Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo XIII
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Kitab
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CAPITOLO XIII
Kitab.
Non ostante gli sforzi prodigiosi compiuti dai cavalli e la fretta dei cavalieri, la notte li sorprese a una quarantina di chilometri da Kitab, nei dintorni del minuscolo e ormai deserto villaggio di Iskander.
Animali e uomini erano così sfiniti da quella marcia, che durava da quasi quarant’otto ore, da rendere impossibile una maggiore avanzata.
Hossein e Tabriz, che non volevano rovinare completamente le loro cavalcature, dalle quali attendevano preziosissimi servigi nell’attacco ai briganti della steppa, si videro quindi costretti a dare il segnale della fermata.
D’altronde non pareva che i russi avessero già investita Kitab perchè, anche poco prima del tramonto, avevano incontrate immense greggi di montoni e lunghe file di cammelli che fuggivano verso occidente, senza però troppo affrettarsi, mentre invece non avevano ancora scorto nessun gruppo di cosacchi dell’avanguardia.
Essendo state le dieci o dodici capannucce di fango secco, che costituivano il minuscolo villaggio, abbandonate dagli abitanti, la scorta senz’altro le occupò, legando i cavali, intorno ai pali che erano piantati dinanzi alle porte.
— Ripartiremo dopo la mezzanotte, — disse Hossein a Tabriz e ad Abei. — Cinque o sei ore di riposo saranno bastanti per i nostri uomini e per i nostri cavalli. —
Cenarono alla lesta, colle provviste che erano rinchiuse nei sacchetti di pelle appesi alle selle, poi tutti si stesero al suolo divisi in gruppi e non tardarono ad addormentarsi, essendo affranti.
Due uomini soli non avevano chiusi gli occhi: Abei e l’usbeko che Hossein e Tabriz avevano raccolto quasi nudo nella piccola foresta dell’Amu-Darja.
Durante la corsa, quei due uomini si erano già scambiate parecchie occhiate e qualche rapido cenno, come se già da tempo si conoscessero e attendessero l’occasione propizia d’incontrarsi.
Il nipote del beg, che doveva essere impaziente di trovarsi solo coll’usbeko, quando si fu ben assicurato che suo cugino e Tabriz dormivano profondamente, uscì silenziosamente dalla capanna e strisciò verso il primo gruppo di cavalli, dove si scorgeva vagamente, coricata fra le erbe, una forma umana.
— Dormono, — disse Abei sotto voce. — Che cosa significa la tua presenza qui, Hadgi. —
Il luogotenente del disgraziato mestvire si era prontamente alzato, girando all’intorno uno sguardo sospettoso.
— Ti aspettavo, signore, — disse poi, — per ricevere da te nuovi ordini. Noi non avevamo previsto l’invasione dei russi. Sai che stanno per assalire Kitab?
— L’ho appreso lungo il viaggio, — rispose Abei.
— Quella gente può guastare i tuoi affari, signore, ed è per questo che io ti ho aspettato sulle rive del fiume. Ero certo che Hossein ci avrebbe inseguiti e che sarebbe passato per quel guado, che d’altronde è l’unico che esista su cinquanta miglia di fiume.
— Hai giuocato una carta pericolosa.
— Perchè, signore? Hossein e Tabriz non mi conoscono ed ingannarli era cosa facilissima.
Non ho fatto altro che spogliarmi e nascondere le mie vesti e le mie armi in mezzo ad un folto cespuglio. Come hai veduto, hanno creduto a quanto io ho loro narrato e non hanno avuto il menomo sospetto.
— Sei un birbante intelligente, — disse Abei.
— Si fa quello che si può, signore, — rispose il bandito, sorridendo.
Ditemi ora dove devo condurre Talmà. Questi russi che s’avanzano rapidamente m’inquietano non poco.
— Non hai tu qualche rifugio fra le montagne di Kasret-Sultan?
— Vi sono lassù delle caverne meravigliose, signore, quantunque trasudino petrolio da tutte le parti.
— Tu entrerai in Kitab, attraverserai la città, mettendo bene in vista Talmà, e alla sera te ne andrai fra le montagne. Non vi sarà alcun pericolo.
Se anche la fanciulla griderà di essere stata rapita e che voi siete Aquile, nessuno se ne preoccuperà. Dirai che è una pazza che riconduci alla sua famiglia e poi hanno ben altro da fare quegli abitanti in questi momenti.
— Non comprendo però lo scopo di questa gita attraverso a Kitab.
— Non è necessario che tu per ora abbia maggiori spiegazioni. Quasi tutti i tuoi uomini mi conoscono, è vero?
— La sera che tu ti sei presentato al nostro accampamento, per proporci il tuo affare, signore, vi erano tutti e nessuno ha scordato il tuo viso.
— Lascerai dunque a Kitab un paio dei tuoi banditi, onde mi guidino più tardi al tuo rifugio.
— Bada, signore, che i russi calano rapidissimi e che se t’indugi, correrai il pericolo di farti assediare in Kitab.
— È quello che desidero, — rispose Abei.
— Non ti capisco.
— Non importa: a te deve solamente importare di guadagnarti la somma che t’ho promessa e che ti appartiene, ora che il mestvire è morto.
— L’ho saputo, — disse Hadgi. — Tuo zio è stato troppo crudele, però devo essergli riconoscente, perchè da luogotenente sono diventato il capo delle Aquile.
— Non ti lagnare dunque.
— Oh no, signore — disse il bandito.
— Ora vattene. Che siano già giunti a Kitab i tuoi uomini?
— Aspetteranno che li raggiunga, prima di entrare nella città.
— Allora spicciati.
- Addio signore: conta sulla mia fedeltà.
— E tu sui miei tomani — rispose ironicamente Abei.
Hadgi staccò un cavallo, gli avvolse la testa onde non nitrisse, balzò in sella e si slanciò attraverso la steppa, dileguandosi presto fra le tenebre.
— I russi giungono in buon punto, — mormorò Abei, quando il bandito fu scomparso. — Baba beg, non si sarà scordato di essere stato un giorno salvato da mio padre e mi aiuterà.
Ah!... Tu volevi tutto per te, cugino: la bellezza e la felicità, il coraggio e l’ammirazione di tutte le donne della steppa!... Ed a me, che sono pure figlio d’un beg, nulla? Almeno Talmà l’avrò, dovessi ucciderti!... Senza quella fanciulla che io ho amata segretamente prima di te, che cosa sarebbe la mia vita? Voi due non conoscete ancora Abei! —
Strisciò verso la capanna ed entrò senza far rumore, coricandosi sulla gualdrappa che gli serviva da tappeto.
Hossein e Tabriz dormivano sempre profondamente e di nulla si erano accorti.
Era appena passata la mezzanotte, quando i Sarti ed i Shagrissiabs si svegliarono; chiamandosi reciprocamente.
Hossein e Tabriz, destati da quel vocìo e dai nitriti dei cavalli, si alzarono prontamente uscendo all’aperto.
— In sella, — comandò il giovane. — All’alba entreremo in Kitab.
— Signore, — disse un Sarto, avvicinandogli, — manca il mio cavallo.
— E anche l’usbeko che hai raccolto, — disse un altro.
— Che vada a farsi appiccare dove vuole, — disse Tabriz. — Non inquietiamoci per la fuga di quel birbante. Montate e partiamo.
Quello a cui manca il cavallo salga dietro a qualche compagno.
Lesti od i russi giungeranno prima di noi. —
In meno di un minuto i cavalli furono insellati ed imbrigliati e la truppa riprese le mosse, sempre guidata da Tabriz.
La steppa, a poco a poco scompariva. Numerosi villaggi si mostravano, specialmente verso il sud, dove le terre erano solcate da affluenti dell’Amu-Darja; e giardini ricchi d’alberi, di prugni, d’albicocchi, di melogranati e anche di viti, cominciavano ad estendersi in tutte le direzioni.
Qua e là, in mezzo alle erbe, platani, betulle, pioppi, ulivi, querce, cedri e anche pini, formavano gruppi pittoreschi, specialmente intorno agli stagni, sorgendo fra colossali cespi di rose di China, coperti di fiori bianchi e rossi.
La banda s’affrettava. I cavalli ai quali quel breve riposo era bastato per rimetterli in gambe, galoppavano splendidamente, senza aver bisogno di venire aizzati.
Ai primi albori, Tabriz indicò a Hossein il profilo della catena dei Kasret-Sultan-Geb, che s’innalza dietro a Kitab e poco dopo una selva di esili minarati dalle cupolette scintillanti.
— Ci siamo, signore, — disse.
Hossein provò come una scossa e si portò una mano sul cuore.
— Che fra poco la riveda? — si chiese con angoscia.
— Se non ci hanno ingannati e se si trova veramente laggiù, noi la riprenderemo alle Aquile, signore.
Il nome che porta tuo zio è troppo noto nella steppa, perchè il nuovo Emiro di Kitab non lo abbia già udito risuonare ai suoi orecchi ed egli non si rifiuterà di aiutarci nelle nostre ricerche, specialmente se la nostra domanda sarà appoggiata da qualche migliaio di tomani, somma che apprezzerà assai in questi momenti.
— Lo conosci tu Djura-Bey?
— L’ho veduto più d’una volta, — rispose Tabriz.
— Che uomo è?
— Un ambizioso, che già più volte ha tentato di ribellarsi al suo padrone, l’Emiro di Bukara. Egli vorrebbe, a quanto sembra, imitare Yakub, l’antico luogotenente dell’Emiro, che dopo essersi fatto dichiarare dal popolo Atalek gazi, ossia difensore della fede, si è formato un bel regno a spese del suo signore, e dei chinesi della Duzungaria.
Disgraziatamente avrà da fare i conti coi russi e la finirà male.
— Noi non ci intrigheremo nei suoi affari.
— Eh!... Chissà, cugino, — disse Abei, che cavalcava al suo fianco. — Djura-Bey potrebbe domandare il nostro appoggio. cinquanta uomini, montati come lo sono i nostri, potrebbero essergli di grande utilità in questo momento.
— Rifiuteremo, — disse Hossein.
— E lui ti dirà che te la cerchi tu, Talmà.
— È certo che vorrà approfittare dell’occasione per rinforzare il suo piccolo esercito, — disse Tabriz. — D’altronde non mi spiacerebbe menare le mani sui russi.
— Vedremo, — concluse Hossein.
Kitab era ormai in vista e si spiegava dinanzi agli occhi dei cavalieri, trovandosi quella città su un’altura, al pari di Schaar, la sua vicina, pure ribellatasi all’autorità dell’Emiro di Bukara.
Si vedevano distintamente le sue moschee dipinte in bianco, colle cupole dorate, i suoi ridotti, le sue mura merlate ed i suoi splendidi giardini, divisi in vasti quadrati e cinti da terrapieni altissimi per rinforzare le difese della città.
Tabriz e Hossein stavano per dar l’ordine di sferzare i cavalli, quando in lontananza si udirono alcune scariche di moschetteria e alcuni colpi di cannone.
— I russi! — esclamarono entrambi.
— Affrettiamoci o giungeremo troppo tardi, — disse Abei, spronando impetuosamente il cavallo. — Vedo delle nubi di polvere verso il settentrione: là vi è qualche corpo di cavalleria.
— Allentate le briglie: ventre a terra! — gridò Tabriz.
I cinquanta cavalli, eccitati dalle grida e dai colpi di piede dei cavalieri, partirono a corsa sfrenata, facendo rimbombare il suolo che non era più coperto d’erbe. Pareva che un vero uragano passasse.
I colpi di fucile si seguivano regolari, segno evidente che quelli che facevano fuoco erano soldati perfettamente disciplinati, che non sparavano a casaccio e di quando in quando vi facevano eco delle detonazioni secche, poderose, che sembravano prodotte da racchette o da falconetti, piuttosto che da veri pezzi d’artiglieria.
Al di là della lunga distesa di giardini, s’alzavano di tratto in tratto nuvoloni di polvere, che in certi momenti offuscavano perfino la luce del sole. È già noto che tutto il Turchestan orientale e settentrionale è polverosissimo, e che basta un soffio d’aria od il galoppo di qualche squadrone di cavalleria per sollevare cortine immense d’una specie di sabbia quasi impalpabile, che ricade molto lentamente e che attraversa intere regioni prima di depositarsi.
Certamente un vivo combattimento doveva essersi impegnato, fra i cavalieri del Bek di Kitab e di quelli dello Schaar ed i cosacchi che il colonnello russo Miklalowsky, incaricato dal governatore generale del Turchestan di domare i ribelli, conduceva da Samarcanda.
Già le truppe di Hossein non distavano che poche centinaia di metri dalla torre sovrastante la porta di Ravatak, quando scorsero una nuvola di cavalieri scendere a galoppo sfrenato le alture, mentre sopra le loro teste scoppiavano delle granate.
— I Shagrissiabs! — gridò Tabriz. — Pare che abbiano avuto il loro conto se scappano in quel modo!...
Un sorriso comparve sulle labbra di Abei.
— Allah mi protegge, — mormorò fra i denti. — Era quello che aspettavo. Chi rifiuterà il nostro soccorso? —
I cavalieri del Bek di Kitab e quelli del Bek di Schaar giungevano a briglia sciolta, urlando ferocemente e volgendosi di quando in quando, per fare delle scariche, che non dovevano fare troppo danno ai russi, nascosti in mezzo al polverone.
— Lesti, amici! — gridò Hossein. — Giungeremo prima di loro! —
Con un ultimo slancio i cavalli superarono le ultime centinaia di metri e, varcato il ponte levatoio, irruppero sotto la porta di Ravatak, mentre sui ridotti della cittadella tuonavano le racchette ed i falconetti del Bek Djura bey.