (Oh, che ti venga la rabbia! Ha il mariage alla moda). (si guardano sott’occhio, e non parlano)
Ferdinando. (Si sono ammutolite, non parlano). E così, signore, che cosa dicono di questo tempo?
Vittoria. Eh! per la stagione che corre, non c’è male.
Costanza. (Ora capisco, perchè è venuta da me: per farsi vedere il bell’abito. Ma non le vo’ dar piacere, non le vo’ dir niente).
Ferdinando. E molto magnifica la signora Vittoria, è vestita veramente di gusto.
Vittoria. E una galanteria; è un abitino alla moda.
Costanza. Starà molto in campagna la signora Vittoria?
Vittoria. Fino che durerà la villeggiatura.
Ferdinando. Mi piace infinitamente la distribuzion dei colori.
Vittoria. In questa sorta d’abiti tutto consiste nell’armonia dei colori.
Costanza. (L’armonia de’ colori!) (caricandola)
Ferdinando. Questo vuol dire essere di buon gusto.
Costanza. Questa mattina, m’immagino, sarà anch’ella invitata dalla signora Giacinta.
Vittoria. Sì, signora. Ci va ella pure?
Costanza. Oh! non vuole?
Vittoria. Va a piedi, se è lecito, o va in isterzo?
Costanza. Oh! vado a piedi. Io lo sterzo non l’ho, che non sono sì ricca; ma quando anche l’avessi, per quattro passi mi parrebbe un’affettazione.
Vittoria. Eh! non si fa per questo, si fa per la proprietà.
Costanza. Se vogliamo parlare di proprietà
Ferdinando. Saremo in molti, io credo, questa mattina.
Vittoria. Per me, ci sia chi ci vuol essere, non mi voglio mettere in soggezione. Mi sono vestita così in abito di confidenza.
Ferdinando. Ma questo, signora, è un abito con cui può presentarsi in qualunque luogo.
Costanza. (Ma che maladetto ciarlone!) (da sè)
Ferdinando. Che dic’ella, signora Costanza? Non è questo un vestito magnifico, e di buon gusto?
Costanza. Vossignoria non sa che interrompere quand’uno parla. A che ora fa conto d’andare dalla signora Giacinta? (a Vittoria)
Vittoria. (Oh! si vede che quest’abito la fa delirare). Dirò, signora, ho da fare ancora due visite, e poi passerò dalla signora Giacinta. Se sarà presto, si farà una partita.
Costanza. Oh! sì, per giocare poi, in quella casa si gioca a tutte le ore. Pazienza che giocassero a piccioli giochi, ma c’è quel maladettissimo faraone, che ha da essere la rovina di qualcheduno.
Ferdinando. Io non so che finora sia accaduto alcuno di questi malanni.
Vittoria. Quest’anno, per dirla, ho perduto anch’io quanto basta, e poi ho fatto delle spesette. Mi piace andar ben vestita. Ogni stagione mi piace farmi qualche cosa di nuovo. Tutti hanno la loro passione. Io ho quella del vestir bene, e di vestir alla moda. Ecco qui, quest’anno è uscita la moda del mariage, e sono stata io delle prime.
Costanza. (Fa propriamente venire il vomito. Non si può soffrire).
Ferdinando. La pulizia certamente è quella che fa distinguere le persone.
Vittoria. Che dice, signora Costanza, ella che è di buon gusto, le piace quest’abito?
Costanza. Signora, io non voleva dir niente, perchè sono una donna sincera, e non mi piace adulare, e dall’altra parte sprezzare la roba degli altri non è buona creanza; ma se deggio dirle la verità, non mi piace niente.
Vittoria. Non le piace?
Costanza. Non so che dire, sarò di cattivo gusto, ma non mi piace.
Ferdinando. Cospetto! Questa è una cosa grande. Ma che ci trova, che non le piace?
Costanza. Ma che cosa ci trova di bello, di maraviglioso il signor lodatore? È altro che un abito di seta schietto, guarnito a più colori, come si guarniscono le livree? Con sua buona grazia, non mi piace, e mi pare che non meriti tanti elogi.
Ferdinando. Eh! i gusti sono diversi.
Vittoria. Per altro, signora Costanza, io non sono venuta mai a disprezzare i suoi abiti. (si alzano)
Costanza. Nè io, mi perdoni...
Ferdinando. Io vedo che la signora Vittoria ha volontà di partire. Se comanda, la servirò io.
Vittoria. Mi farà piacere.
Costanza. Ella è padrona di servirsi come comanda.
Vittoria. Serva umilissima.
Costanza. Serva divota.
Ferdinando. Il mio rispetto alla signora Costanza.
Vittoria. Merito peggio, non ci doveva venire. Povera, superba e ignorante). (parte)
Ferdinando. (Bel soggetto per una cantata per musica! L’ambizione e l’invidia). (parte)
Costanza. Gran signora! Gran principessa! Piena di debiti e di vanità, senza fondamento. (parte)
Fine dell’Atto Primo.