Le Mille ed una Notti/Storia di Kodadad e de' suoi fratelli
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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NOTTE CCLXXXII
STORIA
DI KODADAD E DE’ SUOI FRATELLI.
— Sire, quelli che scrissero la storia del regno di Diarbekir, riferiscono che nella città di Harran regnava una volta un monarca splendido e potente, il quale non amava meno i suoi sudditi che non ne fosse amato. Aveva mille virtù, e non gli mancava, per essere pienamente felice, se non un erede. Benchè avesse nel serraglio le più belle donne del mondo, non poteva aver figliuoli. Ne domandava del continuo al cielo, allorchè una notte, mentre gustava le dolcezze del sonno, gli comparve un uomo di bell’aspetto, o piuttosto un profeta, il quale così gli parlò:
«— Le tue preci sono esaudite; hai finalmente ottenuto quanto bramavi. Alzati appena sarai desto, mettiti a pregare e fa due genuflessioni; poi va nel giardino del tuo palazzo, chiama il giardiniere, e comandagli di recarti una melagrana; mangiane quanti granelli vorrai, ed i tuoi voti saranno paghi. —
«Il re, memore, svegliandosi, di questo sogno, ne rese grazie al cielo; alzossi, si mise a pregare, fece due genuflessioni; indi, andato nel giardino, prese cinquanta granelli di melagrano, numerandoli ad uno ad uno, e li mangiò. Aveva cinquanta donne che dividevano con lui il letto, e queste trovaronsi tutte incinte; ma una ve ne fu, chiamata Piruzè, la cui gravidanza non apparve. Concepì il monarca tal avversione per questa dama, che voleva farla morire. — La sua sterilità,» diceva, «è manifesto segno che il cielo non trova Piruzè degna d’essere madre. Bisogna ch’io purghi il mondo da un oggetto odioso al Signore.» Voleva eseguire la crudel risoluzione; ma il suo visir ne lo dissuase, dimostrandogli che non tutte le donne erano del medesimo temperamento, e non essere impossibile che Piruzè fosse gravida, quantunque non ne apparissero ancora i segni. — Or bene,» riprese il principe, «viva pure, ma esca dalla mia corte, poichè non la posso soffrire. — Vostra maestà,» replicò il visir, «la mandi al principe Samer, vostro cugino.» Il re aderì al consiglio, e mandò Piruzè a Samaria, con una lettera nella quale pregava il cugino a trattarla bene, e se fosse incinta, dargli avviso del parto.
«Appena Piruzè fu giunta in quel paese, si avvide d’esser gravida, ed infine partorì un figliuolo più bello del sole. Il principe di Samaria scrisse subito al re di Harran per partecipargli l’avventurosa nascita di questo bambino e felicitarnelo. Ne provò il re moltissima gioia, e rispose a Samer in questi termini:
««Caro cugino, tutte le altre mie mogli hanno dato alla luce un principe ciascuna, di modo che noi abbiamo qui buon numero di bambini. Vi prego di prender cura di quello di Piruzè, e mettergli nome Kodadad (1); me lo manderete quando ve lo chiederò.»»
«Il principe di Samaria non risparmiò nulla per l’educazione del nipote. Gli fece insegnar l’arte di cavalcare, il tirar d’arco, e tutte le altre cose che convengono ai figliuoli dei re, cosicchè Kodadad, di diciotto anni, poteva passare per un prodigio. Sentendosi quel giovane principe un coraggio degno de’ suoi natali, disse un giorno alla madre: — Signora, comincio ad annoiarmi di Samaria; sento che amo la gloria; permettetemi d’andar a cercare le occasioni d’acquistarne nei perigli della guerra. Il re di Harran, mio padre, ha molti nemici; alcuni re suoi vicini vorrebbero turbarne la quiete. Perchè non mi chiama egli in di lui soccorso? Perchè mi lascia neghittoso tanto tempo? Non dovrei già essere alla sua corte? Mentre tutti i miei fratelli hanno la fortuna di combattere a’ suoi fianchi, dovrò io passare qui nell’ozio la vita? — Figliuolo,» rispose Piruzè, «non ho minor impazienza di voi di udire il vostro nome famoso. Vorrei che vi foste già segnalato contro i nemici del re vostro padre; ma è d’uopo attendere ch’egli vi domandi. — No, o signora, ho aspettato fin troppo. Ardo di vedere il re, e sono tentato d’andar ad offrirgli i miei servigi come un giovane sconosciuto; egli li accetterà senza alcun dubbio, e non mi scoprirò se non dopo aver fatte mille azioni gloriose; voglio meritare la sua stima prima ch’ei mi conosca.» Approvò Piruzè la generosa risoluzione; e per tema che il principe Samer non vi si opponesse, Kodadad, senza comunicargliela, uscì un giorno di Samaria, come per andare alla caccia.
«Era montato sur un cavallo bianco che aveva la briglia ed i ferri d’oro, e la sella con una gualdrappa di raso turchino tutta sparsa di perle. Pendeagli al fianco una sciabola coll’impugnatura d’un solo diamante, ed il fodero di legno di sandalo tutto guarnito di rubini e smeraldi. Portava sugli omeri il turcasso e l’arco; e in tale equipaggio, che faceva maravigliosamente spiccare il suo bell’aspetto, giunse nella città di Harran. Trovò ben presto il modo di farsi presentare al re, il quale, incantato della sua avvenenza e della bella statura, e fors’anche trascinato dalla forza del sangue, gli fece favorevoli accoglienze, e chiesegli il suo nome e la qualità. — Sire,» rispose Kodadad, «sono figliuolo d’un emiro del Cairo. Il desiderio di viaggiare mi fece partire dalla patria, e siccome, passando pe’ vostri stati, seppi ch’eravate in guerra con alcuni vicini, sono venuto alla corte per offrire a vostra maestà il mio braccio.» Lo colmò il re di carezze, e gli diede un posto nelle sue truppe.
«Il giovane principe non tardò a farsi distinguere pel suo valore. Guadagnata la stima degli officiali, eccitò l’ammirazione de’ soldati; e siccome non aveva meno spirito che coraggio, insinuossi tanto nelle buone grazie del re, che ne divenne il favorito. Non mancavano i ministri e gli altri cortigiani d’andare ogni giorno a far visita a Kodadad, e con tal premura ne ricercarono l’amicizia, che trascuravano quella perfino degli altri figliuoli del re; del che questi giovani principi non seppero avvedersi senza dispiacere, e prendendosela collo straniero, concepirono tutti contro di lui un odio estremo. Intanto il re, amandolo tutti i giorni più, non si stancava di prodigalizzargli i segni del suo affetto. Lo voleva del continuo vicino: ne ammirava i discorsi pieni di spirito e di saviezza, e per far vedere fino a qual punto lo stimava saggio e prudente, gli affidò la custodia degli altri principi, benchè fosse della loro età, di modo che Kodadad diventò l’aio de’ propri fratelli.
«Ma ciò non fece che irritarne l’odio. — Come!» sclamavano; «il re non si contenta d’amare uno straniero più di noi, ma vuol ancora ch’ei sia nostro aio, e che nulla dobbiamo fare senza il di lui permesso? Questo è ciò che non possiamo soffrire. N’è d’uopo disfarci di questo straniero. — Non abbiamo,» diceva l’uno, «che ad andarlo a trovare tutti assieme, e farlo soccombere sotto i nostri colpi. — No, no,» soggiunse l’altro, «guardiamoci bene dall’immolarlo noi medesimi; la sua morte ci renderebbe odiosi al re, il quale, per punircene, ci dichiarerebbe tutti indegni di regnare. Perdiamo lo straniero coll’astuzia: domandiamogli il permesso d’andare alla caccia, e quando saremo lungi dal palazzo, prendiamo la via d’un’altra città, dove andremo a passare alcun tempo. La nostra assenza sorprenderà il re, il quale, non vedendoci tornare, perderà forse la pazienza, e farà morire lo straniero, o lo scaccerà dalla corte per averci permesso d’uscire dal palazzo. —
«Tutti i principi applaudirono a tale artificio, e recatisi da Kodadad, lo pregarono di permetter loro d’andare alla caccia, promettendogli di tornare nel medesimo giorno. Il figlio di Piruzè cadde nel laccio: accordò il permesso domandatogli dai fratelli, e quelli partirono, nè più ritornarono. Erano già tre giorni che trovavansi assenti, quando il re chiese a Kodadad: — Dove sono i principi? È molto tempo che non li ho veduti. — Sire,» rispose il giovane, facendogli una profonda riverenza, «sono andati da tre giorni alla caccia; eppure mi avevano promesso di tornare più presto.» Il re s’inquietò, e l’inquietudine sua accrebbe quando vide alla domane che i principi non comparivano ancora, nè seppe frenare la sua collera. — Imprudente straniero,» disse a Kodadad, «dovevi tu lasciar partire i miei figliuoli senza accompagnarli? Così adempi all’incarico che ti diedi? Va subito in traccia di loro, e conducimeli; altrimenti la tua perdita è certa. —
«Queste parole gelarono di spavento il disgraziato figlio di Piruzè, il quale, indossate le armi e montato tosto a cavallo, esce dalla città, e come un pastore che abbia smarrito il gregge, cerca per ogni dove de’ suoi fratelli in campagna, informasi in tutti i villaggi se siano stati veduti, e non raccogliendone veruna notizia, abbandonasi al più vivo dolore. — Ah, fratelli!» sclamò; «che cosa fu di voi? Sareste caduti in potere de’ nostri nemici? Non sarei io venuto alla corte di Harran se non per cagionare al re un dispiacere tanto sensibile?» Era inconsolabile d’aver permesso ai principi d’andare a caccia, o di non averveli accompagnati.
«Dopo alcuni giorni impiegati in vane ricerche, giunse in una pianura di prodigiosa estensione, in mezzo alla quale vedevasi un palazzo di marmo nero. Vi si avvicina, e scorge ad una finestra una leggiadrissima donna, ma adorna della sola sua bellezza; aveva i capelli sparsi, laceri gli abiti, e leggevasele sul volto tutti i segni d’una profonda afflizione. Allorchè vide Kodadad, e stimò che la potesse intendere, gli volse tali parole: — O giovane, allontanati da questo funesto palazzo, o ti vedrai fra breve in potere del mostro che l’abita. Un negro che si pasce d’umano sangue fa qui la sua dimora, arresta tutti coloro che la mala sorte fa passare per codesta pianura, e li chiude in tetre prigioni, d’onde non li trae se non por divorarli.
«— Signora,» le rispose Kodadad, «ditemi soltanto chi siete, e non mettetevi in pena del resto. — Sono una fanciulla di qualità, nativa del Cairo,» ripigliò la donna; «passava vicino a questo castello per andare a Bagdad, quando incontrai, il negro, che, trucidati tutti i miei servi, qui mi condusse. Vorrei non avere a temer altro che la morte; ma per colmo d’infortunio, questo mostro vuole che abbia compiacenza per lui; e se domani non m’arrendo senza sforzo alla sua brutalità, devo aspettarmi all’ultima violenza. Ancora una volta,» proseguì; «fuggi: il negro sta per tornare; egli è uscito poco fa onde inseguire alcuni viaggiatori che scoprì di lontano nella pianura. Non hai tempo da perdere, e non so nemmeno se con una pronta fuga potrai metterti in salvo. —
«Non aveva finito tali parole, che il negro comparve: uomo di smisurata altezza e di terribile aspetto, montava un robusto cavallo tartaro, e cingeva una scimitarra così larga e pesante, ch’egli solo poteva servirsene. Avendolo il principe scorto, rimase stupito di quella mostruosa statura. Si volse al cielo per pregarlo di essergli propizio; poscia, sguainata la sciabola, attese di piè fermo il negro, il quale, disprezzando sì debole avversario, gl’intimo di arrendersi senza combattere....»
Scheherazade cessò qui di parlare; il sultano parve dolente che l’arrivo del giorno gl’impedisse di conoscere l’esito del combattimento, ed aspettò con impazienza la prossima notte.
NOTTE CCLXXXIII
— Sire, Kodadad fece conoscere, dal suo contegno, che volea difendere la propria vita, poichè avvicinatosegli, lo percosse aspramente nel ginocchio. Il negro, sentendosi ferito, mandò un sì orrendo grido, che ne rintronò tutta la pianura, e divenuto furibondo, spumante di rabbia, s’alza sulle staffe, e vuol colpire a sua volta Kodadad colla terribile scimitarra. Il colpo fu scagliato con tal furore, che la era finita pel giovane principe, se non usava la destrezza d’evitarlo, facendo fare un opportuno movimento al cavallo. La scimitarra piombò fischiando orribilmente per l’aere, ed allora, prima che il negro avesse tempo di scagliare un secondo colpo, Kodadad gliene scaricò uno sul braccio destro con tal forza, che lo tagliò netto. La tremenda scimitarra cadde colla mano che la stringeva, e tosto il negro, cedendo alla violenza del colpo, abbandonò le staffe, e fece rimbombar la terra del rumore di sua caduta. Nello stesso tempo il principe, disceso da cavallo, si gettò sull’avversario e gli tagliò la testa. In quel momento la donna, stata spettatrice del combattimento, e che innalzava fervidi voti al cielo pel giovane eroe cui ammirava, mandò un grido di gioia, e disse a Kodadad: — Principe (poichè la difficil vittoria che or ora riportaste mi persuade, al pari del vostro nobile aspetto, che non dovete essere di volgar condizione), principe, finite l’opera vostra: il negro tiene indosso le chiavi di questo castello; prendetele, e venitemi a cavar di prigione.» Il principe cercò nelle tasche del miserabile che stava disteso nella polve, e rinvenne parecchie chiavi.
«Aprì la prima porta, ed entrato in un ampio cortile, vi trovò la donna che gli veniva incontro, e la quale volea gettatogli ai piedi per meglio dimostrargli la propria gratitudine; ma egli ne la impedi. Magnificò ella il di lui valore, innalzandolo al di sopra di tutti gli eroi della terra; a’ quali complimenti egli corrispose, e siccome la donna gli parve molto più amabile da vicino che da lontano, non so se ella sentisse maggior gioia al vedersi liberata dall’orribile pericolo in cui trovavasi, ch’egli ne provasse d’aver reso quell’importante servigio a sì bella creatura.
«I loro discorsi furono interrotti da grida e da gemiti. — Che sento?» sclamò Kodadad; «d’onde partono queste compassionevoli voci che mi feriscono le orecchie? — Signore,» rispose la giovane, mostrandogli col dito una porta bassa che stava nel cortile, «vengono da quel luogo: stanno colà non so quanti infelici che la loro maligna stella fe’ cadere in mano del negro; sono tutti incatenati, ed ogni giorno quel mostro ne traeva uno per mangiarlo.
«— È questo per me il maggior giubilo,» riprese il principe, «di sentire che la mia vittoria salva la vita a quegli sfortunati. Venite, madama, venite a dividere con me il piacere di metterli in libertà; potrete giudicare da voi medesima di qual contento siamo per ricolmarli.» Così dicendo, s’inoltrarono verso la porta del carcere, e mano mano che vi si accostavano, udivano più distintamente i lamenti dei prigionieri; Kodadad, intenerito, ed impaziente di terminare le loro pene, mette prontamente una delle chiavi nella serratura. Non vi pose alla prima quella che facea d’uopo; ne prende un’altra, ed al rumore ch’ei fa, tutti quegl’infelici, persuasi che fosse il negro, il quale venisse, secondo il solito, a portar loro da mangiare, e nello stesso tempo a prendere uno de’ compagni, raddoppiarono i gemiti e le strida. Udivansi voci lamentevoli che pareano uscire dal centro della terra.
«Frattanto il principe aprì la porta, e trovata una scala ripidissima, discese in un profondo e vasto sotterraneo, che riceveva da uno spiraglio qualche fioca luce, ove scorse più di cento persone attaccate a pali colle mani legate. — Sfortunati viaggiatori,» loro diss’egli, «vittime infelici, che non attendete se non il momento d’una morte crudele, ringraziate il cielo, che oggi vi libera pel soccorso del braccio mio. Ho ucciso l’orribil negro, del quale dovevate esser preda, e vengo a spezzare le vostre catene.» Appena ebbero i prigionieri intese quelle parole, che mandarono tutti in una volta un grido misto di gioia e maraviglia. Kodadad e la donna cominciarono a slegarli, ed a misura che li scioglievano, quelli che vedeansi sbarazzati dalle catene, aiutavano a levarle agli altri; talchè in brevissimo tempo furono tutti in libertà.
«Postisi allora in ginocchio, dopo aver ringraziato Kodadad di quello che aveva fatto per loro, uscirono dal sotterraneo; e quando furono nel cortile, qual non fu la meraviglia del principe vedendo fra que’ prigionieri i fratelli che cercava, e cui più non isperava di trovare! — Ah, principi!» sclamò egli, scorgendoli; «non m’inganno io? Siete realmente voi ch’io veggo? Posso lusingarmi di restituirvi al re vostro padre, ch’è inconsolabile di avervi perduti? Ma, non ne avrà egli a piangere nessuno? Siete tutti vivi? Aimè! la morte d’uno solo di voi basta per avvelenare il contento che provo d’avervi salvati! —
«I quarantanove principi si fecero tutti riconoscere da Kodadad, che li abbracciò l’un dopo l’altro, palesando ad essi l’inquietudine che l’assenza loro cagionava al re. I principi diedero al liberatore tutte le lodi che meritava, come anche tutti gli altri prigionieri, che non sapevano trovar termini abbastanza efficaci per attestargli tutta la gratitudine della quale si sentivano penetrati. Fece poscia Kodadad con essi la visita del castello, dove rinvennero ricchezze immense, finissime tele, broccati d’oro, tappeti di Persia, rasi della China ed un’infinità d’altre mercanzie, che il negro aveva tolte alle caravane da lui spogliate, e la maggior parte delle quali apparteneva ai prigionieri liberati da Kodadad. Ciascuno riconobbe la sua roba e la reclamò. Il principe fece prendere ad ognuno le sue balle, e divise anzi fra tutti il resto delle merci; quindi disse loro: — Come farete a portar via le robe vostre? Qui siamo in un deserto, nè avvi apparenza di trovar cavalli. — Signore,» rispose un prigioniero, «il negro colle mercanzie ci ha rubati anche i camelli; forse si trovano nelle scuderie del castello. — Non è impossibile,» disse Kodadad; «andiamo a chiarircene.» E nello stesso tempo recatisi alle scuderie, non solo vi trovarono i camelli dei mercanti, ma eziandio i cavalli dei figliuoli del re di Harran; cosa che li colmò tutti di allegrezza. Stavano nelle stalle alcuni schiavi negri, i quali, vedendo liberi tutti i prigionieri, e da ciò giudicando che il negro fosse stato ucciso, pieni di spavento, presero la fuga per segrete vie. Nè si pensò ad inseguirli. Tutti i mercanti, lietissimi di aver ricuperato, colla libertà, le merci ed i camelli, si disposero a partire; ma prima di mettersi in cammino, volsero nuovi e maggiori ringraziamenti al loro liberatore.
«Partiti che furono, Kodadad, rivolgendosi alla donna, le disse: — E voi, o signora, in qual luogo bramate d’andare? Ove tendevano i vostri passi quando, foste sorpresa dal negro? Intendo condurvi fin dove scelto avete il vostro ritiro, e non dubito che anche questi principi non siano della medesima risoluzione.» I figliuoli del re di Harran protestarono alla dama che non la lascerebbero, se prima restituita non l’avessero a’ genitori.
«— Principi,» disse loro la giovane, «sono d’un paese troppo lontano di qui; ed oltre che sarebbe un abusar troppo della vostra generosità facendovi fare tanta strada, vi confesserò che mi sono per sempre allontanata dalla mia patria. V’ho detto poco fa ch’io era del Cairo; ma dopo le bontà che mi dimostrate e l’obbligazione che vi debbo, o signore,» soggiunse, guardando Kodadad, «sarebbe male di nascondervi la verità. Sono figliuola di re; un usurpatore s’impossessò del trono di mio padre, dopo avergli tolta la vita; e per salvare la mia, fui costretta a ricorrere alla fuga.» A tal confessione, Kodadad ed i suoi fratelli pregarono la principessa a raccontar loro la sua storia, assicurandola che prendevano tutto il maggior interesse alle sue disgrazie, ed erano disposti a nulla risparmiare per renderla felice. Ringraziatili delle nuove proteste di servigio che le facevano, non potè la donna dispensarsi dall’appagare la loro curiosità, e cominciò di tal guisa il racconto delle sue avventure.»
Note
- ↑ Diodato.