Le Mille ed una Notti/Avventure di Mohammed Sultano del Cairo
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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AVVENTURE
DI MOHAMMED SULTANO DEL CAIRO.
«Al mio ingresso nel mondo, era miserabile, e non aveva peranco gustato veruno de’ piaceri della vita, quando, avendomi il caso reso padrone di dieci pezze d’argento, risolsi di spenderle a divertirmi. Nella mia età, e nello stato di privazione in cui aveva sempre vissuto, simile somma parevami una fortuna. Mi diressi dunque verso il mercato principale, coll’intenzione di procurarmi le cose necessarie per fare un pasto dilicato e sontuoso, e già stava esaminando, fra tutte le provvisioni offerte a’ miei sguardi, ciò che più lusingasse la mia ghiottornia, allorchè vidi passare un uomo inseguito dalla plebaglia con fischiate e sarcasmi. Quel povero diavolo conduceva, legato ad una catena di ferro, un enorme scimiotto, offrendolo di cederlo per dieci pezze d’argento. Spinto da un impulso onde non mi seppi render conto, feci acquisto di quell’animale, e lo condussi a casa. Mi fu allora di grave imbarazzo il procurarmi il sostentamento necessario per me e lo scimiotto. Stava riflettendo alla mia posizione, quand’ecco l’animale fa alcuni salti, e lo veggo in un istante trasformato in un giovane bello come la luna nella decimaquarta notte del suo corso. — Signor Mohammed,» mi disse costui, « tu hai dato, per possedermi, le dieci pezze d’argento che costituivano tutta la tua fortuna, ed ora pensi ai mezzi di procurarci da vivere entrambi. — Lo dicesti: ma in nome d’Allah, d’onde vieni? — Non farmi interrogazioni; ecco una pezza d’oro: prendi, e provvedi ai nostri bisogni.» Feci quant’ei disperava, comprai l’occorrente da cena e passammo allegramente la sera.
«La mattina dopo, il mio compagno m’indusse a cambiar dimora, prendendone una più civile, ed io, accaparratane una nel più bel quartiere della città, mi vi recai subito con lui. Mi diede dieci pezze d’oro per comprare tappeti e cuscini, ed al mio ritorno, gli trovai davanti una balla piena d’abiti superbi, de’ quali avendomi ingiunto di vestirmi, l’obbedii; — ne indossai uno, e trovai cento pezze d’oro in ciascuna tasca. Lieto di portare abiti sì ricchi, mi complimentò egli sul mio garbo, e volle quindi incaricarmi d’andar a portare un presente al sultano ed a chiedergli in matrimonio per me la sua figliuola. — Non temere,» mi disse; «tale domanda ti sarà immediatamente accordata. —
«M’avviai dunque verso la reggia, seguito da uno schiavo che il generoso mio amico aveami acquistato.
«Il palazzo del sultano era pieno d’una folla di grandi, d’ufficiali e di guardie, i quali, alla vista de’ pomposi miei abili, chiesero rispettosamente che cosa desiderassi. Risposi di voler parlare col sultano. Le guardie m’introdussero, ed io, fatte le riverenze d’uso, consegnai al principe il pacco ch’eragli destinato, dicendo: — Si degna vostra maestà accettare questo debole presente? Certo esso è indegno di lei, ma sta in relazione colla scarsità de’ miei mezzi.» Aperto l’involto, vi trovò un abbigliamento regale compiuto, di stupenda ricchezza. Colpito di maraviglia, il sultano sclamò: — Non ho veduto nulla di simile, nè ho mai possedute sì magnifiche vesti. Le accetto: ma che mi chiedi tu in compenso di si ricco donativo?— Possente principe, il mio più caro voto è quello d’imparentarmi con voi, sposando l’incomparabile vostra figliuola, quel prezioso gioiello dello scrigno della bellezza. —
«Il sultano, voltosi allora verso il visir: — Che cosa debbo fare in quest’occasione? — Sire, - mostrategli il vostro più prezioso diamante, e domandategli se ne possegga uno eguale per farne un regalo nuziale a vostra figlia. — Se ve ne presentassi due,» dissi allora al sultano, e mi concedereste ciò che vi chieggo? — Senz’alcun indugio.» Partii portando meco il diamante, onde mostrarlo in modello al mio benefico genio, e gli partecipai quant’era accaduto. Esaminata ch’egli ebbe la gemma: — Il giorno declina,» mi disse, «ma domani te ne procurerò dieci affatto simili, e le porterai al tuo re.» E mi tenne parola; in meno d’un’ora mi recò i diamanti, coi quali tornai al palazzo. Il sultano, abbagliato dallo splendore delle gemme, consultò di nuovo il suo ministro intorno alla condotta da tenere. — Sire,» questi rispose, «voi gli chiedeste un solo diamante, ed egli ve ne porta dieci; credo che dobbiate concedergli la mano di vostra figlia. —
«Il sultano fece chiamare i cadi e gli effendi, i quali, compilato l’atto di matrimonio, me lo consegnarono. Tornai quindi a casa, e feci vedere quel documento al giovane. — Sta bene,» mi disse; «or va a compiere la cerimonia, ma ti raccomando caldamente di non consumare il matrimonio senza mio permesso. — I vostri desiderii sono ordini per me,» risposi.
«Venuta la notte, entrai nell’appartamento della principessa, ma mi tenni a rispettosa distanza, senza dirle una sola parola, sino alla mattina, che, auguratole il buon giorno, presi da lei commiato. Così feci la seconda notte e la terza, finchè, offesa dalla mia freddezza, se ne dolse colla madre, la quale informò il sultano della mia strana condotta.
«Mi fece questi chiamare, e dimostrandosi vivamente sdegnato, mi minacciò di morte se affettassi ancora simile disprezzo verso la sua figliuola. Mi sollecitai allora di andare a partecipar l’accaduto al mio amico, ed egli mi comandò che, quando mi trovassi nuovamente solo con mia moglie, dovessi chiederle un braccialetto che solea portare al braccio destro, e venir quindi a portarglielo, assicurandomi che, dopo ciò, sarei con essa felice. La sera dunque, appena entrato nell’appartamento nuziale, la pregai, facendole noto il motivo della mia richiesta, di sciogliersi il braccialetto; ella lo fece immediatamente, ed io m’affrettai a recarlo al mio benefattore. Di ritorno al palazzo, mi posi a letto colla sposa (così almeno credeva), e vi rimasi fino alla mattina seguente. Ma si giudichi dello sbalordimento e del dolor mio, quando, svegliandomi, mi trovai coricato nel modesto mio letticciuolo di prima, spoglio dei ricchi miei abiti, e quando vidi in terra il misero bagaglio che componeva ogni mio avere prima dell’incontro del maledetto scimiotto. Rimesso un po’ dal turbamento, mi vestii in fretta ed uscii di casa, coll’amarezza nell’anima, piangendo il ben essere del quale aveva sì poco tempo goduto, e torturandomi il cervello per cercare i mezzi di poterlo ricuperare. Incamminatomi verso il palazzo, vidi un giocoliere che teneasi schierate davanti alcune carte scritte, e dicea la buona ventura ai passeggeri. Mi accostai, e fattagli una riverenza, ch’ei cortesemente mi rese, dopo avermi con attenzione rimirato, sclamò: — E che! quel maledetto scellerato t’ingannò adunque, e ti rapì la tua moglie dal talamo nuziale? — Aimè! sì,» risposi. Fattomi quindi cenno d’aspettare un istante e sedergli accanto, allorchè si fu dissipata la folla che lo attorniava — : Amico,» soggiunge, «lo scimiotto che comprasti per dieci pezze d’argento, e che cangiossi in uomo, non appartiene all’umana schiatta: è un genio malefico, perdutamente invaghito della principessa che sposasti: egli non poteva avvicinarsele, finchè essa portava al braccio destro un braccialetto che racchiudeva un possente incanto, e si è servito di te onde procurarsi quel talismano. Ora egli si trova appo alla principessa. Ma io distruggerò in breve il suo potere, e metterò gli uomini ed i geni benefici al sicuro dalle sue infernali imprese. —
« Ciò detto, mi consegnò un biglietto suggellato. — Va nel tal luogo,» mi disse; « attendi, ed osserva tutto ciò che ti si accosterà. Non perderti di coraggio, e quando vedrai inoltrarsi un gran personaggio, seguito da numeroso corteo, presentagli questa lettera, ed egli compirà ogni tuo desiderio.» Presi il biglietto, partii, e dopo aver camminato tutta la notte e la metà del giorno seguente, giunsi al sito indicatomi dal giocoliere. Attendendo quivi il resto del giorno e parte della notte, scopersi finalmente da lungi un vivo chiarore che parea dirigersi verso di me, e quando mi fu abbastanza vicino per poterlo distinguere, vidi più uomini che portavano fiaccole, dietro a’ quali veniva una comitiva numerosa che indicava un principe potentissimo. Tremai, ma la riflessione, mi restituì il coraggio, talché rimasi al mio posto, vedendo passarmi vicino processionalmente tutto quel corteo; ed ecco in fine il sultano de’ geni, circondato da una corte brillante. M’avanzai allora con coraggio, e prosternatomi, gli presentai lo scritto, ch’egli aprì e lesse ad alta voce; esso era così concepito:
« « Principe de’ geni, il latore della presente trovasi nel più profondo dolore. Sta in te di trarnelo e vendicarlo d’un nemico possente; ma guai se prontamente non lo soccorri! Addio. » »
« Letto quel foglio, il capo dei geni fece chiamare uno de’ suoi messaggeri, e gl’ingiunse di condurgli davanti senza dilazione l'ente malefico che aveva incantata la figliuola del sultano del Cairo. Infatti, un’ora dopo il reo si trovava già alla presenza del gran Genio, il quale, vedendolo, gridò: — Spirito maledetto, perchè facesti l’infelicità di quest’uomo?
«— Potente sovrano,» rispose il demone, «l’amore ispiratomi dalla principessa è la sola cagione della mia colpa. Quel suo braccialetto racchiudeva un incantesimo che m’impediva di avvicinarmele, ed io, per distruggere tale ostacolo, mi servii di quest’uomo. Posseggo ora la mia diletta, ma la rispettai. — Restituisci all’istante il braccialetto,» riprese il capo dei geni, «affinchè costui possa riprendere la sua donna, o ti faccio mozzare il capo.» A quei detti, il reo genio, che discendeva dalla razza più reproba, arse di rabbia, ed audacemente sclamò: — No, non la restituirò giammai, e niuno fuor di me possederà la principessa!» Appena proferite tali parole, tentò spiccare il volo, ma non potè farlo.
«Il gran Genio impose a’ servi d’incatenarlo, e strappatogli poscia il braccialetto, gli fu tagliata la testa. Appena ebbi, quel prezioso amuleto nelle mani, tutti i geni disparvero, ed io, trovatomi adorno come prima dei ricchi abiti datimi dal preteso giovinetto, mi avviai verso la città. Giunto alle porte del castello, fui riconosciuto dalle guardie e dai cortigiani, i quali, trasportati di gioia, sclamarono: — Eccolo; è desso: ecco il nostro principe che avevamo perduto!» Quando m’ebbero presentati i loro ossequi, entrai nell’appartamento della principessa, la quale dormiva di profondo sonno, nell’atteggiamento stesso in cui l’aveva lasciata al momento di mia partenza. Tornai a cingerle il braccialetto, e pel subito effetto dell'incanto essa si destò mandando un grido di sorpresa e di gioia. Vivemmo poi perfettamente felici sino alla morte del sultano, il quale, non avendo figliuoli, mi dichiarò suo successore. Ecco l’origine della mia fortuna. —
«Avendo il sultano del Cairo terminato il racconto, il suo uditore gli esternò tutto l’interesse ispiratogli dalla sua storia, ed allora: — Fratello,» disse il re, «ammira i decreti della Provvidenza, e non iscoraggiarti; aspetta che piaccia all’Onnipotente di rivelarti i suoi misteri. Ma poichè abbandonasti il tuo regno, ti offro nel mio la dignità di visir. Se vuoi, vivremo insieme come amici e fratelli.» Il principe acconsentì, ed il sultano, rivestitolo d’una ricca pelliccia, gli consegnò il suggello, il calamaio e gli altri emblemi della nuova sua dignità, e diedegli un palazzo ammobigliato sontuosamente e circondato di magnifici giardini. Il visir entrò immediatamente in carica, tenne il suo consiglio due volte al giorno, e mise tanta imparzialità nella decisione delle cause portate innanzi a lui, che in pochissimo tempo acquistossi alta riputazione di giustizia e probità; e tanta era la fiducia in lui riposta, da farlo scegliere ad arbitro di tutti i litigi e rispettarne mai sempre i consigli. Così visse più anni, godendo della fiducia del suo sovrano, e tanto anch’egli felice nella propria condizione, che più non ambi un sol istante all’impero.»
NOTTE DLXXIII
— Una sera il sultano, colto da un accesso di melanconia, mandò a cercare il visir, e gli disse: — Ho l’animo talmente inquieto, che nulla può ricrearmi. — Entrate nel vostro gabinetto,» rispose il ministro, «a mirarvi tutte le vostre gioie; quella vista potrà distrarvi.» Il principe seguì il consiglio, ma non si trovò meglio. — La mia tristezza è la medesima,» tornò a dire al ministro, «ed il soggiorno del mio palazzo non mi reca alcun sollievo. Travestiamoci, ed andiamo a passeggiare per la città.» Indossarono abiti da dervis arabi, ed allontanatisi dalla real magione, dopo aver alcun tempo errato a caso, trovaronsi presso uno spedale di pazzi. Entrativi, e vedendo un uomo che stava leggendo ad un suo compagno: — È cosa sorprendente,» disse fra sè il sultano; poi, voltosi a quell’uomo: «È per cagion di follia che sei qui rinchiuso?» gli chiese. — Signore, non son pazzo; ma le mie avventure sono così straordinarie, che se si dovessero incidere su tavole di diamante, sarebbero agli altri un’utile lezione. — Mi fai venir la voglia di conoscerle,» disse il sultano. — Uditele adunque,» ripigliò l’uomo che leggeva, e tosto cominciò di tal guisa: