Le odi e i frammenti (Pindaro)/Odi per Cirene/Ode Pitia V

Ode Pitia V

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Pitia V
Odi per Cirene - Ode Pitia IV Odi per Opunte, Corinto, Rodi - Ode Olimpia IX
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ODE PITIA V

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La ricchezza può molto, quando la possiede un uomo virtuoso: e virtuoso fu Arcesilao sin dal principio della sua vita, e usò moderatamente del suo potere: sí che i Numi gli han sempre concessa ogni beatitudine, ed ora la vittoria a Pito (1-24).

Adesso, faccia buon viso a chi gli procurò la vittoria, a Càrroto, che non torna vinto, con piú o meno cavillose giustificazioni, ma seppe trionfare fra il crollo di quaranta cocchi rivali, mantenendo illeso il proprio, con tutti gli arnesi, che poi consacrò al Nume delfico, appendendoli nel suo santuario, vicino ad un arcaico idolo di legno offerto dai Cretesi. A Càrroto il poeta volge anche direttamente le sue felicitazioni (24-46).

Nessun uomo sarà felice sempre. Cosí la sorte dei Battiadi fu varia. Pindaro ne ricorda alcune fasi, risalendo ad un periodo della leggenda libica anteriore alla venuta di Batto. Nel suolo ove poi sorse Cirene, migrarono i Troiani dopo la caduta della loro città; ed essi fecero buona accoglienza ai Minî, i quali vennero da Tera condotti da Aristotele, il quale poi, con nome indigeno, fu chiamato Batto, cioè sovrano (90-99). Gli indigeni si opposero; ma sino i leoni fuggirono dinanzi a Batto: cosí volle Apollo, autore dei noti responsi intorno ai Minî (v. 64-80).

Ed ora la città è sotto la protezione di quegli antichissimi [p. 228 modifica]fondatori, eroizzati (una specie della santificazione cristiana) dopo la morte: cioè degli Antenoridi, di Batto, sepolto nella piazza di Cirene dove si celebra la vittoria, e degli altri sovrani che giacciono accanto a lui. Ora tutti questi eroi sentono gl’inni levati in onore di loro e del loro discendente Arcesilao (103-114): il quale, a sua volta, deve ringraziare Febo che gli ha concesso il premio delle sue fatiche e delle spese incontrate nell’allevare corsieri.

Lodi di Arcesilao: augurî che i Superi lo proteggano sempre e gli concedano anche la vittoria olimpica.

Questa ode, bella, chiara e serena, si distingue per la mancanza di vera narrazione mitica, e per l’abbondanza di scene reali. La scena dell’agone in cui Càrroto vinse è rievocata con pochi tocchi maestri; e attraverso ai pochi ma suggestivi accenni sembra risorga innanzi a noi la piazza dell’antica Cirene, sacra perché offre asilo agli eroi della patria.

Il lettore osserverà come tutto il brano 103-114 sembri addirittura foscoliano. E nel concetto della partecipazione che i defunti prendono alle gioie dei vivi; e in parecchi atteggiamenti: (Pindaro 103: quivi in disparte ei giace etc.; Foscolo: Con questi grandi abita eterno — Pindaro, 105: sopra la terra beato ei visse: eroe fu poscia; Foscolo: mortale guidatrice d’oceanine vergini....: pavido diva il mondo la chiama). Chi sa quanto Foscolo derivi da Pindaro, non stenterà a credere che questo brano abbia avuto diretto influsso sui Sepolcri.


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PER ARCESILAO DI CIRENE

VINCITORE COL CARRO A PITO


I


Strofe

Grande il potere della ricchezza,
quando, con pura virtú commista,
l’adduca un uomo,
che l’ebbe in sorte, cara compagna,
nella sua casa.
Arcesilào
diletto ai Superi, tu ben l’eserciti
con buona fama,
dai gradi primi della tua vita,
mercè di Castore dal carro d’oro,
che, dopo il nembo vernale, effonde
su la felice tua casa fulgida serenità.


Antistrofe

Uso discreto della potenza
data dai Numi fa l’uomo saggio.
Te, che giustizia
segui, circonda beatitudine
molta: sei principe

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di città grandi,
e il sommo ingenito pregio che impresso
t’è nell’aspetto,
in te si fonde col senno eccelso;
ed or, beato sei, che, riscossa,
coi tuoi cavalli, celebre gloria
da Pito, accogli questo corteggio, queste canzoni,


Epodo

giuoco d’Apollo. Dunque sovvengati, mentre in Cirene
te d’Afrodite presso i dolci orti
cantano gl’inni,
al Dio la causa recar d’ogni opera,
e piú d’ogni uomo gradire Càrroto,
che non la scusa, figlia d’Epímete
mal previggente recò, tornando
alla magione giusta dei Bàttidi;
ma poi che ospizio
gli diede l’onda Castalia, strinse
alla tua chioma dei cocchi il fregio,


II


Strofe

le briglie illese reggendo a dodici
giri nel suolo sacro alle corse.
Ché non infranse
niun degli arnesi; ma intatte pendono,
quant’egli seco
d’abili artefici
opre dal crisio clivo alla concava

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valle del Nume
addusse: pendono dentro la stanza
ch’à di cipresso pareti, presso
la statua, sculta da solo un tronco
che all’aula delfica diêro i Cretesi saettatori.


Antistrofe

Dunque, chi bene ti fece, accogliere
convien con animo benigno. O Càrroto,
o d’Alessibio
figlio, le Càriti dal crine d’oro
di luce avvampano
te fortunato,
che, dopo gravi pene, riscuoti
di celeberrime
laudi ricordo, che fra quaranta
piombanti aurighi, con cuore impavido
salvato il cocchio, torni dai fulgidi
ludi alla patria Cirene, torni di Libia al suolo.


Epodo

Uomo non vive da pene immune, né mai vivrà:
con vece alterna dura l’antica
sorte di Batto:
di Batto, fulgida per gli stranieri
pupilla, torre per la città.
Sino i leoni dal rugghio orribile
fuggîr sgomenti lui, poi che addusse
di là dal mare straniera lingua:

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infuse in essi
terrore Febo: ché di Cirene
al sire, l’èsito dei suoi responsi


III


Strofe

non fosse vano: Febo che agli uomini
porge e alle femmine filtri pei gravi
morbi, e la cétera
trovò, che ispira l’estro in chi vuole,
che giuste norme
senza contrasti
nei petti induce, che di fatidici
recessi ha cura:
per esso in Argo, nella santissima
Pito, ed a Sparta, d’Egimio e d’Eracle
i prodi figli presero sede.
Ma io cantare debbo la gloria da Sparta uscita.


Antistrofe

Da Sparta vennero gli uomini Egídi
miei padri; e a Tera, non senza l’opera
dei Numi, giunsero:
ché un fato addusse quivi il banchetto
ricco di vittime:
di qui redàtolo,
o carnèo Febo, nel tuo convivio
cantiam Cirene,
la ben costrutta città: la tengono

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gli antenorídi Troiani, gente
vaga di guerre: venner con Elena,
quando la patria videro in guerra fumar distrutta.


Epodo

E questa equestre gente sollecita, con sacrifizi,
con doni accolse le nuove turbe
cui su le celeri
navi Aristòtele guidò, schiudendo
la via del pelago profondo, e i chiostri
dei Numi rese piú ampî: a lui
le salutifere pompe apollinee
debbon la dritta strada, dai lastrici
sodi allo scalpito
dei corridori. Quivi in disparte
ei giace, ai limiti di questa piazza.


IV


Strofe

Sopra la terra beato ei visse:
eroe fu poscia, culto dal popolo.
E a parte giacciono
gli altri sovrani sacri, che ottennero
sepolcro innanzi
la reggia; e sentono
col cuor defunto la somma loro
virtú di molle
rugiada aspersa dalla profluvie
degl’inni: onore per essi, debita

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gloria per Arcesilào, progenie
loro, che Febo dall’arco d’oro deve esaltare


Antistrofe

con la canzone dei giovinetti:
ch’ebbe, in compenso dei suoi dispendî,
l’inno di Pito.
I saggi onorano quest’uomo; ed io
quello che dicono
dirò: che nutre
parola e senno maggior degli anni:
per l’ardimento
è come l’aquila fra gli altri augelli:
è negli agoni solida torre:
sin dalla nascita penne gli crebbero
per l’arti musiche: saggio di cocchi maestro or pare.


Epodo

E quante indigene strade si schiudono d’eccelse prove,
tutte affrontava. Benigno il Dèmone
sinora fausto
gli diede l’esito. Deh, fate, o Superi,
che nei consigli, nell’opre, simile
sia l’avvenire. Né mai la vita,
gli strugga soffio vernal che i frutti
macera. Giove dà norma al Dèmone
dei suoi diletti;
ond’io lo prego che pur l’olimpico
fregio alla stirpe doni di Batto.