Le Ricordanze (Rapisardi 1872)/Parte seconda/A Francesco dall'Ongaro
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A FRANCESCO DALL’ONGARO
nel dedicargli una tragedia.
EPISTOLA.
Se dai lirici voli, a cui seconda
Spirò l’itala Musa, or mi raccolgo,
E allaccio al piede il Sofoclèo coturno.
Tu da’ vènia al poeta. Instabil alma
Die natura al mio petto; e s’or m’aggiro
Spensierato pe’ campi a coglier fiori.
Or pensoso d’amor canto a le stelle,
M’è pur caro talor spinger fra’ nembi
La musa, o tra l’impure ansie del mondo
Incorrotta portar l’alma e la cetra.
Dirai: Perchè de la plaudente scena
Paventasti il cimento? Arguto senno
D’accigliato Aristarco esalta indarno
Opra che pria non allettò gli orecchi
(Sien lunghi pur!) di Frine e di Narciso.
Ben hai ragion: Melpomene non balla
Su polverosi tavolini al lume
Di lucignoli incerti, e non si pregia
Star tra vecchi scaffali a pigliar mosche
Nel regal manto che le tesse Aragne.
Ma vuoi tu, d’eleganti attici sali
Maestro e caro de le muse alunno.
Vuoi che la sacra libertà de’ carmi
E le leggi, ond’ha vita unica il Bello,
Vil strumento sien fatte a l’irrequiete
Voglie e al capriccio de l’istabil Moda?
vuoi, che quanto mi mandò da l’alto
L’invisibile Genio, e la severa
Arte ridusse a non fallibil norma.
Come vecchia libbréa scorci e rimondi
Perchè sbattagli a le gibbose terga
D’un vecchio Davo, o d’un urlante Oreste?
Non dissimulo il ver: vanto non cerca
Di ritte chiome e di donneschi aborti
La mia povera Musa, e la fallace
Scena paventa, ove con acre frizzo
Di sconce salse e di stranieri aromi
Stuzzicar dee lo stomacato senso
D’egri mariti e di svagate dame.
Ben qui morto non è (volgan la punta
Le malediche lingue ad altri obietti)
Il gusto almo de l’arte: e se a le stelle
Balza Macrino a furia di gazzette,
Macrin, che tramutò l’itala scena
In orrendo covil d’egizia maga,
Direm, che sol di pane e di circensi
Uopo han l’itale genti? o che distrutti
Sono i tripodi sacri e l’auree bende,
Onde culto solenne ebbero un giorno
L’arti vaganti dal natio Gefiso?
Lascia, che dal polmon fradicio e stucco
Tragga il tempo un sospiri vedrai per l’aria
Tante aurate scoppiar bolle e vesciche,
Ch’astri parvero al vulgo; e a lui, che indarno
Del carro de la fania unse le ruote.
Restar di tanti plausi e tanti allori,
Appena appena un ciondolin sul petto.
A sciocca plebe, che s’allegra al lazzo
D’osceno Stenterello, e piange agli urli
De l’omicida frenesia d’Orlando,
Melpomene s’invola; e benchè molti
Sdegnosi petti e non corrotti ingegni
Al severo suo culto ardan devoti,
Qual ne trarrem giammai pregio e decoro.
Se qual zingara abietta erra pe ’l mondo
L’arte di Roscio, e divien Roscio istesso
Mercatante di laudi e di quattrini?
Però non slaccerà l’arduo coturno
La mia tragica Musa, e tu, cortese,
Del favor tuo l’affida. I casi udrai
Di Manfredi infelice; e se di sacra
Ira, più che di pianto, illustre obietto
Ti fia l’alta sua fine, ed all’inulta
Ombra tesor darò d’itali sdegni
Contro l’invitta tirannia di Roma,
Vano non fia che mi si schiuda un giorno
L’ambito onor de la redenta scena.
Tu, quando a l’ara de le Grazie, intatto
Sacerdote, l’appressi, o sia che aspergi
Di doriche fragranze il patrio stile,
O ver che a le dormenti api di Flora
Con astuzia gentil sottraggi i fiori,
O che le perle de la tua laguna
A le propizie Dee volgi in monile,
Deh! se mai ti fui caro, al sacro rito
Me non ultimo accogli, e men dolente
Vita mi prega! Che se neri e torti
Fia che ne mandi il ciel sempre i destini,
Miglior senno allor fia frangere a’ sassi
L’arguta lira e il tragico pugnale,
E con la larva di Talìa sul volto
Ridere almen degli altri e di me stesso!