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«Il sultano, voltosi allora verso il visir: — Che cosa debbo fare in quest’occasione? — Sire, - mostrategli il vostro più prezioso diamante, e domandategli se ne possegga uno eguale per farne un regalo nuziale a vostra figlia. — Se ve ne presentassi due,» dissi allora al sultano, e mi concedereste ciò che vi chieggo? — Senz’alcun indugio.» Partii portando meco il diamante, onde mostrarlo in modello al mio benefico genio, e gli partecipai quant’era accaduto. Esaminata ch’egli ebbe la gemma: — Il giorno declina,» mi disse, «ma domani te ne procurerò dieci affatto simili, e le porterai al tuo re.» E mi tenne parola; in meno d’un’ora mi recò i diamanti, coi quali tornai al palazzo. Il sultano, abbagliato dallo splendore delle gemme, consultò di nuovo il suo ministro intorno alla condotta da tenere. — Sire,» questi rispose, «voi gli chiedeste un solo diamante, ed egli ve ne porta dieci; credo che dobbiate concedergli la mano di vostra figlia. —

«Il sultano fece chiamare i cadi e gli effendi, i quali, compilato l’atto di matrimonio, me lo consegnarono. Tornai quindi a casa, e feci vedere quel documento al giovane. — Sta bene,» mi disse; «or va a compiere la cerimonia, ma ti raccomando caldamente di non consumare il matrimonio senza mio permesso. — I vostri desiderii sono ordini per me,» risposi.

«Venuta la notte, entrai nell’appartamento della principessa, ma mi tenni a rispettosa distanza, senza dirle una sola parola, sino alla mattina, che, auguratole il buon giorno, presi da lei commiato. Così feci la seconda notte e la terza, finchè, offesa dalla mia freddezza, se ne dolse colla madre, la quale informò il sultano della mia strana condotta.

«Mi fece questi chiamare, e dimostrandosi vivamente sdegnato, mi minacciò di morte se affettassi ancora