Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo XII

Parte prima — Capitolo XII
Il Traditore

../Capitolo XI ../Capitolo XIII IncludiIntestazione 25 maggio 2013 100% Romanzi

Parte prima - Capitolo XI Parte prima - Capitolo XIII
[p. 105 modifica]

CAPITOLO XII.


Il Traditore.


Era mezzanotte quando la truppa, montata su cavalli freschi, quasi tutti di razza persiana, lasciavano l’accampamento avviandosi verso l’Amu-Darja.

La notizia ormai pienamente confermata che un corpo russo scendeva da Samarcanda per cinger d’assedio Kitab, li spingeva ad affrettarsi, non avendo alcun desiderio di venire di buona o di cattiva voglia coinvolti in quella campagna, quantunque tutti, da veri turchestani, nutrissero un odio profondo contro quegli insaziabili conquistatori, che allungavano le loro poderose zampe d’orsi su tutta l’Asia centrale.

Sapevano per pratica come finivano sempre quelle guerriglie ed a quali orrori si esponevano i disgraziati insorti contro lo strapotente e barbaro nemico.

Non fu che allo spuntare del giorno, dopo una corsa furiosa, velocissima, che la truppa giunse senza aver fatto cattivi incontri sulla via dell’Amu-Darja, nei pressi del guado conosciuto sotto il nome di Ispas.

L’Amu, che i turchestani chiamano anche Djicon, è il più grosso dei tre fiumi che solcano l’immensa steppa e che vanno ad ingrossare le acque del mar d’Aral.

Nasce da una delle più alte vette del Bolor, nel Pamir e scorre dapprima sotto il nome di Pani, svolgendosi attraverso regioni fertilissime, percorre tutta la steppa turanica, non ricevendo che pochi fiumiciattoli e, come abbiamo detto, va a scaricarsi nell’Aral dove forma un vastissimo estuario.

In quasi tutto il suo percorso le alte piante, che nella steppa [p. 106 modifica]non possono svilupparsi per la siccità che regna durante i mesi caldi, coprono le sue rive, producendo uno strano contrasto colle eterne erbe che per centinaia e centinaia di chilometri si susseguono ininterrottamente, con una monotonia desolante.

Platani di dimensioni colossali, querce, cedri, ginepri e micgasia, che lanciano il loro bellissimo stelo a cinque o sei metri, crescono a profusione, ma le piante che soprattutto interessano gli abitanti delle rive sono i rosai, i quali coprono in certi punti delle estensioni vastissime, raggiungendo sovente un’altezza di quindici piedi.

Come si sa, tutti i popoli orientali fanno un consumo enorme di acqua di rose. Si profumano le vesti e le barbe, bagnano, anzi inzuppano addirittura i fazzoletti delle persone che vanno a visitarli, ne mettono nell’acqua delle loro pipe e perfino nei loro pasticci dolci, sicchè dove quegli splendidi e profumati fiori allignano, vi è una ricchezza non indifferente da raccogliere.

Il luogo ove i cavalieri erano giunti, era una di quelli dove appunto i gentili fiori crescevano a profusione.

Sotto i faggi, le betulle ed i platani, che coprivano la riva del fiume, enormi rosai si ergevano, tutti coperti di fiori bianchi, carnicini, gialli, rossi, scarlatti, i quali esalavano profumi inebbrianti che i cavalieri aspiravano avidamente, essendo quello per modo di dire, il loro profumo nazionale.

— Se qui ci sono tante rose, troveremo ben presto anche i raccoglitori del capo degli Illiati, — disse Tabriz, fermando il suo cavallo.

— Aspettiamo che le tenebre si diradino ed intanto andiamo a vedere se il guado si trova veramente qui. —

Mentre la scorta scendeva di sella, per concedere ai cavalli un po’ di libertà ed un po’ di riposo, ben meritato d’altronde dopo quella lunga galoppata, Tabriz, Hossein ed Abei si spinsero verso il fiume, passando sotto giganteschi platani che spandevano al di sotto delle loro fitte fronde, costantemente inumidite dalle acque, una deliziosa frescura.

L’Amu-Darja scorreva dolcemente, gorgogliando fra gli ammassi di giunchi che avevano ormai ingombrato buona parte del suo letto, formando qua e là minuscoli isolotti, sopra i quali volteggiavano numerose coppie di uccelli acquatici.

In quel luogo il fiume non era più largo di cento cinquanta [p. 107 modifica]metri e le sue acque, assai trasparenti, non avevano che qualche metro e mezzo di profondità, almeno fino ad un certo tratto dalla riva.

— Sì, è questo il guado, — disse Tabriz.

— L’hai indovinato, signore, — rispose in quel momento una voce che usciva da una grande macchia di rosai, accavallati confusamente gli uni sopra gli altri in modo da formare un colossale e meraviglioso cespuglio.

Tabriz si era subito voltato.

Un uomo, piuttosto vecchio, era sgusciato fra quell’ammasso di rose, tenendo in mano un cesto di vimini, di forma allungata, pieno già di fiori.

— Sei un Illiato di Sagadska? — gli chiese il gigante.

— Sì, signore.

— Ci manda qui il tuo capo, che ci diede ospitalità ieri sera, per chiederti se hai visto passare dei cavalieri.

— lo ho dormito come un orso questa notte, — rispose il raccoglitore di rose, — ma te lo potranno dire i distillatori che non hanno spenti i fuochi ieri sera.

Vuoi seguirmi? Non sono che a pochi passi, dietro a quel macchione di platani: guarda, si scorge il fumo trapelare attraverso le foglie.

— Guidaci e avrai una manata di pouls1.

— Vieni, signore, — rispose l’illiato, tutto lieto di ricevere una mancia.

Attraverso le fronde di quei giganteschi alberi, i tre cavalieri cominciavano infatti a scorgere colonne di fumo e bagliori prodotti da grandi fuochi brucianti sotto i lambicchi.

Ben presto giunsero in mezzo ad una spianata, dove una dozzina d’uomini, semi-nudi, anneriti dal fumo, madidi di sudore, con lunghe barbe ispide, s’affaccendavano intorno a sette od otto falò, sopra i quali bollivano immense caldaie di rame, piene di rose.

I distillatori turchestani e persiani, lavorano sul luogo ove le rose vengono raccolte, onde i fiori conservino tutto il loro profumo. Usano lambicchi affatto primitivi e caldaie della capacità di cento a centoventi litri.

[p. 108 modifica]I fiori, appena portati dai raccoglitori, vengono messi nell’apparecchio distillatore, nella quantità di nove a dieci chilogrammi, ai quali aggiungono in media cinque o sei volte il loro peso d’acqua.

Con questo sistema distillano non già l’essenza, bensì l’acqua di rose, la quale poi, per riuscire perfetta, ha bisogno di una nuova operazione o meglio d’una seconda distillazione.

Dopo la seconda bollitura, si vedono apparire piccoli globuli oleosi d’una tinta giallo-pallida. Il liquido rimasto si pone entro bottiglie dal collo lunghissimo, i globuli i quali costituiscono l’essenza e che si radunano alla superficie del recipiente, vengono raccolti mediante speciali cucchiai perforati.

Uno spazio di quaranta are, coperto di rosai, può dare durante le stagioni favorevoli, da mille ottocento a duemila chilogrammi di fiori, e di quegli spazi ve ne sono di più ampii sulle rive dell’Amu-Darja, — dai quali i distillatori possono trarre e con poca fatica da seicento a settecento cinquanta grammi di essenza.

Considerato che ogni grammo si paga, sia nel Turchestan che in Persia, circa una lira, si può facilmente comprendere quanto quell’industria sia produttiva, specialmente per uomini che assai di rado trovano il modo di guadagnare denaro nelle loro steppe.

Il capo dei distillatori vedendo apparire i tre cavalieri, guidati dal raccoglitore di rose, lasciò le caldaie, mosse loro incontro e li salutò cortesemente con un:

— Allah vi sia propizio! —

Informato su ciò che desideravano, l’illiato rispose subito:

— Dei cavalieri!... Dei banditi volete dire?... Quelli che sono passati ieri sera, dopo il tramonto, non erano persone oneste.

— Dopo il tramonto, hai detto? — chiese Hossein.

— Sì, hanno guadato il fiume alla luce delle stelle.

— Quanti erano?

— Un centinaio e mezzo per lo meno.

— Vi era una fanciulla con loro?

— Sì, cavalcava una giumenta ed era avvolta in un velo bianco.

— Non era fra le braccia di un uomo grosso e tarchiato?

— No!...

Però ho veduto anche quello e teneva la giumenta per le briglie.

[p. 109 modifica]— Piangeva la fanciulla?

— Non ho avuto tempo di osservarla. I cavalieri hanno attraversato frettolosamente l’Amu-Darja, scomparendo sotto gli alberi dell’opposta riva.

— Si sono accampati colà? — chiese Tabriz.

— Non te lo potrei dire, mio signore.

— Erano stanchi i loro cavalli?

— Mi parvero sfiniti.

— Padrone, — disse Tabriz, volgendosi verso Hossein, — partiamo senza indugio e guadiamo il fiume. Se i nostri animali non cadono, giungeremo a Kitab contemporaneamente alle Aquile.

— Vorrei raggiungerle prima e sterminarle tutte, — soggiunse il giovane, con impeto.

— Tu dimentichi, cugino, che essi sono in centocinquanta e tutti certamente coraggiosi, — osservò Abei, che tormentava nervosamente i suoi piccoli baffi, irsuti. — Ti hanno dato una prova lampante nell’assalto alla casa di Talmà.

— Fossero anche trecento, nessuno mi tratterrebbe di assalirli.

— Ben detto, signore, — disse Tabriz. — Piomberemo addosso a quei predoni, come la notte che i lupi ci scortavano. —

I cinquanta uomini in un baleno furono in arcione, scesero la riva, preceduti da Tabriz ed entrarono nel fiume le cui acque, come abbiamo detto, in quel luogo erano piuttosto basse.

La traversata dell’Amu-Darja fu compiuta senza incidenti, non essendovi nei corsi d’acqua del Turchestan nè coccodrilli, nè gaviali, come in quelli della non lontana India.

La truppa si trovava sul territorio del Khan di Bukara, lo stato più vasto della Tartaria Indipendente. Indipendente di parola, non di fatto, perchè anche su quella immensa regione che comprende varii Kanati, l’avida zampa dell’orso moscovita vi si è appoggiata.

Gli antichi scrittori arabi hanno chiamato quel territorio un paradiso terrestre e lo sarebbe forse, essendo fertilizzato dall’Amu-Darja e dai suoi affluenti, se non fosse abitato da un popolo nomade, dato al ladroneccio più sfacciato, stanziato solo nell’inverno nelle città e nei villaggi ed errante colle sue gregge nelle vaste pianure, durante le altre stagioni.

Samarkanda, che è la città più importante, ha avuto un passato [p. 110 modifica]splendido, essendo stata scelta come capitale dal famoso conquistatore asiatico Timur-Lent, meglio conosciuto sotto il nome di Tamerlano. Aveva allora una popolazione numerosissima ed era così potente da poter mettere in campo da sola ben sessantamila cavalieri ed i suoi trafficanti si spingevano fino alla Grande Tartaria Chinese, nel cuore del grande continente asiatico.

Oggidì, quantunque estenda ancora i suoi sobborghi nella meravigliosa valle del Sogd, quantunque abbia la sua accademia di scienze, traffichi ancora animatamente e abbia molte fabbriche, ove si tesse la seta più stimata dell’Asia, ha molto perduto del suo antico splendore al pari di Bukara, ove risiede per la maggior parte dell’anno il potentissimo e anche barbarissimo Khan, e che fu centro di uomini dotti e celebri non solo per l’Oriente, ma anche per l’Europa: vi fu il famoso Ebu-Sino, da noi chiamato Avicenna.

Era il momento, per la banda condotta dai due nipoti del beg e da Tabriz, di stare molto in guardia, perchè tutto il kanato, specialmente verso il fiume, è percorso incessantemente da orde di Usbechi e da Ghirghisi.

Tabriz, appena messo piede sulla riva opposta dell’Amu-Darja, fece fare alla truppa una seconda fermata, poi accompagnato dal solo Hossein, fece una galoppata sotto le altissime e frequenti piante, risalendo verso il settentrione.

— Che cosa cerchi, Tabriz? — chiese Hossein, vedendolo guardare attentamente la terra.

— Le tracce dei banditi. — rispose il gigante. — Per di qua devono ben essere passati e sarei ben lieto di trovarle. —

Continuarono ad avanzarsi sotto i platani e le betulle, che coprivano la riva, finchè un grido di trionfo sfuggì a Tabriz.

— Eccole!... —

Sul suolo, che era umidissimo in quel luogo, si scorgevano nettamente numerose impronte lasciate dagli zoccoli d’un grosso numero di cavalli.

Tabriz balzò a terra per meglio osservarle, quando Hossein lo vide rialzarsi prontamente e staccare il lungo archibugio che pendeva dalla sella del suo cavallo.

— Cos’hai, Tabriz? — chiese il giovine.

Il gigante invece di rispondere, gli fece segno colla mano di star zitto, poi armò il fucile appoggiando il calcio alla spalla e puntandolo verso un folto cespuglio che circondava la base d’un [p. 111 modifica]enorme platano. Hossein, temendo giustamente un improvviso attacco, trovandosi, come abbiamo detto, in un territorio frequentato dai banditi delle steppe, si era affrettato ad imitarlo.

— Che cos’hai veduto o udito dunque? — chiese il giovane impazientito, non vedendo comparire nessuno.

Un gemito che uscì dal mezzo del cespuglio fu la risposta.

— Vi è qualche ferito là dentro, — disse finalmente Tabriz. — Hai udito, signore?

— Sì. —

Tabriz s’avvicinò cautamente al platano e colla canna dell’archibugio mosse le fronde dei cespugli, dicendo:

— Mostra il tuo viso, amico; noi non siamo briganti. —

I rami subito si mossero ed un uomo piuttosto attempato, quasi interamente nudo, non avendo indosso che una camicia brandellata, comparve.

— Risparmiate la vita ad un povero uomo, — disse. — Allah ha proibito di uccidersi fra correligionari.

— Chi sei? — Chiese il gigante, abbassando il fucile.

— Un usbeko di Kitab.

— Che cosa fai costì così nudo?

— Sono stato assalito da una banda di briganti, derubato dei miei montoni che aveva qui condotti a pascolare, bastonato e per sopra mercato anche spogliato delle mie vesti.

— Quando?

— Ieri sera.

— Erano Aquile della steppa?

— Può darsi.

— Avevano una fanciulla con loro?

— Non l’ho veduta.

— Quanti erano quei briganti?

— Una ventina.

— Non ve n’erano altri nel bosco?

— Sì, mi pare d’aver udito dei cavalli a nitrire al di là degli alberi. Signore non lasciarmi qui solo, così nudo e senz’armi. Vi sono dei lupi e delle pantere fra queste macchie. —

Tabriz interrogò Hossein collo sguardo.

— Potrà servirci da guida, — rispose il giovane.

— Sali dietro di me, — disse il gigante all’usbeko. — Vedremo di darti qualche cosa per coprirti.

[p. 112 modifica]— Io sarò il tuo schiavo, — rispose il disgraziato, con voce gemente. — Oramai ho tutto perduto.

— Ti vendicheremo, — disse Tabriz. — Stiamo cercando appunto le Aquile. —

Salì in sella e dietro di lui montò l’usbeko, profondendosi in lunghi ringraziamenti.

Quando tornarono verso il guado, i Sarti ed i Shagrissiabs erano ancora in sella, pronti a riprendere la corsa.

Tabriz privò qualcuno della giacca, un altro d’una coperta, onde coprire l’usbeko, e mentre Hossein informava Abei dell’accaduto, si rimisero in cammino al piccolo trotto, dietro le tracce lasciate dalle Aquile.

Attraversata la zona che aveva un’estensione di poche centinaia di metri, la truppa ritrovò la steppa.

Quantunque il Khanato di Bukara sia infinitamente più fertile del Turchestan occidentale, non è privo di steppe, le quali si stendono per centinaia di miglia. Anche là si manifesta quel singolare fenomeno che si osserva nei territori dei Cosacchi e dei Curdi del mar Caspio.

Alla base delle montagne, le foreste cessano bruscamente per non ritrovarle che lungo le rive dei fiumi ed il suolo calcareo scompare per cedere il posto alla terra nerastra della steppa, sulla quale spuntano e crescono benissimo erbe e cereali, quando un po’ d’acqua li favorisce.

Tutti coloro che hanno percorso quelle pianure immense, si sono chiesti la soluzione di quello strano problema: perchè la steppa col suo manto di terra fertile, tanto più ricca, inquantochè non è mai stata coltivata, quindi ancora vergine, non produce alcuna pianta da fusto? I venti ardenti e troppo gelati che soffiano impetuosissimi su quelle sconfinate pianure, s’oppongono forse alla vegetazione arborescente?

Forse la spiegazione dello strano fenomeno lo si deve al fatto, più probabilmente, che lo strato di terra fertile non è più profondo di trenta o quaranta centimetri e che si basa su un fondo d’argilla compatta, impenetrabile alle radici delle piante.

Di passo in passo che la truppa s’allontanava dall’Amu-Darja, cominciavano ad apparire, specialmente inoltrandosi sempre più nel territorio bukarino, accampamenti intorno agli stagni.

Gruppi di tende nere, di forma conica, si mostravano di quando [p. 115 modifica]in quando, poi lunghe carovane di cammelli e torme immense di montoni, dalla coda grossissima, scortati da cavalieri armati e dall’aspetto poco rassicurante.

Erano per lo più usbechi e turchi, padri questi degli Osmani che hanno conquistata l’Asia Minore, l’Arabia e la Turchia europea, uomini fieri e bellicosi, che sono sempre in armi contro i ghirghisi ed i bukari.

Tutte quelle carovane si dirigevano verso la frontiera occidentale, con una certa fretta che colpì Tabriz.

— Si direbbe che fuggano dinanzi a qualche pericolo, — disse il brav’uomo a Hossein. — Vediamo di che cosa si tratta. —

Spinse il cavallo verso un gruppo di turchi che scortavano un centinaio di cammelli e che guardavano sospettosamente la truppa d’Hossein, chiedendo spiegazioni.

— I russi, — gli fu risposto.

— Sono già intorno a Kitab?

— Non ancora, ma fra poco.

— Bisogna affrettarsi, — mormorò il gigante, tornando verso i suoi compagni. — Corriamo il pericolo di rimanere tagliati fuori dalla città. —

Note

  1. Monete di rame che valgono un po’ più di cinque centesimi.