Le odi e i frammenti (Pindaro)/Frammenti/Ditirambi

Ditirambi

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ditirambi
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DITIRAMBI

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Il ditirambo era, come tutti sanno, un canto in onore di Diòniso; e, in origine, improvvisato tra i fumi del vino: Archiloco cantava:

Quando il vino come un folgore sul cervello mi piombò,
intonare il ditirambo per Dïòniso io ben so.

Questo ceppo mise parecchi rami. Affidato ai Satiri, si combinò con elementi drammatici, e diede origine alla tragedia. Svolse una materia epico-lirica, come vediamo nei saggi di Bacchilide; e, in questa forma, come nella tragedia, finí col trascurare Diòniso, e celebrare altri miti ed altri Numi, e col perdere un po’ il carattere lirico. E, infine, rimase prevalentemente lirico, ma ingentilendosi ed affinandosi con tutti i modi dell’arte. A quest’ultimo tipo, almeno a giudicare da quanto ci resta, appartennero i ditirambi di Pindaro.

Quando si pensa a questi ditirambi, subito tornano alla mente i celeberrimi versi d’Orazio:

seu per audaces nova dithyrambos
verba devolvit numerisque fertur
lege solutis.


Sembra che Orazio dia come un posto distinto ai ditirambi. E, infatti, questo tipo di lirismo sembra fosse il piú adatto ad [p. 238 modifica] accogliere gl’impeti d’una ispirazione demoniaca. E tanto il brano che conoscevamo, quanto quello nuovamente restituitoci dai papiri, confermano l’implicito giudizio del poeta latino: in essi, veramente, circola un sangue piú vivido e ricco.

Viceversa, non risulta, almeno in questi due brani, una maggiore arditezza nella creazione delle parole; e quello nuovamente scoperto non appare affatto sciolto da ogni legge, anzi presenta la disposizione strofica. Per altro, rimangono fatti indiscutibili che Orazio conosceva un materiale assai maggiore del nostro, e che era competente in questioni ritmiche, per lo meno quanto i moderni. Può essere che Pindaro componesse alcuni ditirambi in ritmi liberi, ed altri in sistemi. E libero possiamo ritenere, sino a prova contraria, il bellissimo frammento che già possedevamo.

II

Papiri d’Ossirinco, XIII, 35.

È il principio del ditirambo «Ercole o Cerbero», scritto per i Tebani. Ne conoscevamo già i primi versi, strani ed interessantissimi. Pindaro parla in essi del ditirambo arcaico, e lo biasima, perché recitato dai Dorii con pronuncia non buona, e perché prolisso e strascicato. Cosí mi sembra si debba intendere l’espressione σχοινοτένετά τ' ὰοιδά, e da spiegare con la metafora analoga impiegata da Diòniso a biasimare le lungaggini d’Euripide (Rane, 1297):

Codesti canti lunghi come gomene,
a Maratona li hai pigliati? O dove?

Il séguito, restituitoci dal papiro, è una sfolgorante pittura d'una festa dionisiaca. Fu paragonata, e a ragione, [p. 239 modifica] all’incomparabile preludio della prima Pitica. Certo è uno dei piú vivaci e pittoreschi brani di Pindaro e della poesia greca.

Da Strabone, che riferisce i primi due versi, sappiamo che apparteneva allo stesso ditirambo l’altro frammento in cui il poeta si rivolge direttamente a Cibele (Bergk 3, 57 B.).


ERCOLE L’ARDITO O CERBERO

PEI TEBANI


Strofe I

Al par d’una fune di vimini
un dí strascicavasi il canto
dei ditirambi; ed impuro
uscía l’esse dai dorici labbri.
Dei templi le porte or s’abbattono
ad essi dinanzi; ché sanno
qual festa per Bromio,
sin presso allo scettro
di Giove, gli Uranî
festeggiano dentro la reggia.
Echeggiano prima
i rombi dei timpani presso Cibèle,
e crèpitan cròtali; e fiaccole
sottesse le rame
rossastre dei pini; e profondi
di Nàiadi gemiti
si levano, e smanie, e alalà:
addietro le teste si scagliano.
Il folgore guizza possente con l’alito
di fuoco; e la lancia d’Eníalo;
e di Pàllade l’egida invitta
risuona pel sibilo d’innumeri serpi.

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Antistrofe I

Si lancia precipite Artèmide
soletta, che aggioga, ne l’orgie
sacre di Bacco, la stirpe
dei leoni selvaggia. E Dïòniso
le Mènadi affascina, le torme di belve.
Ma ora, di sagge sentenze
araldo prescelto,
la Musa per l’Ellade me suscitò,
che invochi fortuna su Tebe
di cocchi signora.
Un giorno qui Cadmo, racconta la Fama,
ottenne consorte Armonia,
mercè dell’eccelso
consiglio; e die’ vita
ad una progenie
preclara fra gli uomini.

· · · · · · · · · · ·
Per celebrare i tuoi riti,

qui sono, o Gran Madre,
dei cembali i rombi,
qui, per squillare, i cròtali,
e sotto le fiaccole gialle,
la fiamma che sfolgora.


IV

Questa meravigliosa pittura, che gareggia in bellezza con qualsiasi altra di Pindaro, e tutte, forse, le supera in freschezza, è riportata da Dionigi d’Alicarnasso (De comp. verb., C. 22), come principio d’un ditirambo di Pindaro, e come esempio d’«armonia austera». Come si vede dal [p. 241 modifica] contenuto, non fu eseguito nel santuario, bensì su l’agora, dinanzi all’ara dei dodici Numi: piú solenne, insieme, e piú popolare.

Nel testo manca qualsiasi traccia di divisioni strofiche; ma il frammento poteva appartenere ad un’unica strofa, o, meglio, come appare dal carattere conclusivo delle ultime parole, costituire esso un’unica strofe.

Il tòno gioioso farebbe pensare a liete circostanze: appartenne forse al periodo d’ebbro entusiasmo che seguí alla seconda guerra medica.


PER LE FESTE DIONISIACHE IN ATENE


Olimpî, lo sguardo volgete al mio coro,
e l’inclito vostro favore largitemi, o Numi,
che della città popolosa,
d’Atene la sacra, nel cuore,
tra fumi di vittime,
movete per l’agora celebre adorna.
Gradite la mèsse di mammole
che strette in ghirlande vi dà Primavera;
e a me rivolgete lo sguardo,
che giungo, fulgente
d’un raggio del Nume,
a dire, secondo nei cantici,
il Dio cinto d’ellera,
cui gli uomini chiamano Bromio.
Io venni a cantar la progenie
di padri, di madri cadmèe:
ché celebra il Nume le feste,
quando, schiudendosi il talamo
dell’Ore dai pepli di porpora,
la primavera fragrante

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schiude i nettarei calici.
Allora si lanciano fiori, allor su l’ambrosïa terra
di mammole amabili pelali
s’intrecciano, e rose alle chiome.
Cantate, la voce levando tra i flauti,
o cori, cantate
Semèle velata di serti.



DITIRAMBI PER LE VITTORIE DEGLI ATENIESI CONTRO I PERSIANI

V

Il frammento che segue, riportato dallo scoliaste agli «Acornesi» d’Aristofane, era il principio d’un ditirambo divenuto famosissimo e popolarissimo fra gli Ateniesi. Con le sue parole, il coro dei «Cavalieri» d’Aristofane saluta il Popolo, tornato dalla senile stupidità a nuova intelligenza giovanile. E il coro degli «Acornesi» assicura che agli ambasciatori di città straniere bastava ricordare l’elogio pindarico per ottenere dai lusingati Ateniesi tutto quanto volessero.


PER GLI ATENIESI


O fulgida, o cinta di mammole, sonora di cantici,
pilastro de l’Ellade, Atene famosa,
divina città.


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VI

È citato da Plutarco (De glor. Athen., VII), il quale dice che si riferiva alla battaglia dell’Artemisio. Secondo ogni probabilità, appartenne al medesimo ditirambo a cui appartiene il frammento precedente.


Dove i rampolli d’Atene
la fulgida base gittarono
di libertà.


VII

Nel medesimo opuscolo, Plutarco cita anche questo brillantissimo frammento, che per solito si ascrive al medesimo ditirambo a cui appartennero gli altri due. Ma sembrerebbe che invece dovesse stare a sé; perché tanto questo come il V sembrano rispettivamente due principî di composizione. Osservo che nel testo Alalà è femminile. Ma in italiano mi sembra difficile concepire altrimenti che mascolino un grido di trionfo guerresco.


M’odi, figliuol de la Guerra,
Alalà, proemio a le cuspidi,
a cui si sacrifica dove
gli eroi per la patria

incontrano santa la morte.

9

..... un giorno,
Orïone in cimbali
s’attaccò alla moglie altrui.


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10

Fu tempo che scrofa chiamavano
la stirpe dei Beoti.


11

Anche a confronto d’Ercole,
o Gerïone, ti lodo; ma quello
che a Giove non piace, lo taccio.


12

Presso l’Egitto opulento dall’alte scogliere.