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centi di rugiada; le ferule innalzavano i loro ombrelli diafani; manti di fiori rosei coprivano le macchie; il puleggio e la rosa selvatica imbalsamavano l’aria tiepida e pura.

Le montagne lontane circondavano il panorama come d’un immenso diadema di zaffiro, più azzurro del cielo stesso.

Maseda1, la cavalla, procedeva tranquilla per i sentieri aperti fra l’erba delle tancas; benchè non fosse tormentata da mosche, si sbatteva la coda ora su un fianco, ora sull’altro, annusando l’erba ogni volta che Francesco rallentava il freno. Pareva sentisse la gioia della bella giornata, il piacere dell’aria libera: quando attraversava qualche piccolo corso d’acqua, vicino al quale i narcisi e la menta esalavano un profumo eccitante, apriva le narici e fremeva tutta; e rispondeva con un nitrito se qualche vacca affacciava il muso bianco e nero sulla muriccia della tanca e muggiva bonariamente.

Maria, abbandonata sulle spalle di Francesco, si lasciava cullare dal passo tranquillo e cadenzato della cavalla, e provava una dolcezza quasi triste; il tepore del sole, il profumo delle erbe, e tutto quel fascino di solitudine e d’azzurro, le davano un torpore voluttuoso di sogno.

Tra le fratte coperte di rose selvatiche ella udiva gli uccelli trillare d’amore, le vacche muggire, qualche mosca iridata ronzare ebbra di sole e di miele; vedeva le piccole farfalle diafane, verdi e rosse, nere

  1. Mansueta