La scotennatrice/XX. Sulla montagna
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XX.
Sulla montagna.
Dieci minuti dopo, i quindici uomini si trovavano fuori dalla galleria, in piena luce, seduti in mezzo all’alta erba che aveva ormai invasa la spianata della miniera, avvolgendo le montagnole di carbone, le tettoie ed i vagoncini.
John, Turner, Harry e Giorgio, divoravano con avidità veramente bestiale i salsicciotti affumicati e le gallette di maiz, che i cow-boys avevano messo a loro disposizione, inaffiando gli uni e le altre con delle lunghe sorsate di eccellente wisky.
Intorno a loro, si erano seduti i bravi volontari delle frontiere, pronti ad offrire le loro pipe e la loro provvista di tabacco.
Il sergente, il quale aveva già mandato uno dei suoi ad avvertire il grosso della truppa di raggiungerli in quel luogo, si faceva in quattro per offrire ai disgraziati le borracce più o meno piene dei suoi uomini.
— Corpo d’una balena!... — esclamò finalmente Turner, il quale fino allora non aveva fatto altro che lavorare formidabilmente di denti. — Ecco una cosa assolutamente straordinaria.
«Chi avrebbe detto, dieci ore fa, che io avrei potuto mettere nel mio corpo, invece che dei pezzi di carbone, dei salsicciotti di bisonte affumicati? Che cosa dite voi, John?
— Io non dico niente — rispose l’indian-agent, che aveva ancora la bocca piena. — Sono solamente stupito di vedere il sole brillare sulle vette dei Laramie.
— Anche questa è una bella fortuna e la dobbiamo... ad una canaglia!... Non vi offenderete, spero, Sandy Hook, o meglio, se vi piace di più, Mocassino Rosso, di questo titolo poco onorifico che vi affibbia un ex-sceriffo.
— Niente affatto, mister Turner — rispose il bandito sorridendo. — Siete nel vostro diritto, nella vostra qualità di vecchio rappresentante della giustizia.
— Ora però faccio onorevole ammenda e devo dirvi che in fondo siete un brav’uomo. Un altro del vostro stampo non avrebbe fatto quello che voi avete fatto per noi e ci avrebbe lasciati crepare tranquillamente o rabbiosamente in fondo a quella dannata miniera.
«Vi assicuro che quella dannata Minnehaha ci ha fatto passare dei momenti spaventosi.
— Vi credo, mister.
— Dov’è ora quella maledetta? — chiese John, i cui occhi si erano iniettati di sangue, udendo nominare la Scotennatrice.
— Ha raggiunto ormai Toro Seduto, sull’alta montagna — rispose il bandito.
— Io ho fatto un giuramento — proseguì l’indian-agent, con voce sibilante. — Quello di strapparle la capigliatura, così avrò quella della madre e della figlia e nè l’una ne l’altra, se è vero, potranno entrare mai più nelle praterie del loro Manitou.
— Se vorrete io vi offrirò l’occasione, mister John.
— Voi!...
— Sì, perchè io torno verso gli Sioux, per guadagnarmi la grazia promessami dal generale Custer.
«Voglio rivedere il mio Maryland!... Voglio rivedere mia madre, prima che ella chiuda gli occhi per sempre, maledicendomi.
«Se morrò nell’impresa, tanto peggio per me. Contro il destino non si lotta.
L’indian-agent prese una grossa pipa che il sergente gli offriva senza asini nè ragli, aspirò un paio di boccate, poi, guardando fisso il bandito, gli disse:
— Spiegatevi.
— Il generale mi ha incaricato d’una missione pericolosissima, che io cercherò, nel limite delle mie forze, di condurre a buon fine.
— Di uccidere forse Toro Seduto?
— No, di salvare un uomo, se sarà ancora vivo.
— Chi è?
— Il tenente Giorgio Devandel.
L’indian-agent era balzato in piedi, mandando un vero grido d’angoscia. Anche i due scorridori si erano alzati come spinti da una molla.
L’indian-agent era balzato in piedi mandando un vero grido di angoscia.
— È vero dunque che l’hanno preso? — gridò John.
— Il generale me l’ha affermato.
— Per centomila ragli d’asino!... — esclamò il sergente. — Non lo sapevate dunque? Sono già quindici giorni che gl’indiani l’hanno portato via, dopo d’avergli massacrato quasi tutta la scorta.
— Giorgio... il figlio del mio colonnello... preso... Ah!... Disgraziato!... Minnehaha lo scotennerà come sua madre ha scotennato suo padre!... — gridò John.
— Non corriamo tanto — disse il bandito. — Si è saputo al campo che Toro Seduto lo tiene sempre prigioniero, forse per scambiarlo più tardi con qualche sakem, quindi non vi è, almeno per ora, alcun motivo d’inquietarsi.
— Ma se Minnehaha giunge al campo di Sitting-Bull reclamerà la capigliatura di quel disgraziato!...
— Io non so ancora, innanzi tutto, se la Scotennatrice abbia potuto raggiungere il gran campo degli Sioux, e poi Toro Seduto non è uomo da cedere ai capricci d’una donna, si chiami pure la Scotennatrice.
— E voi avete promesso al generale di andarlo a salvare?
— La mia grazia vale un tale rischio — rispose Sandy Hook.
— Giorgio, Harry — disse John. — Noi un giorno abbiamo salvato quel bravo giovane e sua sorella. Vi sentireste in grado di ritentare la prova?
— Come lo abbiamo strappato dalle mani degli Arrapahoes, lo strapperemo anche da quelle degli Sioux — rispose Harry. — È vero, fratello?
— Offro la mia vita ed il mio rifle — rispose Giorgio.
— Corpo di centomila foche!... — esclamò Turner. — Ed io non ci conto per nulla in tutto questo affare? Mastro John, dimenticate gli amici voi?
— Come, anche voi, signor Turner? — gridò l’indian-agent.
— E che vorreste che facessi al campo americano? Sapete bene che io sono nato per le avventure.
— E pei colpi di fucile — aggiunse il sergente — specialmente in un paese dove ogni quindici passi occorre mettere il dito sul grilletto del fucile.
— Mister — disse Sandy Hook — non si rifiuta un rifleman della vostra forza. Conosco troppo bene le prodezze del campione degli uccisori d’uomini.
— Ed allora arruolatemi — rispose l’ex-sceriffo.
— Lo siete di già — disse il bandito — e per me sarà un grande onore avervi in mia compagnia.
— Ed io vi prometterò di non farvi appiccare, come meritereste.
— Grazie, mister.
In quel momento si udì un grande scalpiccio di cavalli. I quaranta uomini lasciati a guardia dell’altra bocca della miniera giungevano a gran galoppo.
— Signori — disse il sergente — la mia missione è finita. Io vi seguirei volentieri sull’alta montagna per prestarvi man forte e, per centomila ragli d’asino, vi prometterei di fare bravamente il mio dovere, ma il generale non mi ha dato carta bianca su tutto questo affare e devo ricondurre i miei uomini all’accampamento.
«Spero però che ci rivedremo ben presto, poichè le truppe sono pronte ad affrontare i guerrieri di Toro Seduto ed a dare loro la lezione che si meritano.
«Che cosa vi occorre?
— Quattro buoni cavalli, quattro carabine, delle pistole e relative munizioni — disse Turner.
— Non avete che da scegliere — rispose il sergente.
Poi, guardando lord Wylmore, il quale pareva che non si fosse nemmeno accorto della presenza dell’indian-agent e dei suoi scorridori, tutto occupato a cercare i suoi bisonti, aggiunse:
— E di quell’originale che cosa debbo fare? Condurlo con me o gettarlo in qualche cañon.
— Lasciatelo venire con noi — rispose Sandy Hook. — Può esserci ancora utile.
— Hum!... Che un asino...
— Vada a ragliare negli orecchi di quell’inglese — disse prontamente Sandy Hook.
— È una carabina di più che conterà sul nostro attivo — disse John. — È freddo, ma coraggioso, e nè le pelli-rosse, nè le belve, nè i bisonti gli fanno paura.
«Basta saperlo prendere... pel suo spleen.
— Che il diavolo si porti tutti questi eccentrici d’oltre Atlantico — borbottò il sergente. — Se però è un valoroso, lasciamolo passare.
I cavalli, le carabine, le pistole ed i pochi viveri che ancora rimanevano al mezzo squadrone dei volontari erano pronti.
Sandy Hook si avvicinò all’inglese e gli disse:
— Milord, io vado a cacciare i bisonti insieme ai miei amici, sugli altipiani dei Laramie.
— Bisonti!... — esclamò l’eccentrico uomo. — Aho!... Benissimo!...
— Vi avverto però che dovremo scambiare, e forse molto spesso, dei colpi di carabina cogl’indiani.
— Io non aver mai avuto paura degli indios.
— Eppure vi avevano attaccato al palo quegli indios che voi disprezzate tanto.
— Me aver preso a tradimento. Quali essere i vostri amici?
Il bandito mostrò i tre scorridori e Turner i quali erano già in sella e stavano scambiando gli ultimi saluti col comandante del mezzo squadrone.
Lord Wylmore fece una brutta smorfia.
— Vostri amici essere grandi briganti.
— È una vostra fissazione, milord — rispose il bandito. — Sono dei valorosi e senza di loro non riuscireste mai a raggiungere le bande dei bisonti emigranti.
— Io venire, ma non intendere mettere più fuori altre sterline. Io aver già pagato vostri amici.
― Nessuno vi domanderà un penny, milord, nemmeno se dovreste e vi facessero uccidere anche cento bisonti.
― Aho!... Benissimo!... Cento bisonti e io guarire mio spleen.
— Seguitemi.
Raggiunsero i tre scorridori e Turner, salutarono il sergente ed i bravi cow-boys, poi partirono subito al piccolo trotto verso gli altipiani, mentre il mezzo squadrone ridiscendeva la grande catena per far ritorno all’accampamento di Custer.
Sandy Hook e l’indian-agent, che conoscevano perfettamente quelle montagne, si erano messi alla testa del drappello.
L’inglese, il quale serbava ancora un profondo rancore verso i suoi briganti, come si ostinava a chiamarli, si era messo in coda per evitare l’occasione di scambiare con loro qualche parola.
Nessuno d’altronde se l’era presa calda per quell’isolamento.
Tutto il giorno i sei cavalieri s’addentrarono nel cuore della gigantesca catena, fiancheggiando dei cañones profondissimi e scroscianti di acque, ed attraversando magnifiche foreste formate quasi esclusivamente di pini e di noci neri, poi verso sera piantarono il loro primo accampamento sul ciglione di un altipiano, ricco di foltissime erbe, così alte da potervisi nascondere dentro perfino degli uomini a cavallo.
Densi vapori si erano accumulati, dopo il mezzodì, sulle cime delle alte sierre, turbinando in balìa d’un vento fortissimo, sicchè, scomparso il sole, una oscurità profonda si era estesa sulla catena. Nessuna stella si era mostrata e tanto meno la luna.
— Brutta notte — brontolò Sandy Hook, mentre mettevano in libertà i cavalli e stendevano la grossa coperta di lana che serve di gualdrappa ai cavalli, e che colla sella per origliere serve di letto da campo a tutti gli scorridori. — È una vera notte d’imboscate e di sorprese difficili ad evitarsi.
«Se gl’indiani ci hanno veduti salire, difficilmente ci lasceranno tranquilli, malgrado i miei ornamenti di tacchino selvatico.
Poi si era subito voltato verso i suoi compagni, dicendo: — Che nessuno accenda il fuoco, nemmeno la pipa.
— Non saremo così sciocchi — rispose l’indian-agent — quantunque mi rincresca non poco a fare il mio quarto di guardia senza consumare una carica di tabacco.
— Ed a me non meno che a voi, mister John, ma io penso che la pelle vale più d’una pipata.
— Ne sono convinto.
— Si cena? — chiese Turner. — A ventre pieno spiace meno andarsene all’altro mondo dove non si sa se vi siano dei salsicciotti di prateria per quelli che arrivano da questo vecchio mondaccio.
Dopo d’aver ascoltato parecchi minuti, si gettarono sulle loro coperte, e messisi a fianco le carabine e le pistole, consumarono con discreto appetito la loro magra cena consistente in salsicciotti di bisonte affumicati ed in vecchie gallette di maiz abbastanza acide.
Il vento era andato intanto aumentando e mischiava i suoi ululati ai muggiti delle acque precipitanti lungo i mille e mille cañones che solcavano la grande catena.
Le alte erbe dell’altipiano, scosse dalle raffiche che si abbattevano su di esse, si contorcevano come le braccia dei polipi.
— Brutta notte — aveva ripetuto Sandy Hook, appena terminata la cena. — Notte d’imboscate e di sorprese.
Il bandito doveva intendersene più di tutti.
I sei uomini stettero svegli per qualche ora, porgendo l’orecchio ai fragori della montagna e soprattutto al triste e monotono urlo delle coyotes, temendo di sorprendere in quelli dei segnali, poi stabilirono il quarto.
John e Turner si offersero pel primo; Sandy Hook coll’inglese pel secondo; i due fratelli per l’ultimo.
― Copritevi bene e non temete che ci addormentiamo — disse l’indian-agent. — Io ed il signor Turner non ci lasceremo sorprendere, quantunque la notte sia buia come un forno spento.
«È vero, mister?
— Io spero di no — rispose il campione degli uccisori d’uomini. — Non siamo dei ragazzi noi e conosciamo troppo bene quei cari indios, come li chiama milord spleen.
— Cioè milord bisonti — aggiunse sottovoce Sandy Hook, avvolgendosi nella sua coperta ed appoggiando la testa alla sella.
John e Turner trasportarono il loro letto da campo venti metri più innanzi, dinanzi alle prime linee delle alte erbe, si misero dinanzi le carabine e le pistole ed attesero che il loro quarto di guardia trascorresse.
Aprivano ben bene gli occhi, tentando di forare la fitta oscurità e tendevano con ansietà gli orecchi per raccogliere dei rumori ben diversi dal rumoreggiare delle acque, dai sibili del vento e dalle urla delle volpi di prateria.
Di quando in quando l’uno o l’altro s’alzavano e si spingevano fino in mezzo alle alte erbe.
Con quella notte oscura e sapendo che i guerrieri di Toro Seduto occupavano le gole delle montagne, non si sentivano affatto tranquilli.
Era soprattutto la sakem che temevano. Se erano sfuggiti una volta, per un caso miracoloso, al suo coltello da scotennare, non avrebbero certamente salvate le loro capigliature una seconda volta, malgrado la vicinanza dei volontari del generale Custer, i quali dovevano ormai aver ripresa la loro marcia verso le montagne.
Un paio d’ore erano già trascorse senza che alcun avvenimento disturbasse il quarto di guardia degli avventurieri, seccato solamente dalle violenti raffiche che sboccavano furiose fuori dalle gole, quando John, il cui udito era più acuto di quello di Turner, raccolse un rumore che il vento non era riuscito a coprire, essendovi stato qualche momento di sosta.
Senza parlare, si era alzato come spinto da una molla, impugnando il rifle.
— Che cosa fate, mastro John? — chiese il campione degli uccisori d’uomini, preparandosi ad imitarlo.
— Non vi muovete voi, mister — disse prontamente l’indian-agent.
― Vengono gl’indiani?
— Non lo posso sapere ancora.
— Che vada a svegliare i compagni?
— Pel momento no: lasciateli pure dormire.
«Armate la carabina ed aspettatemi.
— Andate ad esplorare?
— Sì, è necessario.
— In due potremmo aiutarci meglio.
— No, mister. Potrebbero approfittarne gli altri per sorprendere il nostro campo e massacrare i nostri compagni.
«La mia assenza d’altronde sarà breve.
Si mise alla cintura le due grosse pistole d’arcione, dategli dai volontari, e si tuffò fra quel mare d’erbe che il vento, volta a volta, abbatteva od arruffava.
Come abbiamo detto, i suoi orecchi erano troppo acuti per poter essersi ingannato. Era quindi più che certo che un pericolo, ancora sconosciuto, minacciava l’accampamento.
Poteva provenire da parte degl’indiani come da parte delle belve feroci, che in quel tempo erano ancora numerosissime sui Laramie, poichè si vedevano spesso orsi grigi, orsi neri e giaguari scendere verso gli altipiani per assalire gli accampamenti degli scorridori di prateria, i quali si spingevano fino lassù per cercare le pelli per gli scambi.
John, dopo essersi fermato quattro o cinque volte per mettersi in ascolto, piegò verso il campo descrivendo un largo giro, per assicurarsi che nessuno lo minacciasse sui fianchi.
Di fronte, a guardia, stava Turner, quindi da quel lato non aveva nulla da temere, sapendo già per prova quale uomo terribile egli fosse.
S’avanzava penosamente, curvandosi per reggere alle raffiche, imbrogliandosi fra le alte erbe che di tratto in tratto lo avvolgevano, sempre tendendo gli orecchi.
Aveva già percorso più di tre o quattrocento metri e cominciava a distinguere l’ombra nera dei cavalli che da veri corsieri sonnecchiavano in piedi, quando una massa enorme, più nera delle tenebre che la circondavano, sorse improvvisamente fra le alte erbe e gli cadde addosso, atterrandolo di colpo.
Due zampacce lo afferrarono tosto per le spalle, inchiodandolo al suolo, mentre gli si spalancava dinanzi al viso una bocca enorme alitandogli un fiato caldissimo e punto profumato.
L’indian-agent, abituato alle sorprese delle belve feroci, non perdette la testa.
Piantò un piede sul ventre dell’assalitore per impedirgli di divorargli la faccia o di sfracellargli il cranio, poi con un rapido gesto estrasse una delle pistole d’arcione, che aveva precedentemente armate, e gliela scaricò addosso.
Un urlo feroce rispose alla detonazione, e la belva, colpita in pieno, si trasse indietro rizzandosi sulle zampe posteriori, mentre si copriva il muso con quelle anteriori.
Il lampo prodotto dall’accensione della polvere, aveva subito rivelato a John con quale avversario aveva da fare.
Non era un grizzly, come aveva dapprima supposto, bensì un enorme orso nero, uno di quegli animalacci che pesano tre quintali e che in una sola notte sono capaci di devastare completamente un campo di maiz.
Non sono carnivori, non posseggono la forza gigantesca dei loro confratelli grigi, tuttavia non sono meno pericolosi, perchè hanno l’abitudine di afferrare ben stretti gli avversari e di rompere loro, con una possente stretta, le costole e talvolta perfino la spina dorsale.
John, che ne aveva abbattuti non pochi durante la sua lunga vita avventurosa, e che perciò sapeva quanto valevano, vedendo l’avversario indietreggiare, raccolse il rifle che gli era sfuggito e balzò in piedi puntando.
Il plantigrado, quantunque avesse ricevuto in pieno muso la grossa palla della pistola d’arcione, tornava alla carica, fremendo e dondolando il suo massiccio corpaccio imbottito di lardo e coperto da una superba pelliccia, lucida come un velluto nero.
Si udì un secondo sparo. John aveva fatto fuoco, mirando in direzione del cuore.
L’animalaccio mandò un secondo urlo più terribile del primo, che si confuse fra i fragori della tempesta, annaspò l’aria colle zampe anteriori, poi si abbattè fra le erbe entro le quali scomparve interamente, tanto erano alte e fitte in quel luogo.
— Un momento di ritardo e mi rovinava nuovamente addosso — brontolò l’indian-agent, dirigendosi sollecitamente verso l’accampamento.
— Queste due detonazioni non avranno destata l’attenzione dei battitori indiani vigilanti sulle creste delle montagne?
«Sarebbe stato meglio che quel bestione avesse continuato la sua marcia; che già, anche se mi avesse vinto, non mi avrebbe divorato.
Quando raggiunse il margine dell’altipiano trovò tutti i suoi compagni in piedi, a fianco dei loro cavalli, pronti a prendere il largo.
Anche Turner, dopo aver fatto una breve corsa attraverso le erbe, si era ripiegato sul campo dando l’allarme.
— Gl’indiani? — avevano chiesto tutti ad una voce, vedendo ricomparire John.
— Non era che un orso nero, che ho atterrato con due palle.
— Male — disse Sandy Hook.
— Perchè?
— Queste due detonazioni non saranno sfuggite agli scorridori rossi.
— Volevate che mi lasciassi fracassare le costole?
— Non posso darvi torto — rispose il bandito, il quale sembrava un po’ preoccupato. — Volete un consiglio? Leviamo subito il campo ed andiamo a rifugiarci in mezzo ai boschi di pini.
— Con la tempesta che sta per scoppiare? — chiese Turner, il quale avrebbe desiderato meglio, anche a costo d’impegnare la lotta, dormire qualche ora.
— Staremo meglio sotto gli alberi che qui — rispose Sandy Hook.
— Trovare colà bisonti? — chiese lord Wylmore.
— Ma sì, e grossi come elefanti — disse John, alzando le spalle.
— Aho!... Allora io venire.
I sei uomini balzarono in sella, batterono per qualche centinaio di metri la fronte delle altissime erbe, poi partirono verso ponente, affidandosi alle loro cavalcature, poichè in quell’oscurità non avrebbero potuto nemmeno evitare un cañon largo mille tese. Il vento tirava sempre forte, empiendo la montagna di mille strani muggiti ed accumulando sulle vette e perfino dentro le larghe e profonde vallate immense masse di vapori gravidi di pioggia.
Sandy Hook si era rimesso alla testa del drappello e cercava alla meglio di orizzontarsi, senza però speranza di riuscirvi.
John invece era passato in coda.
Quella corsa, a piccolo galoppo, durava da una quindicina di minuti, quando un lampo, il primo, rischiarò la montagna che stavano attraversando. Sandy Hook aveva trattenuto prontamente il cavallo, mandando un grido.
— Fermi!... Siamo sull’orlo di un cañon!...
Nell’istesso momento John gridava:
— Fuori i rifles!... Siamo inseguiti!...