Le Mille ed una Notti/Storia del primo vecchio e della cerva
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
DEL PRIMO VECCHIO E DELLA CERVA
«Ora dunque,» proseguì il vecchio, «comincerò il mio racconto: vi prego vogliate ascoltarmi con attenzione. Questa cerva che vedete è mia cugina, e di più mia moglie. Essa toccava appena i dodici anni quand’io la sposai, talchè posso dire ch’ella doveva considerarmi non tanto come parente e marito, quanto come padre. Noi convivemmo trent’anni senza mai aver prole, nè la sua sterilità scemò la mia amicizia e compiacenza per lei. Il solo desiderio d’aver figli m’indusse a comperare una schiava, da cui ebbi un figlio (1) che prometteva assai. Mia moglie n’ebbe gelosia, e prese ad odiare la madre ed il fanciullo; ma seppe sì ben celare la sua avversione, ch’io non la conobbi se non troppo tardi. Frattanto mio figlio ingrandiva, ed aveva già dieci anni allorchè fui obbligato di fare un viaggio. Prima di partire, raccomandai la schiava ed il figliuolo alla moglie, della quale non diffidava, e la pregai d’averne cura durante la mia assenza, che durò un anno intero. Ella approfittò di quel tempo per saziare il suo odio, ed appigliatasi alla magia, quando fu abbastanza iniziata in codest’arte diabolica per eseguire l’iniquo disegno che meditava, la malvagia donna condusse il mio ragazzo in un luogo remoto. Ivi, co’ suoi malefizi, lo cambiò in vitello e diedelo al mio massaio, raccomandandogli di nutrirlo come un vitello ch’essa diceva aver comperato. Nè il furore di lei limitossi a questa abbominevole azione, ma cangiò anche la schiava in una vacca, e la consegnò pure al massaio.
«Allorchè tornai, le chiesi notizia della madre e del fanciullo. — La vostra schiava è morta,» mi disse, «e quanto a vostro figlio, sono già due mesi che io non lo vedo, e che ignoro cosa ne sia accaduto.» Io fui dolente per la morte della schiava, ma siccome il fanciullo era soltanto sparito, così mi lusingai di poterlo presto ritrovare. Nondimeno trascorsero otto mesi senza ch’ei tornasse, ed io non ne aveva nuova alcuna, quando giunse la festa del gran Bairam (2). Per celebrarla, comandai al massaio di condurmi una delle vacche più grasse onde farne sacrificio. Egli obbedì, e la vacca che mi condusse fu la stessa schiava, la sventurata madre di mio figliuolo. Io la legai, ma mentre accingevami a sagrificarla, ella proruppe in lamentevoli muggiti, e vidi che le scorrevano dagli occhi rivi di lagrime; tal vista mi turbò stranamente, e vinto mio malgrado da un sentimento di pietà, non potei risolvermi ad ucciderla, ed ordinai al massaio di andare a prenderne un’altra.
«Mia moglie, che trovavasi presente, fremè della mia compassione, ed opponendosi ad un ordine che rendeva vana la sua malizia: — Che fate voi, amico?» sclamò. «Immolate questa vacca: il vostro massaio non ne ha di più belle, nè più alte all’uso che vogliamo farne.» Per compiacenza alla moglie mi accostai alla vacca, e soffocando la pietà che ne sospendeva il sagrificio, stava per vibrarle il colpo mortale, allorchè la vittima, raddoppiando i pianti ed i muggiti, mi disarmò una seconda volta. Allora consegnai il maglio al massaio, dicendogli: — Prendete, e sagrificatela voi stesso, perchè i suoi muggiti e le sue lagrime mi spezzano il cuore.
«Il massaio, meno pietoso di me, la sagrificò, ma nello scorticarla trovammo aver ella le sole ossa, benchè ci fosse sembrata molto grassa. Io ne provai un vivo dispiacere, e: — Tenetela per voi,» dissi al massaio, «io ve la lascio; fatene regali e limosine a chi v’aggrada; se avete un bel vitello, conducetemelo in sua vece.» Io non m’informai che cosa facesse quindi della vacca, ma non molto dopo che l’ebbe tolta da’ miei occhi, lo vidi giungere con un vitello. Sebbene ignorassi che quel vitello fosse mio figlio, non potei a meno di sentirmi commosso fin nelle viscere alla di lui vista. Dal canto suo, quando ei mi vide, fece uno sforzo sì grande per avvicinarmisi, che ruppe la corda ond’era legato. Allora gettossi ai miei piedi, col capo contro terra, quasi per eccitarmi a compassione e scongiurarmi di non aver la crudeltà di togliergli la vita, avvertendomi, per quanto stava in lui, ch’egli era mio figlio.
«Io rimasi ancor più atterrito e commosso da quest’atto, che nol fossi stato dalle lagrime della vacca; risentii una tenera pietà per lui; o, a meglio dire, il sangue fece in me il suo dovere. — Andate,» diss’io al massaio, «riconducete a casa questo vitello. Abbiatene cura, e traetene qui tosto un altro.» Quando mia moglie mi udì parlare così, non potè trattenersi dallo sclamare di nuovo: — Che fate voi, marito mio? a mio parere, non sagrificate altro vitello che questo. — Moglie,» io risposi, «non voglio immolarlo, ma bensì fargli grazia; però vi prego di non opporvi.» Con tutto ciò la malvagia donna non volle arrendersi alle mie preghiere; essa odiava troppo mio figlio per acconsentire ch’io lo salvassi. E me ne chiese il sagrificio con tanta insistenza, che fui costretto ad accordarglielo. Legai dunque il vitello, e pigliato il coltello fatale...» Scheherazade cessò qui dal favellare, vedendo sorger l’alba.
— Sorella,» disse allora Dinarzade, «io sono allettata da questa novella, la quale sostiene sì gradevolmente la mia attenzione. — Se il sultano mi concede di vivere anche oggi, ti accerto che quanto sarò per narrarti domani ti recherà maggior diletto.» Schahriar, bramoso di sapere che cosa sarebbe accaduto del figliuolo del vecchio che conduceva la cerva, disse alla sultana, avrebbe udito con piacere per la notte successiva il fine del racconto.
NOTTE V
— Sire,» proseguì Scheherazade sul finire della quinta notte, «il primo vecchio che conduceva la cerva, continuando la sua istoria al genio, ai due vecchi ed al mercadante, così disse: «Io presi adunque il coltello, e stava per immergerlo nel collo a mio figlio, quando egli, volgendo languidamente verso di me i suoi occhi bagnati di lagrime, m’intenerì al punto che non ebbi la forza d’immolarlo. Lasciai cadere il ferro, e dissi alla moglie che assolutamente voleva uccidere un altro vitello. Colei nulla risparmiò per ismovermi dalla mia risoluzione, ma, malgrado tutte le sue istanze, io stetti fermo, e sol per acchetarla le promisi che l’avrei sagrificato al Bairam dell’anno successivo.
«La mattina dopo, il massaio chiese di parlarmi in segreto. — Vengo,» mi disse, «a darvi una notizia ch’io spero vi sarà grata. Io ho una figlia, la quale coltiva alquanto l’arte magica. Ieri, nel ricondurre a casa il vitello da voi risparmiato, notai ch’ella rise al vederlo, e poco dopo si mise a piangere. Io le chiesi perchè facesse nel medesimo tempo due cose sì contrarie. — Padre,» mi rispos’ella, «questo vitello che voi riconducete è il figlio del nostro padrone. Io risi di gioia scorgendolo ancor vivo, e poscia piansi ricordandomi del sagrificio fatto ieri di sua madre, la quale era cambiata in vacca. Queste due metamorfosi avvennero per gl’incantesimi della moglie del nostro padrone, la quale odiava la madre ed il figlio...» Ecco quanto seppi da mia figlia,» continuò il massaio, «questa è la nuova che vi reco.
«A tal detti, o genio, » proseguì il vecchio, «io vi lascio giudicare del mio stupore. Partii tosto insieme al massaio per parlare io stesso colla di lui figlia. Appena giunto, corsi subito alla stalla ov’era il vitello, il quale, benchè non potesse contraccambiare i miei abbracci, mi ricevè però in modo da convincermi senz’altro esser egli mio figliuolo.
«Frattanto, giunse la figlia del massaio, a cui io dissi: — Buona fanciulla, potete voi restituire a mio figlio l’antica sua forma? — Sì, lo posso,» mi rispose quella. — Ah! se mai vi riuscite,» soggiunsi, «vi fo padrona di tutti i miei averi.» Allora ella, sorridendo, rispose: — Voi siete il nostro padrone, e troppo bene io so quanto vi debbo; ma vi avverto che non posso ritornare vostro figliuolo nel primiero stato se non a due condizioni. La prima, che voi me l’accorderete in isposo; il secondo, che mi sarà lecito punire la persona che lo trasformò in tal guisa. — Circa al primo patto,» le dissi, «io l’accetto di tutto cuore, anzi vi prometto di donarvi molti beni per voi in particolare, indipendentemente da quelli che destino a mio figlio. Insomma, vedrete come saprò ricompensare il grande servigio che da voi attendo. Circa al patto che risguarda mia moglie, anche questo accetto. Una donna che fu capace di commettere azione sì rea, merita in vero d’essere castigata ed io ve l’abbandono, acciò ne facciate quanto più v’aggrada. Solo vi prego di non torle la vita. — Or via,» replicò essa, «io la tratterò nel modo stesso ond’ella trattò il figliuol vostro. — Acconsento,» diss’io, «ma anzi tutto restituitemi il figlio.
«Allora la giovanetta pigliò un vaso pieno d’acqua, pronunciò su di esso alcune parole ch’io non compresi, e voltasi all’animale, — O vitello,» gli disse, «se tu fosti creato dall’Onnipotente e sovrano signore del mondo quale or sembri, rimanti sotto tal forma; ma se tu sei uomo, e fosti cambiato in vitello per incantesimo, riprendi il tuo naturale aspetto con permissione del sovrano Creatore.» Sì dicendo, versò l’acqua sopra di lui, e tosto egli riassunse l’antica forma.
«— Figlio, mio caro figlio!» sclamai tosto, abbracciandolo con un trasporto che non seppi reprimere; «fu Iddio che ci mandò questa fanciulla per distruggere l’orribile sortilegio dal quale eri avvinto, e vendicarti del male recato a te ed a tua madre. Io non voglio dubitare che la gratitudine non ti consigli a prenderla in moglie, siccome io già ne diedi parola.» Egli acconsentì con gioia; ma prima di sposarsi, la fanciulla cambiò mia moglie in una cerva, ed è questa che voi qui vedete desiderai ch’ella assumesse cotal forma, anzichè un’altra più dispiacevole, acciò potessimo vederla nella famiglia senza ribrezzo.
«Da quel tempo, mio figlio restò vedovo e si mise a viaggiare; essendo omai trascorsi vari anni senza ch’io ne abbia nuova, mi son posto in cammino per rintracciarlo; e non volendo affidare ad alcuno la custodia di mia moglie, mentr’io sarei andato in cerca di lui, stimai opportuno di condurla ovunque con me. Ecco la mia storia e quella di questa cerva. Non è dessa da porsi fra le più sorprendenti e maravigliose? — Lo concedo,» disse il genio, «e mercè sua t’accordo il terzo della grazia di questo mercadante.
«Quando il primo vecchio, o sire,» continuò la sultana, «ebbe finito il suo racconto, il secondo che conduceva i due cani neri, voltosi al genio, gli disse: — Or io mi accingerò a narrarvi le avventure mie e di questi due cani neri. Son certo che la mia storia vi parrà ancor più stupenda di quella poc’anzi narrata. Ma quando l’avrò finita, m’accorderete voi il terzo della grazia di questo infelice? — Sì,» rispose il genio, «quando la tua storia sia superiore a quella della cerva.» Ottenuto il consenso, il secondo vecchio cominciò di tal guisa...»
Ma Scheherazade, nel proferire queste ultime parole, scorgendo il giorno, cessò di parlare. — Oh cielo, sorella,» disse Dinarzade, «quanto mi sembrano strane queste avventure. — Sorella,» rispose la sultana, «esse non sono da paragonarsi a quelle che mi restano a narrarvi la prossima notte, se il sultano, mio signore e padrone, ha la bontà di lasciarmi in vita.» Schahriar non rispose; ma alzatosi, recitò la sua preghiera, e recossi al consiglio, senza dare alcun ordine contro la vita della leggiadra Scheherazade.
NOTTE VI
Venuta la sesta notte, il sultano e la sua sposa si coricarono. Dinarzade destossi all’ora consueta, e chiamò come il solito la sultana. Schahriar allora disse: — Bramerei udire l’istoria del secondo vecchio e dei due cani neri. — Son pronta ad appagare la vostra curiosità, o sire, » rispose Scheherazade. « Il secondo vecchio, » proseguì ella, « voltosi al genio, così cominciò la sua storia.
Note
- ↑ La legge civile presso i Maomettani riconosce egualmente legittimi i figli che procedono dalle tre specie di matrimoni permessi dalla loro religione, secondo la quale si può lecitamente acquistare, noleggiare o sposare una o più donne, di guisa che se un uomo ha un figlio dalla schiava prima di averne dalla sposa, il figlio della schiava è riconosciuto pel primogenito, e gode degl’inerenti diritti ad esclusione di quello della legittima consorte.
- ↑ Così chiamano i Musulmani le due sole feste d’obbligo ch’essi abbiano nella loro religione. Sono feste mobili, che nello spazio di trentatrè anni cadono in tutti i mesi dell’anno, essendo l’anno musulmano lunare. La prima di queste feste si celebra il primo giorno della luna, che segue quella del Ramazan, ossia quaresima dei maomettani. Questo Bairam dura tre giorni, e può paragonarsi tutt’insieme alla Pasqua degli Ebrei, al nostro carnevale ed al capo d’anno. S’immolano agnelli o buoi; ed è a questa cerimonia che la festa deve il nome di oïd el courbân (festa dei sagrifici.) Il piccolo Bairam (oïd saghir) si celebra il primo giorno del mese di chaw il, in occasione della fine dei digiuni del Ramazan.