Le Mille ed una Notti/Storia d'un Pazzo
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA D’UN PAZZO.
«— Io era mercatante: possedeva un grosso magazzino pieno d’ogni sorta di merci dell’Indie del massimo valore, e faceva un esteso e vantaggioso commercio. Un giorno, una vecchia, recitando la sua corona, entrò in casa mia, si pose a sedere, e domandò se avessi belle stoffe dell’Indie. Gliene mostrai una bellissima pezza, che molto le piacque, e della quale mi chiese il costo. — Cinquecento pezze d’oro,» risposi. Cavò la borsa, e contatami la somma, se ne andò colla stoffa, sulla quale io guadagnai centocinquanta pezze d’oro. Tornò essa il giorno dopo, e chiestami una pezza simile, me la pagò del pari generosamente; in una parola, per quindici giorni di seguito venne a fare i medesimi acquisti, pagandomi colla stessa regolarità. Il decimosesto, essendosi presentata secondo il solito, scelse una pezza di drappo, e disponevasi a pagare, quando si avvide d’aver dimenticata la borsa. — Mercante,» mi disse, «ho lasciato a casa il danaro. — Signora,» le risposi, «ciò non vi trattenga dal portar via questa roba. Se tornate, me la pagherete; in caso diverso, mi stimo troppo felice di potervi offrire questa bagattella.» La donna ricusò la mia offerta, ed invano cercai astringervela. Scambiate molte cortesi parole per persuaderci reciprocamente, ella mi disse: — Non ci intenderemo mai, a meno che non acconsentiate a venire voi medesimo a casa mia per ricevere l’importo delle vostre merci; chiudete dunque il magazzino, e seguitemi.» Feci ciò che desiderava e ci mettemmo in via. Giunti vicino alla sua casa, la vecchia stacossi dalla cintura un fazzoletto, dicendo: — Bisogna che vi copra gli occhi con questo fazzoletto.» Ne chiesi la ragione. — Vi sono nella nostra contrada, colei rispose, «parecchie donne sedute ai balconi, e potrebbe accadere che la vista loro vi innamorasse, poichè questo quartiere della città racchiude varie damigelle di mirabile avvenenza, che sedurrebbero anche un religioso, ed io temerei molto per la quiete del vostro cuore. —
«Mi prestai volontieri alle voglie della donna, e continuammo così il nostro cammino sino alla sua porta, che ci fu aperta sull’istante. Restituitomi dalla mia guida l’uso degli occhi, volsi gli sguardi intorno, e mi vidi in una casa adorna con tutta la magnificenza d’un palazzo imperiale. La vecchia m’indicò una camera, pregandomi d’entrare; io obbedii, e rimasi meravigliato, scorgendovi tutte le pezze di stoffa che le aveva vendute; lo stupor mio s’accrebbe quando vidi avvicinarsi due damigelle che, lacerata in due parti una di quelle pezze, se la divisero. Ciascuna bagnò il pavimento con acqua di rose ed altri profumi, fregandolo quindi colla stoffa, sinchè divenne lucido come oro. Andarono poi a prendere in una stanza vicina cinquanta sedili, distesero su ciascuno di questi una ricca coperta con cuscini di tessuti preziosi, ed avvicinato quindi un gran divano, e ricopertolo d’un tappeto e di cuscini di broccato d’oro, ritiraronsi. Poco dopo, molte damigelle, in numero pari a quello delle sedie, discesero a due a due dalla scala, e ciascuna venne a porsi sopra uno di quei cuscini. In fine, inoltrossi, seguita da dieci giovani beltà che la collocarono sul divano, una dama molto più leggiadra e riccamente vestita di tutte le altre.
«Confesserò, o signore, che alla sua vista tutti i sensi m’abbandonarono, talchè non seppi celare la emozione che producevano in me la sua bellezza e le rare perfezioni delle quali andava ornata; ma essa, senza accorgersi dell’effetto che produceva su di me, intertenevasi lietamente colle compagne.
«D’improvviso chiamò la madre, entrata la quale: — Hai condotto quel giovane mercatante?» le chiese. — Sì, figliuola, ed è pronto a servirti. — Presentamelo.» La vecchia venne da me, e presomi per mano, mi condusse dalla figlia, seduta sul divano. Il mio contegno, che annunziava imbarazzo e rispetto insieme, la fece sorridere; mi salutò con aria graziosa, e comandando che mi portassero presso a lei una sedia, mi fe’ cenno di sedere; obbedii con molto turbamento.
«La dama allora cominciò a cianciare e scherzare con me. — Che cosa vi pare,» mi chiese, «del mio aspetto e della mia avvenenza? Mi stimate degna della vostra tenerezza, e mi prendereste per compagna? — Come mai,» risposi, «oserei lusingarmi di tanto onore, io che non sono neppur degno di servirvi? — Parlate con franchezza,» ella soggiunse, «e non temete di nulla; il mio cuore è tutto per voi.» Simili parole m’incantarono; ma mi smarriva in congetture, e non sapeva immaginare come avessi potuto meritarne il cuore e la mano. Frattanto, ella continuava a parlarmi con tal grazia e dolcezza, che in fine mi feci coraggio. — O prodigio di beltà!» le dissi, «se lo vostre parole sono sincere, dirò col proverbio: Il tempo più favorevole è il presente. — Non vi può essere,» ripigliò ella, «giorno più propizio per la nostra unione. — Ma come posso io offrirvi una dote conveniente? — Il prezzo della stoffa che fidaste a mia madre; ciò basta. — Oibò! è cosa insufficiente. — Non desidero di più. Mando in questo stesso punto a cercare il cadì ed i testimoni, e saremo uniti senz’altro; se vorrete sottomettervi ad una condizione che esigo. — E qual è?» ripigliai io. — Che mi apparterrete per intero, non rivolgendo mai veruna tenera parola, nè veruna carezza ad altra donna.» Aderii di buon cuore ad una condizione che pareami sì facile ad adempiere, e noi fummo irrevocabilmente congiunti. Dopo la cerimonia, la mia sposa fece servire caffè e sorbetti, distribuì regali alle sue donzelle, ai testimonii ed al cadì, e quindi li congedò.»
NOTTE DLXXIV
«— Non poteva rinvenire dal mio sbalordimento, e chiedeva ancora a me medesimo, se quanto m’accadeva sotto gli occhi non fosse un sogno. Intanto, mia moglie avendo dato ordine agli eunuchi, che la servivano, di condurmi al bagno, fui accompagnato in un appartamento d’indescrivibile eleganza, il cui pavimento venne coperto di tappeti a vari colori, sui quali sedetti e mi spogliai. Entrato poi nel bagno, fui profumato di deliziosi odori, e quando ne uscii, gli eunuchì mi strofinarono di essenze preziose, presentandomi quindi ricchi abiti, de’ quali mi copersi per recarmi alla gran sala del palazzo, dove m’attendea la mia sposa, più bella e sfarzosamente vestita assai di prima. Mi sedette al fianco, e mi guardava con un sorriso sì seducente, che mi fu impossibile di moderare i miei trasporti. Così passammo dieci giorni nella gioia più inebbriante, scorsi i quali, mi si presentò all’animo la memoria di mia madre. - È molto tempo,» dissi alla consorte, «che sono assente di casa, e che mia madre non m’ha veduto; quanto dev’essere inquieta della mia lontananza! Permettete ch’io vada a trovarla, e conceda qualche istante a’ miei affari. — Nulla vi trattenga,» rispos’ella con bontà; «potete vedere ogni giorno la vostra madre, ed occuparvi de’ vostri negozi; esigo però che la vecchia ogni volta vi accompagni.» Acconsentii a tutto.
«La vecchia legommi un fazzoletto sugli occhi, mi condusse al luogo dove me li aveva bendati in occasione del mio arrivo in quel misterioso soggiorno, e lasciandomi, disse: — Tornerete qui verso l’ora della preghiera; io sarò ad attendervi,» Mi recai da mia madre, che trovai immersa nel duolo ed in amaro pianto per la mia assenza. Appena però mi vide, corse fra le mie braccia, e strinsemi al seno, versando copiose lagrime di gioia. — Madre,» le dissi, «moderate il vostro dolore, giacchè la mia assenza m’ha condotto alla fortuna ed alla felicità.» E le narrai l’occorso. — Ah figliuol mio!» sclamò ella; «voglia Iddio proteggerti sempre; ma almeno vieni a trovarmi ogni due giorni: un tal termine è anche troppo lungo per la mia tenerezza.» Mi recai al magazzino dove mi occupai, secondo il solito, sino a sera. All’ora della preghiera, tornato al luogo convenuto, trovai la vecchia la quale mi ricondusse al palazzo, usando però prima la precauzione di bendarmi gli occhi. Mia moglie mi ricevette colla premura consueta, e per tre mesi continuai ad andare ogni giorno, tornando nella medesima guisa, senza poter giungere a conoscere la donna da me sposata, benchè lo splendore, la profusione delle ricchezze e la pompa che mi vedeva intorno, me ne infondessero il più vivo desiderio.
«Finalmente trovai l’occasione di parlare da solo ad una delle schiave negre di mia moglie, e la interrogai intorno alla sua padrona. — Signore,» quella rispose, «singolare n’è la storia; ma non oso narrarvela per paura che non mi faccia mettere a morte.» La pregai ad istruirmene, giurandole il segreto, ed allora mi parlò in tai sensi: «— Un giorno, andando la mia padrona per distrarsi ad un bagno pubblico, passò per caso dalla via nella quale si trova il vostro magazzino. Era un venerdì: voi vi stavate elegantemente vestito, discorrendo con un amico. Essa vi vide, l’amore s’insignorì del suo cuore, ma niuno si accorse dell’emozione che le faceste provare. Rientrata in palazzo, divenne trista, pensierosa, e smarrì l’appetito; talchè costretta a mettersi a letto, ne disparve la freschezza, il sonno l’abbandonò, e già cadeva in una debolezza inquietante. Sua madre, giustamente agitata di quel suo stato, uscì in cerca d’un medico; ma avendo incontrata per istrada una vecchia signora di molto spirito ed esperienza la consultò, e tornò con lei a casa.
«Quella signora toccò il polso all’inferma, le fece varie interrogazioni, e tosto si avvide che non aveva verun dolore fisico. Pensò quindi che l’amore fosse» l’origine della sua malattia, ma non volle palesare le sue congetture alla di lei presenza, e partì, dicendo alla mia padrona: — Se Dio permette, sarete in breve guarita: tornerò domani, e vi recherò un rimedio infallibile.» Appena fuor della stanza dell’inferma, prese in disparte la madre, e le disse: — Mia buona signora, non vi turbato per ciò che sono per dirvi: vostra figlia ama, e non potete guarirla se non unendola all’oggetto della sua passione.» Partita la dama, la madre tornò al letto della figliuola, incalzandola con ripetute domande; ma non fu se non in capo a venti giorni di preghiere e d’istanze che riuscì a vincere la pertinace resistenza della mia padrona, ed ottenere una confessione da cui il suo pudore ripugnava. Voi sapete il resto. Tale è la storia della mia padrona, e non dimenticherete che non bisogna palesarla giammai.» Glie lo promisi, e continuai a vivere coll’adorabile mia consorte in seno ai piaceri più vivi e puri. Ogni giorno andava a trovare mia madre e ad attendere al negozio; la sera tornava, condotto, secondo il solito, dalla mia suocera: molti mesi trascorsero così. Un giorno che stava seduto in bottega, passò per la via una giovane, la quale cercava di vendere un gioiello di fantasia, adorno di perle, diamanti e pietre preziose. Si cominciò dall’offrirgliene cinquecento pezze d’oro, aumentando successivamente sino a novecentocinquanta. Io osservava tutto in silenzio; infine quella giovane mi si avvicinò, e: — Signore,» disse, e tutti i mercatanti m’hanno detto un prezzo qualunque: voi solo non m’avete offerto nulla, e neppur badato a me. — Non ho nessun bisogno di quel gioiello,» risposi. — Non fa nulla, dovete offrire. — Poichè lo volete assolutamente, aggiungo cinquanta pezze d’oro, che formeranno le mille giuste.» Essa accettò, ed io rientrai nel magazzino onde pagarla. Era mia intenzione di presentare tal acquisto a mia moglie, cui stimava fosse per essere gradito. Allorchè volli contare il denaro alla giovane, costei lo rifiutò dicendo: — Ho da farvi una richiesta: non desidero altro pagamento fuor del favore d’imprimervi un bacio sulla guancia.» La singolare proposta mi sorprese ma, pensando che un bacio era comodissimo mezzo di pagare tal somma, accondiscesi. Avvicinatasi pertanto quella giovine, mi diede un bacio, ma poi mi morsicò con tutta la forza, e fuggì precipitosamente, abbandonandomi il gioiello.
La sera, tornato dalla consorte, che trovai seduta sull’aureo sedile, vestita di scarlatto, ne vidi l’aspetto sdegnato. — Dio voglia che tutto vada bene!» dissi fra me. Pure me le accostai, e presentatole il gioiello, sperando che quella vista valesse a dissiparne il mal umore: — Mia cara,» le dissi, «accetta questa preziosa coserella; l’ho comprata per te.» Essa lo prese, lo esaminò da tutti i lati, e mi chiese con accento freddo insieme e severo, se lo avessi proprio comprato per lei. — Ne attesto il cielo,» risposi; «è per te sola che l’ho comprato, e mi costa mille pezze d’oro.» A tali parole, mi lanciò uno sguardo irato, e chiese cosa significasse la ferita che aveva sulla guancia. Rimasi annichilito.
«Mentre cercava di rimettermi, ella chiamò la sua gente, fe’ loro un cenno, e portarono il cadavere di una giovane, cui era stata tronca e collocata la testa in mezzo al corpo. Riconobbi i lineamenti della donna che avevami venduto il gioiello, e mia moglie allora mi disse: — Non so cosa fare di tali puerilità; ne ho assai più del bisogno; ma ho voluto conoscere se saresti fedele all’impegno assunto di non mai volgere ad altra donna il minimo de ’tuoi pensieri, ed ho mandato questa giovane per provarti. Tradisti la tua promessa: esci dunque dalla mia presenza, e non ricomparirmi più dinanzi. —
«Appena mia moglie ebbe pronunciate sì fulminanti parole, la vecchia, postomi il fazzolelto sugli occhi, mi condusse al solito sito. — Allontanati, sciagurato!» sclamò, e disparve. La deplorabile mia avventura fece su di me tal effetto, che mi misi a correre per le strade qual demente, gridando: — Ah! che bellezza! quanta grazia! e perchè mai tutto ho perduto?» Talchè il popolo, credendomi pazzo, mi condusse a questo spedale, ove rimasi fino ad oggi. — «La storia di quei giovane commosse vivamente il sultano, il quale cadde in una profonda meditazione che durò alcuni istanti, e poi disse al visir: — Per quel Dio che m’investì del sovrano potere, se tu non discopri la moglie di questo giovane, la pagherai colla tua testa.» L’altro chiese tre giorni per fare le sue indagini, ed il sultano li concesse.
«Il visir condusse con sè il giovane mercatante, e cercata indarno per due giorni la casa di quella signora s’informò alla fine da lui se riconoscerebbe il sito in cui gli si bendavano gli occhi, e la porta alla quale venivagli sciolto il fazzoletto. Avendo risposto affermativamente, condusse infatti il ministro ad una porta, dove questi bussò. Si aprì tosto, ed i servi, riconoscendo il visir, e visto con lui il giovane, rimasero sgomentati, o corsero a prevenirne la padrona, la quale, chiesto al ministro di quali ordini fosse latore, e sentendo come il sultano desiderava che si riconciliasse collo sposo, rispose esser suo dovere di obbedire alle reali brame; laonde il giovane fu ricongiunto alla sua donna, ch’era figlia d’un antico sultano del Cairo, e fatto prudente, visse poi sempre felice colla tenera e gelosa sua metà.»
Qui finì Scheherazade la novella con sommo dispiacere del consorte; essa gli promise di narrargli la notte seguente un’altra storia, raccontata al medesimo sultano da un altro pazzo di quello stesso ospizio, ov’erasi recato una seconda volta per sollazzo.
NOTTE DLXXV
STORIA
DEL SAGGIO SOLITARIO E DEL SUO ALLIEVO
RACCONTATA AL SULTANO DA UN ALTRO PAZZO.
— In una celletta della principale moschea della città viveva un uomo dotto e pio, il quale aveva scelto quel ritiro per dedicarsi interamente allo studio ed alla meditazione. Era d’uopo d’un’occasione straordinariissima per deciderlo ad uscir dal suo asilo.
Viveva da più anni quella solitaria vita, allorchè, recatosi da lui un giovanetto, lo pregò di riceverlo in qualità d’allievo oppure di schiavo. Piacque il costui aspetto all’eremita, talchè gli chiese quali ne fossero i