Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo XI

Parte prima — Capitolo XI
Il campo degli Illiati

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CAPITOLO XI.


Il campo degli Illiati.


Cominciava ad albeggiare sulla steppa. Gli uccelli s’alzavano fra le erbe e volteggiavano allegramente, trillando, sfuggendo velocissimi agli assalti fulminei dei falchi e degli sparvieri che piombavano, ad ali chiuse, dalle alte regioni dell’aria.

Cinquanta uomini, armati di lunghissimi fucili, di pistole e di kangiarri, con immensi turbanti e lunghe zimarre di color bruno e montati su piccoli cavalli villosi, si erano fermati dinanzi alla porta della casa occupata dal beg, allineandosi su quattro file.

Erano tutti uomini di statura piuttosto bassa, tarchiati, con spalle larghissime e lunghe barbe ispide e rossicce, i nasi arcuati come becchi di pappagalli, la pelle terrea e gli occhi da uccelli dai preda.

Molti erano Sarti, sudditi di Talmà; i più però appartenevano alle tribù nomadi dei Shagrissiabs, pastori e banditi ad un tempo, venuti dal Khanato di Bukara, attirati dal desiderio di divertirsi alle spalle dei ricchi sposi e di mostrare la loro bravura nelle corse dei cavalli, essendo i migliori cavalieri della steppa turanica.

Gente di fegato ad ogni modo, pronta a qualsiasi sbaraglio per un po’ di tomani, una moneta troppo preziosa in quelle pianure, dove l’oro è così raro.

Il beg, Hossein, Abei e Tabriz, svegliati dal fracasso prodotto dai cavalli, erano prontamente discesi sulla via, passando rapidamente in rassegna la truppa.

— Credo, Hossein, — disse il beg, — che con questi uomini potrai giungere senza troppi fastidi a Kitab, anche se è vero che i Russi marcino attraverso la steppa. Cerca di evitarli però e di non lasciarti cogliere entro le mura della città a menochè...

— Continua, padre.

Beg Djura bey non ti restituisca o ti faccia restituire Talmà. [p. 95 modifica]In tal caso ti lascio libertà di dare addosso a quegli odiati moscoviti.

— Va bene, padre.

— In sella, figliuol mio, e non dimenticarti che io aspetto il tuo ritorno con angoscia. —

Gli mise una mano sul capo e lo congedò, dicendogli:

— Hai la mia benedizione; Allah l’ha concessa alle mie mani. —

Hossein, Abei e Tabriz salirono sui cavalli, e la truppa partì al trotto, fra i saluti delle donne affollate sulle terrazze e gli spari dei Sarti, dirigendosi verso oriente, trovandosi Kitab nel Kanato dell’Emiro di Bukara.

Dieci minuti dopo, i cinquantatrè cavalieri galoppavano già sulla steppa, premurosi d’attraversare l’Amu-darja che è, si può dire, l’unico fiume che attraversa quelle sterminate pianure e che serve di frontiera alle tribù turcomanne indipendenti.

Fin dove giungevano gli sguardi non si scorgevano che erbe ed erbe.

Nella steppa gli abitanti sono piuttosto rari e non s’incontrano che là dove scorre qualche fiumiciattolo o dove si trova qualche stagno, non essendovi nelle altre parti acqua sufficiente per abbeverare i cammelli ed i montoni, i quali formano l’unica ricchezza delle tribù turaniche.

Distese immense che potrebbero nutrire mandrie sterminate, non contano nemmeno dieci famiglie nomadi, mentre vi potrebbero vivere comodamente centomila persone, perché quel suolo è tutt’altro che ingrato.

L’acqua non manca nel sottosuolo: basterebbe costruire dei pozzi artesiani e quelle lande, oggi inutili, potrebbero diventare il granaio dell’Asia.

La truppa procedeva su una lunga linea, ad un trotto moderato con Tabriz e Hossein alla testa. Abei invece, che pareva non amasse troppo la vicinanza del cugino, dopo i fatti avvenuti era passato in coda, col protesto di impedire che qualche cavaliere disertasse.

Hossein, in ventiquattro ore, pareva che fosse invecchiato d’un paio d’anni. Non era più il giovane ardente di prima, che cavalcava con una maestria da far invidia ai più famosi cavalieri della steppa, con quell’aria marziale che faceva tremare i banditi più audaci e che li metteva in fuga colla sua sola presenza.

[p. 96 modifica]Una cupa disperazione s’era impadronita di lui, accasciandolo completamente.

— Mio povero signore! — disse Tabriz, che l’osservava con profondo dolore. — Si direbbe che tu disperi del tuo destino.

— La luce rosea che mi irradiava fino a poche ore or sono, io non la scorgo più, mio buon Tabriz, — rispose il giovine, soffocando un singhiozzo. — Mi sembra che una notte eterna mi avvolga.

— Hai torto, signore. Alla tua età non si dispera mai.

— L’amavo troppo.

— E anche Talmà t’ama.

— Come potrà resistere, povera fanciulla, lontana da me? La costringeranno a dimenticarmi.

— Fra quattro giorni noi saremo a Kitab, signore, e tuo zio è un beg troppo noto, perchè il Beg Djura bey si rifiuti di renderti giustizia.

— E se fosse stato lui a farla rapire?

— L’affare sarebbe ben diverso allora; tuttavia io non credo che il Beg abbia ora tempo per occuparsi di Talmà, se è vero che i russi marciano già verso il khanato.

— Potessi sapere chi è il miserabile che me l’ha rapita!

— Lo scoveremo, non dubitare, padrone.

Sagadska conosce tutti i banditi della steppa e può dare qualche preziosa informazione sulla direzione presa dalle Aquile.

Egli tiene molti uomini sulle rive dell’Amu-Darja per la raccolta delle rose e quelli ci diranno se i rapitori l’hanno attraversato.

Padrone, non disperiamo e cerchiamo invece di guadagnare via. —

I cavalli mantenevano un galoppo abbastanza rapido, senza aver bisogno di essere eccitati: era d’altronde la loro andatura ordinaria, che potevano continuare per moltissime ore, senza nulla chiedere ai loro padroni prima del tramonto.

A mezzodì la banda fece una breve fermata sulla rive d’uno stagno, ombreggiate da quattro o cinque di quegli enormi platani turchestani, che hanno sovente una circonferenza di settanta piedi ed il cui legname duro e venato, più bello e superiore di quello dei nostri noci, serve a fabbricare bellissimi mobili.

Un paio d’ore dopo la truppa riprendeva le mosse, avanzandosi sempre più nel cuore della steppa. I cavalli, ben riposati e ben pasciuti, galoppavano con maggior slancio del mattino.

[p. 99 modifica]Tabriz, che conosceva la steppa a menadito, avendo vissuto molti anni al di qua ed al di là dell’Amu-Darja, conduceva ora la carovana orizzontandosi col sole, non avendo i turcomanni alcuna conoscenza della bussola, istrumento che forse non hanno mai veduto, e che d’altronde non è affatto necessario a quei nomadi, avendo l’istinto dell’orientazione al pari dei piccioni viaggiatori.

La regione, a poco a poco cominciava a diventare meno deserta. In lontananza, qualche gruppo di tende appariva; tende di forma conica, di feltro nero, perdute in mezzo alle erbe dove bande di cammelli e di montoni pascolavano in gran numero; poi su certi tratti sabbiosi qualche moschea screpolata, col suo minareto sottile, di colore bianco, spiccava fra tutto quel mare di verzura, indicando il luogo ove, chissà quante centinaia d’anni prima, una borgata e fors’anche una città popolosa era esistita.

Quelle rovine sono frequenti in certe parti della steppa, dove i vicini persiani hanno lasciato tante tracce della loro antichissima colonizzazione. Forse quello era il vero paese della terra sacra dei magi di Zoroastro, del Zend-Avesta, il paese dove Saadi e Hfar hanno poetato ed amato e dove Leilah ha sorriso.

Verso il tramonto, Tabriz, che già da qualche ora osservava attentamente il paese, come se cercasse qualche traccia, indicò a Hossein un gruppo di tende di colore oscuro, che sorgeva in una specie di oasi, dove crescevano rigogliose piante di melagrano, dalle frutta grossissime e assai stimate, outon bokhàra che producono susine eccellenti d’inverosimile grossezza, cotogni dal tronco enorme e ciliegi altissimi.

— Il campo dell’Emiro degli Illiati, — disse poi volgendosi verso Hossein, che l’interrogava cogli sguardi.

— È là che abita quel Sagasdka di cui tu mi hai parlato?

— Sì, signore.

— È un amico di mio zio?

— Un tempo hanno combattuto insieme contro i bukari ed i belucistani, — rispose Tabriz. — Se le Aquile della steppa sono passate attraverso il suo territorio, ce lo dirà subito.

— A quest’ora non si rammenterà più nemmeno il nome di Giah Aghà, — disse Abei, che aveva ripreso il suo posto in testa alla colonna. — Si dimenticano facilmente gli amici, nella steppa.

— Al contrario, signore, — rispose Tabriz, un po’ piccato. — [p. 100 modifica]Si ricordano forse più che altrove, avendone sovente bisogno per far fronte ai ladroni della pianura od ai soldati degli Emiri.

— Vedrai che non si degnerà nemmeno di riceverci nel suo accampamento e che ci tratterà come pezzenti sospetti.

Hanno ben altro da fare questi Illiati, che d’occuparsi delle Aquile e dei nostri affari.

— Sarà come tu dici, signore, — rispose Tabriz, — io però obbedirò alle istruzioni datemi da tuo zio.

— Mio zio crede troppo nelle amicizie, — rispose Abei, con tono ironico.

Tabriz lo guardò con una certa sorpresa, aggrottando leggermente la fronte.

Hossein, assorto nella sua tristezza, sembrava che non avesse udito nulla, anche perchè si era spinto più innanzi degli altri, frettoloso di giungere al campo degli Illiati.

— Tuo zio, signore, — riprese il gigante un po’ irato, — ha sempre saputo scegliere i suoi amici ed io, che sono più vecchio di te ne so qualche cosa. —

Nell’accampamento degli Illiati si era manifestato in quel frattempo un vivissimo movimento. La numerosa truppa dei cavalieri di Hossein, bene armati, doveva aver messo in apprensione quei nomadi, i quali avevano probabilmente fatto più volte conoscenza coi banditi della steppa della fame, ghirghisi, bukari e shagrissiabs.

I cammelli ed i montoni, che pascolavano a centinaia e centinaia per la pianura, venivano spinti a precipizio verso i recinti costruiti nei dintorni dell’accampamento, intanto che gruppi di uomini balzavano in sella dei loro cavalli, disponendosi sotto le piante, per tenersi al riparo dietro i grossi tronchi.

Gli Illiati sono tribù assolutamente nomadi che si distaccano un po’ dai turchestani vivendo esclusivamente sotto tende e cambiando luogo secondo le stagioni ed i bisogni dell’immenso loro gregge, che forma la loro principale ricchezza.

A principio della primavera scendono dalle montagne, che attraversano la parte meridionale del Khanato di Bukara e la Persia, e si espandono per la steppa turanica formando vasti accampamenti, del resto semplicissimi, posti di preferenza intorno ad uno stagno o sulle rive d’un torrente e riparati dal vento, temendo molto le cortine di sabbia.

[p. 101 modifica]I loro usi e le loro abitudini differiscono da quelle degli altri turchestani, alla cui razza d’altronde non sembra veramente che appartengano e richiamano al pensiero gli antichi tempi dei pastori patriarcali.

Gli uomini, che hanno tipo tartaro, più che turcomanno, sono tutti bellissimi, di alta statura e ben conformati; le donne godono fama di essere le più graziose della steppa.

Tabriz, che conosceva l’indole diffidente di quei nomadi, fece fermare la truppa e s’avanzò in compagnia d’Hossein, verso i giardini che circondavano l’accampamento, tenendo l’archibugio colle bocca volta verso terra:

— Dite al vostro Emiro che i nipoti del beg Giah Aghà chiedono ospitalità, — gridò, appena fu a portata di voce. — Sagadska non si rifiuterà di riceverli. —

Fra gli Illiati vi fu uno scambio di parole, poi un vecchio che aveva una lunga barba bianca e che mancava d’un occhio, si fece innanzi e, mentre i suoi uomini disarmavano, rispose:

— Che i nipoti del mio amico entrino nel campo: sono sotto la protezione delle leggi dell’ospitalità. —

La truppa, non avendo ormai più nulla da temere dopo quelle parole, s’avanzò sotto gli alberi, mettendo piede a terra e levando le briglie e le selle ai cavalli, mentre Tabriz ed i nipoti del beg entravano sotto una vasta tenda, sulla cui soglia li attendeva il capo della tribù, circondato da una mezza dozzina di ragazzine.

— Siete miei ospiti, — disse, invitandoli a farsi innanzi.

— Sei tu Sagadska? — chiese Tabriz.

— Io sono l’amico del beg Giah Aghà, — rispose l’illiato. — Che i suoi nipoti si siedano al mio fianco.

— Grazie della tua ospitalità, — gli rispose Hossein. — Noi siamo qui venuti perchè abbiamo bisogno da te di consigli e d’informazioni.

— Dopo la cena tu avrai quello che vorrai, — rispose l’illiato.

— Lascia ora che io compia i miei doveri d’ospitalità e non preoccuparti della tua scorta: avrà viveri e tende per riposarsi al coperto. —

Sotto la grande cupola di feltro era già stata stesa, su un vasto tappeto persiano, una tovaglia, su cui due giovani pastori avevano collocato parecchi tondi d’argento, lusso che solo un capo tribù poteva permettersi.

[p. 102 modifica]— Accomodatevi, — disse Sagadska. — Siete giunti in un buon momento, festeggiando oggi il dodicesimo anno della mia ultima figlia.

I servi erano tornati portando vasi e tondi carichi di cibi e di manicaretti che esalavano profumi appetitosi e che deposero dinanzi agli ospiti.

Tutti i popoli della steppa, quando hanno i mezzi sufficienti e ricorre qualche circostanza straordinaria, amano mangiare bene e la loro cucina non è così ordinaria come si potrebbe credere in individui che vivono all’aria aperta e sempre in pericolo, quantunque stupide prescrizioni del Corano la circoscrivano, vietando il maiale, la lepre anche e molti crostacei, perchè ritenuti impuri.

Il loro piatto forte è sempre però il montone che si arrostisce a pezzi con burro e grasso od intero se è giovane, dopo d’averlo ben imbottito di mandorle, di datteri, d’uva secca, di bacche e di rose, di pimento e di spezie diverse; il secondo è il pilat, composto di riso bollito, con pezzi pure di montone. Amano però molto anche i pasticci, che sanno preparare non meno bene dei persiani e anche la carne bollita, che condiscono con varie salse assai appetitose.

I cuochi del capo avevano fatto quella sera veri prodigi, servendo un gran numero di piatti, ai quali avevano tenuto dietro vasi pieni di magnifiche melogranate, grossissime, dolcissime e senza il granello interno, cotogni profumatissimi e poponi pesanti trenta o quaranta libbre, acquosi, dolci, e colla polpa rossa, bianca, gialla o verdognola.

Servito il caffè, il capo fece portare quattro bellissime pipe, per metà ripiene d’acqua profumata con essenza di rosa e la ciotola carica di quel fortissimo tabacco chiamato tumbak, che è così pregiato da tutti i popoli turanici.

— Ora ti ascolto, — disse Sagadska, quando le pipe cominciarono a funzionare, rivolgendosi a Hossein che aveva appena toccato cibo. — Leggo nei tuoi occhi una profonda tristezza, che sarebbe incompatibile colla tua età.

Quale disgrazia può aver colpito i nipoti del mio vecchio amico Giah Aghà?

— Mi hanno rapito ieri la fidanzata, nel momento in cui stavo per impalmarla.

[p. 103 modifica]— Chi? — gridò il vecchio.

— Le Aquile della steppa — aggiunse Tabriz, — e siamo venuti a chiederti se i tuoi uomini le hanno vedute. —

Il vecchio batté le mani chiamando ad alta voce:

— Mursa Rabat! —

Un giovane pastore, che indossava una corta zimarra di panno grossolano con i bordi gialli e maniche larghissime e alti stivali di pelle rossa, era subito entrato.

— Narra ai miei ospiti chi hai incontrato stamane.

— Un grosso numero di cavalieri che mi parvero ghirghisi e usbeki, — rispose il giovane. — E alla loro testa vi era un uomo di forme tarchiate che teneva fra le braccia una fanciulla...

— Talmà! — esclamò Hossein.

Il giovane guardò il nipote del beg come per chiedergli di chi volesse parlare, poi, ad un cenno del suo capo, proseguì:

— La fanciulla indossava un costume da sposa ed aveva sul capo la tiara di metallo.

— Era lei! — gridarono ad una voce Tabriz e Hossein, mentre Abei si mordeva le labbra.

— La tua fidanzata? — chiese l’Emiro degli Illiati.

— Sì, la mia Talmà, — rispose Hossein, facendo un gesto disperato.

— Calmati signore, — disse Tabriz, e ascoltiamo quest’uomo. Dove si dirigevano quei cavalieri?

— Verso levante, — rispose Mursa Rabat.

— Verso il fiume dunque?

— Sì, mio signore.

— Si dibatteva la fanciulla?

— Non mi parve.

— Viva lo era però.

— Sì, la vidi alzare un braccio, come per minacciare il cavaliere che la portava.

— A che ora li hai veduti?

— Verso mezzodì.

— Galoppavano forte?

— No, filavano a piccolo trotto e mi parve che le loro cavalcature fossero molto stanche, perchè alcune rimanevano sovente indietro.

— Ed erano molti? — chiese Hossein.

[p. 104 modifica]— Un centocinquanta per lo meno, — rispose il giovine illiato.

— Come possono essere diventati così numerosi? Quelli che mi hanno rapito Talmà non erano più d’una dozzina.

— La cosa è facile a spiegarsi, — disse Tabriz. — Si saranno riuniti a quelli che hanno fatto una dimostrazione armata contro il villaggio.

— Non sarà il numero che ci tratterrà dall’inseguirli, Tabriz, — disse il nipote del beg, con accento feroce.

— Sai dove vanno? — chiese Sagadska.

— A Kitab, — rispose Hossein.

— Che cosa vanno a fare colà? Ignorano dunque che i russi hanno lasciato Samarcanda in buon numero, con cannoni e falconetti, per calmare le idee bellicose di Djura e del bey di Schar?

— È dunque vero? — chiesero ad una voce Hossein ed Abei.

— Sì, miei cari ospiti; una forte colonna di moscoviti, comandata dal colonello Miklalosvky, con molta fanteria ed alcune sotnie di cosacchi, muove verso le due città, coll’ordine di prenderle d’assalto e di restituirle, domate, all’Emiro di Bukara. Tutti ne parlano nella steppa orientale e le informazioni che ho ricevute devono essere esatte.

— Allora noi non abbiamo tempo da perdere, signor Hossein, — disse Tabriz.

— Sì, se volete entrare in città prima che i russi la cingano d’assedio, — disse l’illiato. — Sono stanchi i vostri cavalli?

— Galoppano da stamane.

— Ne ho trecento intorno al campo, — proseguì il capo. — Scegliete i migliori e partite senza indugio o giungerete troppo tardi.

Per conto di chi è stata rapita la fanciulla?

— Del Beg Djura, sospettiamo, — disse Hossein.

Sagadska scosse il capo.

— Uhm! — fece poi. — Lui ed il bey di Schar hanno troppe faccende che pesano sulle loro spalle per ora. No, sarà per qualche altro, tuttavia non vi sarà difficile ritrovare la ragazza. Kitab è poco popolosa e Sckar lo è meno ancora.

Volete un consiglio da amico?

— Parla, — disse Hossein.

— Rivolgetevi direttamente a Beg Djura, ditegli che sono io [p. 105 modifica]che vi mando e che se le sue cose andranno male, troverà sempre un rifugio fra le tribù degli Illiati.

Partite, amici e varcate al più presto l’Amu-Darja al guado d’Ispas, là dove i miei uomini raccolgono le rose.

Può darsi che da loro abbiate qualche notizia dei rapitori.

Venite a scegliere i cavalli: sono di buona razza e correranno meglio di quelli delle Aquile. —