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Sezione quarta - Capitolo secondo - Delle famiglie de' famoli innanzi delle città

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[CAPITOLO SECONDO]

delle famiglie de’ famoli innanzi delle cittá, senza
le quali non potevano affatto nascere le cittá.

553Perché finalmente, a capo di lunga etá, de’ giganti empi, rimasti nell’infame comunione delle cose e delle donne, nelle risse ch’essa comunion produceva, come i giureconsulti pur dicono, gli scempi di Grozio, gli abbandonati di Pufendorfio, per salvarsi da’ violenti di Obbes (come le fiere, cacciate da intensissimo freddo, vanno talor a salvarsi dentro ai luoghi abitati), ricorsero alle are de’ forti; e quivi questi feroci, perché giá uniti in societá di famiglie, uccidevano i violenti ch’avevano violato le loro terre, e ricevevano in protezione i miseri da essolor rifuggiti. E oltre l’eroismo di natura, d’esser nati da Giove, o sia generati con gli auspíci di Giove, spiccò principalmente in essi l’eroismo della virtú, nel quale sopra tutti gli altri popoli della terra fu eccellente il romano, in usarne appunto queste due pratiche:

Parcere subiectis et debellare superbos.

554E qui si offre cosa degna di riflessione, per intendere quanto gli uomini dello stato ferino fossero stati feroci e indomiti dalla loro libertá bestiale a venire all’umana societá: che, per venir i primi alla prima di tutte, che fu quella de’ matrimoni, v’abbisognarono, per farglivi entrare, i pugnentissimi stimoli della libidine bestiale e, per tenerglivi dentro, v’abbisognarono i fortissimi freni di spaventose religioni, come sopra si è dimostrato. Da che provennero i matrimoni, i quali furono la prima amicizia che nacque al mondo; onde Omero, per significare che Giove e Giunone giacquero insieme, dice con eroica gravitá che tra loro «celebrarono l’amicizia», detta da’greci φιλία dalla stessa origine ond’è φιλέο, «amo», e dond’è da’ latini [p. 251 modifica] detto «filius»; e φίλιος a’ greci ioni è l’«amico», e quindi a’ greci, con la mutazione d’una lettera vicina di suono, è φυλή la «tribú»; onde ancora vedemmo sopra «stemmata» essere stati detti i «fili geanologici», che da’ giureconsulti sono chiamati «linceae». Da questa natura di cose umane restò quest’eterna propietá: che la vera amicizia naturale egli è ’l matrimonio, nella quale naturalmente si comunicano tutti e tre i fini de’ beni, cioè l’onesto, l’utile e ’l dilettevole; onde il marito e la moglie corrono per natura la stessa sorte in tutte le prosperitá e avversitá della vita (appunto come per elezione è quello: «amicorum omnia sunt communio»), per lo che da Modestino fu il matrimonio diffinito «omnis vitae consortium».

555I secondi non vennero a questa seconda, ch’ebbe, per una certa eccellenza, il nome di «societá», come quindi a poco farem conoscere, che per l’ultime necessitá della vita. Ov’è degno pur di riflessione che, perché i primi vennero all’umana societá spinti dalla religione e da natural istinto di propagare la generazione degli uomini (l’una pia, l’altra propiamente detta gentil cagione), diedero principio ad un’amicizia nobile e signorile; e perché i secondi vi vennero per necessitá di salvare la vita, diedero principio alla «societá» che propiamente si dice, per comunicare principalmente l’utilitá, e, ’n conseguenza, vile e servile. Perciò tali rifuggiti furono dagli eroi ricevuti con la giusta legge di protezione, onde sostentassero la naturale lor vita con l’obbligo di servir essi da giornalieri agli eroi. Qui dalla «fama» di essi eroi (che principalmente s’acquista con praticar le due parti che testé dicemmo usare l’eroismo della virtú) e da tal mondano romore, ch’è la κλέος o «gloria» de’ greci, che vien detta «fama» a’ latini (come φήμη pur si dice da’ greci), i rifuggiti s’appellarono «famoli», da’ quali principalmente si dissero le «famiglie». Dalla qual fama certamente la sagra storia, narrando de’ giganti che furon innanzi il diluvio, gli diffinisce «viros famosos»: appunto come Virgilio ne descrisse la Fama starsi assisa sopra di un’alta torre (che sono le terre poste in alto de’ forti), che mette il capo entro il cielo (la cui altezza cominciò dalle cime [p. 252 modifica] de’ monti), alata (perch’era in ragion degli eroi; onde nel campo posto a Troia la Fama vola per mezzo alle schiere de’ greci eroi, non per mezzo alle caterve de’ lor plebei), [e] con la tromba (la qual dee essere la tromba di Clio, ch’è la storia eroica) celebra i nomi grandi (quanto lo furono di fondatori di nazioni).

556Or, in sí fatte famiglie innanzi delle cittá vivendo i famoli in condizioni di schiavi (che furono gli abbozzi degli schiavi che poi si fecero nelle guerre, che nacquero dopo delle cittá; che sono quelli che da’ latini detti furono «vernae», da’ quali provennero le lingue da’ medesimi dette «vernaculae», come sopra si è ragionato), i figliuoli degli eroi, per distinguersi da quelli de’ famoli, si dissero «liberi», da’ quali infatti non si distinguevano punto: come de’ Germani antichi, i quali ci dánno ad intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari, Tacito narra che «dominum ac servum nullis educationis deliciis dignoscas»; come certamente tra’ romani antichi ebbero i padri delle famiglie una potestá sovrana sopra la vita e la morte de’ lor figliuoli ed un dominio dispotico sopra gli acquisti, onde infin a’ romani principi i figliuoli dagli schiavi di nulla si distinguevano ne’ peculi. Ma cotal voce «liberi» significò dapprima anco «nobili»; onde «artes liberales» sono «arti nobili», e «liberalis» restò a significare «gentile», e «liberalitas» «gentilezza», dalla stessa antica origine onde «gentes» erano state dette le «case nobili» da’ latini; perché, come vedremo appresso, le prime genti si composero di soli nobili, e i soli nobili furono liberi nelle prime cittá. Altronde i famoli furon detti «clientes», e dapprima «cluentes», dall’antico verbo «cluere», «risplendere di luce d’armi» (il quale splendore fu detto «cluer» ), perché rifulgevano con lo splendore dell’armi ch’usavano i lor eroi, che dalla stessa origine si dissero dapprima «incluti» e dappoi «inclyti»: altrimente non erano ravvisati, come se non fusser tra gli uomini, com’appresso si spiegherá.

557E qui ebbero principio le clientele e i primi dirozzamenti de’ feudi, de’ quali abbiamo molto, appresso, da ragionare; [p. 253 modifica] delle quali clientele e clienti si leggono sulla storia antica sparse tutte le nazioni, come nelle Degnitá sta proposto. Ma Tucidide narra che nell’Egitto, anco a’ suoi tempi, le dinastie di Tane erano tutte divise tra padri di famiglie, principi pastori di famiglie sí fatte; ed Omero, quanti eroi canta, tanti chiama «re», e gli diffinisce «pastori de’ popoli», che dovetter esser innanzi di venire i pastori de’ greggi, come appresso dimostreremo. Tuttavia in Arabia, com’erano stati in Egitto, or ne sono in gran numero; e nell’Indie occidentali si truovò la maggior parte, in tale stato di natura, governarsi per famiglie sí fatte, affollate di tanto numero di schiavi, che diede da pensare all’imperador Carlo quinto, re delle Spagne, di porvi modo e misura. E con una di queste famiglie dovette Abramo far guerre co’ re gentili; i cui servi, co’ quai le fece, troppo al nostro proposito, dotti di lingua santa traducono «vernaculos», come poc’anzi «vernae» si sono da noi spiegati.

558Sul nascere di queste cose incominciò con veritá il famoso nodo erculeo, col quale i clienti si dissero «nexi» («annodati») alle terre che dovevano coltivare per gl’incliti; che passò poi in un nodo finto, come vedremo, nella legge delle XII Tavole, che dava la forma alla mancipazione civile, che solennizzava tutti gli atti legittimi de’ romani. Ora, perché non si può intendere spezie di societá né piú ristretta per parte di chi ha copia di beni, né, per chi ne ha bisogno, piú necessaria, quivi dovettero incominciare i primi soci nel mondo, che, come l’avvisammo nelle Degnitá, furon i soci degli eroi, ricevuti per la vita, come quelli ch’avevano arresa alla discrezion degli eroi la lor vita. Onde ad Antinoo, il capo de’ suoi soci, per una parola, quantunque dettagli a buon fine, perché non gli va all’umore, Ulisse vuol mozzare la testa; e ’l pio Enea uccide il socio Miseno, che gli bisognava per far un sacrifizio. Di che pure ci fu serbata una volgare tradizione; ma Virgilio, perché nella mansuetudine del popolo romano era troppo crudo ad udirsi di Enea, ch’esso celebra per la pietá, il saggio poeta finge che ucciso fu da Tritone, perché avesse osato con quello contendere in suon di tromba: ma nello stesso tempo ne dá [p. 254 modifica] troppo aperti motivi d’intenderlo, narrando la morte di Miseno tralle solennitá prescritte dalla Sibilla ad Enea, delle quali una era che gli bisognava innanzi seppellire Miseno per poter poi discendere nell’inferno; e apertamente dice che la Sibilla gliene aveva predetto la morte.

559Talché questi erano soci delle sole fatighe, ma non giá degli acquisti e molto meno della gloria, della quale rifulgevano solamente gli eroi, che se ne dicevano κλειτοί ovvero «chiari» da’ greci, e «inclyti» da’ latini (quali restarono le provincie dette «socie» da’romani); ed Esopo se ne lamenta nella favola della societá leonina, come si è sopra detto. Perché certamente degli antichi Germani, i quali ci permettono fare una necessaria congettura di tutti gli altri popoli barbari, Tacito narra che di tali famoli o clienti o vassalli, quello: «suum principem defendere et tueri, sua quoque fortia facta gloriae eius adsignare, praecipuum iuramentum est»; ch’è una delle propietá piú risentite de’ nostri feudi. E quindi, e non altronde, dee essere provenuto che sotto la «persona» o «capo» (che, come vedremo appresso, significarono la stessa cosa che «maschera») e sotto il «nome» (ch’ora si direbbe «insegna») d’un padre di famiglia romano si contenevano, in ragione, tutti i figliuoli e tutti gli schiavi; e ne restò a’ romani dirsi «clypea» i mezzi busti, che rappresentavano l’immagini degli antenati, riposte ne’ tondi incavati dentro i pareti de’ lor cortili, e, con troppa acconcezza alle cose che qui si dicono dell’origini delle medaglie, dalla novella architettura si dicono «medaglioni». Talché dovette con veritá dirsi, ne’ tempi eroici cosí de’ greci, qual Omero il racconta, Aiace «torre de’ greci», che, solo, combatte con intere battaglie troiane; come de’ latini, ch’Orazio, solo, sul ponte sostiene un esercito di toscani: cioè Aiace, Orazio co’ lor vassalli. Appunto come nella storia barbara ritornata quaranta normanni eroi, i quali ritornavano da Terrasanta, discacciano un esercito di saraceni, che tenevano assediato Salerno. Onde bisogna dire che da queste prime antichissime protezioni, le quali gli eroi presero de’ rifuggiti alle loro terre, dovettero incominciar i feudi nel mondo, prima [p. 255 modifica] rustici personali, per gli quali tali vassalli debbon esser stati i primi «vades», ch’erano obbligati nella persona a seguir i loro eroi, ove gli menassero a coltivare i di loro campi (che poi restarono detti i rei, obbligati di seguir i lor attori in giudizio); onde, come «vas» a’ latini, βάς ai greci, cosí «was» e «wassus» restaron a’ feudisti barbari a significare «vassallo». Dappoi dovettero venire i feudi rustici reali, per gli quali i vassalli dovetter essere i primi «praedes» o «mancipes», gli obbligati in roba stabile; e «mancipes», propiamente, restaron detti tali obbligati all’erario, di che piú ragioneremo in appresso.

560Quindi devon altresí incominciare le prime colonie eroiche che noi diciamo «mediterranee», a differenza di altre, le quali vennero appresso, che furono le marittime. Le quali vedremo essere state drappelli di rifuggiti da mare, che si salvarono in altre terre (che nelle Degnitá si son accennate); perché il nome, propiamente, altro non suona che «moltitudine di giornalieri, che coltivano i campi (come tuttavia fanno) per lo vitto diurno». Delle quali due spezie di colonie son istorie quelle due favole: cioè, delle mediterranee, è ’l famoso Ercole gallico, il quale con catene d’oro poetico (cioè del frumento), che gli escono di bocca, incatena per gli orecchi moltitudine d’uomini e gli si mena, dove vuol, dietro; il quale è stato finora preso per simbolo dell’eloquenza: la qual favola nacque ne’ tempi che non sapevano ancora gli eroi articolar la favella, come si è appieno sopra dimostro. Delle colonie marittime è la favola della rete, con la quale Vulcano eroico strascina da mare Venere e Marte plebei (la qual distinzione sará qui appresso generalmente spiegata), e ’l Sole gli scuopre tutti nudi (cioè non vestiti della luce civile, della quale rifulgevan gli eroi, come si è testé detto), e gli dèi (cioè i nobili dell’eroiche cittá, quali si sono sopra spiegati) ne fanno scherno (come fecero i patrizi della povera plebe romana antica).

561E finalmente quindi ebbero gli asili la loro primiera origine. Onde Cadmo con l’asilo fonda Tebe, antichissima cittá della Grecia; — Teseo fonda Atene sull’altare degl’infelici, detti con giusta idea «infelici» gli empi vagabondi, ch’erano privi [p. 256 modifica] di tutti i divini ed umani beni ch’aveva produtto a’ pii l’umana societá; — Romolo fonda Roma con l’asilo aperto nel luco; se non, piú tosto, come fondatore di cittá nuova, esso co’ suoi compagni la fonda sulla pianta degli asili, ond’erano surte l’antiche cittá del Lazio, che generalmente Livio in tal proposito diffinisce «vetus urbes condentium consilium» e perciò male gli attacca, come abbiam veduto sopra, quel detto: ch’esso e i suoi compagni erano figliuoli di quella terra. Ma, per ciò che ’l detto di Livio fa al nostro proposito, egli ci dimostra che gli asili furono l’origini delle cittá, delle quali è propietá eterna che gli uomini vi vivono sicuri da violenza. In cotal guisa dalla moltitudine degli empi vagabondi, dappertutto riparati e salvi nelle terre de’ forti pii, venne a Giove il grazioso titolo d‘«ospitale »: perocché sí fatti asili furono i primi «ospizi» del mondo, e sí fatti «ricevuti», come appresso vedremo, furono i primi «ospiti» ovvero «stranieri» delle prime cittá. E ne conservò la greca storia poetica, tralle molte fatighe d’Ercole, queste due: ch’egli andò per lo mondo spegnendo mostri, uomini nell’aspetto e bestie ne’ lor costumi, e che purgò le lordissime stalle d’Augia.

562Quivi le genti poetiche fantasticarono due altre maggiori divinitá, una di Marte, un’altra di Venere: quello, per un carattere degli eroi, che, prima e propiamente, combatterono «pro aris et focis». La qual sorta di combattere fu sempre eroica: combattere per la propia religione, a cui ricorre il gener umano ne’ disperati soccorsi della natura; onde le guerre di religione sono sanguinosissime, e gli uomini libertini, invecchiando, perché si sentono mancar i soccorsi della natura, divengon religiosi; onde noi sopra prendemmo la religione per primo principio di questa Scienza. Quivi Marte combattè in veri campi reali e dentro veri reali scudi, che, da «cluer», prima «clupei» e poi «clypeí» si dissero da’ romani; siccome a’ tempi barbari ritornati i pascoli e le selve chiuse sono dette «difese». E tali scudi si caricavano di vere armi, le quali dapprima, che non v’erano armi ancora di ferro, furon aste d’alberi bruciate in punta e poi ritondate ed aguzzate alla cote [p. 257 modifica] per renderle atte a ferire; che sono l’«aste pure», o non armate di ferro, che si davano per premi militari a’ soldati romani i quali si erano eroicamente portati in guerra. Onde appo i greci son armate d’aste Minerva, Bellona, Pallade; ed appo i latini da «quiris», «asta», Giunone detta «quirina», e «quirino» Marte, e Romolo, perché valse vivo coll’asta, morto fu appellato «Quirino»; e’l popolo romano, che armò di pili (come lo spartano, che fu il popolo eroico di Grecia, armò d’aste), fu detto, in adunanza, «quirites». Ma delle nazioni barbare la storia romana ci narra aver guerreggiato con le prime aste ch’ora diciamo, e le ci descrive «praeustas sudes», «aste bruciate in punta», come furono ritruovati armeggiare gli americani; e a’ tempi nostri i nobili con l’aste armeggiano ne’ tornei, le quali prima adoperarono nelle guerre. La qual sorta d’armadura fu ritruovata da una giusta idea di fortezza, d’allungar il braccio e col corpo tener lontana l’ingiuria dal corpo, siccome l’armi che piú s’appressano al corpo son piú da bestie.

563Sopra ritruovammo i fondi de’ campi ov’erano i seppelliti essere stati i primi scudi del mondo; onde nella scienza del blasone restò che lo scudo è ’l fondamento dell’armi. I colori de’ campi furono veri. Il nero, della terra bruciata, a cui Ercole diede il fuoco. Il verde, delle biade in erba. E con errore per metallo fu preso l’oro, che fu il frumento, che, biondeggiando nelle secche sue biade, fu il terzo color della terra, com’altra volta si è detto; siccome i romani, tra’ premi militari eroici, caricavano di frumento gli scudi di que’ soldati che si erano segnalati nelle battaglie, e «adorea» loro si disse la «gloria militare», da «ador», «grano brustolilo», di che prima cibavansi, che gli antichi latini dissero «adur» da «uro», «bruciare»; talché forse il primo «adorare» de’ tempi religiosi fu brustolire frumento. L’azzurro fu il color del cielo, del quale eran essi luci coverti (il perch’i francesi dissero «bleu» per l’«azzurro», per lo «cielo» e per «Dio», come sopra si è detto). Il rosso era il sangue de’ ladroni empi, che gli eroi uccidevano, ritruovati dentro de’ loro campi. [p. 258 modifica] L’imprese nobili venuteci dalla barbarie ritornata si osservano caricate di tanti boni neri, verdi, d’oro, azzurri e finalmente rossi, i quali, per ciò che sopra abbiam veduto de’ campi da semina, che poi passarono in campi d’armi, deono essere le terre colte, guardate con l’aspetto, che sopra si ragionò, del lione vinto da Ercole, e de’ lor colori, che si sono testé noverati: tante caricate di vari, che deon essere i solchi onde da’ denti della gran serpe, da esso uccisa, di che avevagli seminati, uscirono gli uomini armati di Cadmo; tante caricate di pali, che devon essere baste con le quali armeggiarono i primi eroi; e tante caricate alfin di rastelli, che sono stromenti certamente di villa. Per lo che tutto si ha a conchiudere che l’agricoltura, come ne’ tempi barbari primi, de’ quali ci accertano essi romani, cosí ne’ secondi fece la prima nobiltá delle nazioni.

564Gli scudi poi degli antichi furon coverti di cuoio, come si ha da’ poeti che di cuoio vestirono i vecchi eroi, cioè delle pelli delle fiere da essi cacciate ed uccise. Di che vi ha un bel luogo in Pausania ove riferisce di Pelasgo (antichissimo eroe di Grecia, che diede il primo nome, che quella nazione portò, di «pelasgi»; talché Apollodoro, De origine deorum, il chiama αὐτόχθονα, «figliuol della Terra», che si diceva in una parola «gigante») ch’egli «ritruovò la veste di cuoio». E, con maravigliosa corrispondenza de’ tempi barbari secondi co’ primi, de’ grandi personaggi antichi parlando, Dante dice che vestivan «di cuoio e d’osso», e Boccaccio narra ch’ivan impacciati nel cuoio. Dallo che dovette venire che l’imprese gentilizie fussero di cuoio coverte, nelle quali la pelle del capo e de’ piedi, rivolta in cartocci, vi fa acconci finimenti. Furono gli scudi ritondi, perché le terre sboscate e colte furono i primi «orbes terrarum», come sopra si è detto; e ne restò la propietá a’ latini, con cui «clypeus» era tondo, a differenza di «scutum», ch’era angolare. Il perché ogni luco si disse nel senso di «occhio», come ancor oggi si dicon «occhi» l’aperture ond’entra il lume nelle case. La qual frase eroica vera, essendosi poi sconosciuta, quindi alterata e [p. 259 modifica] finalmente corrotta: ch’«ogni gigante aveva il suo luco», era giá divenuta falsa quando giunse ad Omero, e fu appreso ciascun gigante con un occhio in mezzo la fronte. Co’ quali giganti monocoli ci venne Vulcano, nelle prime fucine — che furono le selve, alle quali Vulcano aveva dato il fuoco e dove aveva fabbricato le prime armi, che furono, come abbiam detto, l’aste bruciate in punta, — stesa l’idea di tal’armi, fabbricar i fulmini a Giove; perché Vulcano aveva dato fuoco alle selve, per osservar a cielo aperto donde i fulmini fussero mandati da Giove.

565L’altra divinitá, che nacque tra queste antichissime cose umane, fu quella di Venere, la quale fu un carattere della bellezza civile; onde «honestas» restò a significare e «nobiltá» e «bellezza» e «virtú». Perché con quest’ordine dovettero nascere queste tre idee: che prima fussesi intesa la bellezza civile, ch’apparteneva agli eroi; — dopo, la naturale, che cade sotto gli umani sensi, però di uomini di menti scorte e comprendevoli, che sappiano discernere le parti e combinarne la convenevolezza nel tutto d’un corpo, nello che la bellezza essenzialmente consiste; onde i contadini e gli uomini della lorda plebe nulla o assai poco s’intendono di bellezza (lo che dimostra l’errore de’ filologi, i quali dicono che, in questi tempi scempi e balordi ch’ora qui ragioniamo, si eleggevano gli re dall’aspetto de’ loro corpi belli e ben fatti; perché tal tradizione è da intendersi della bellezza civile, ch’era la nobiltá d’essi eroi, come or ora diremo); — finalmente, s’intese la bellezza della virtú, la quale si appella «honestas» e s’intende sol da’ filosofi. Laonde della bellezza civile dovetter esser belli Apollo, Bacco, Ganimede, Bellerofonte, Teseo, con altri eroi, per gli quali forse fu immaginata Venere maschia.

566Dovette nascere l’idea della bellezza civile in mente de’ poeti teologi dal veder essi gli empi rifuggiti alle lor terre esser uomini d’aspetto e brutte bestie di costumi. Di tal bellezza, e non d’altra, vaghi furono gli spartani, gli eroi della Grecia, che gittavano dal monte Taigeta i parti brutti e deformi, cioè fatti da nobili femmine senza la solennitá delle nozze; che debbon [p. 260 modifica] esser i «mostri» che la legge delle XII Tavole comandava gittarsi in Tevere. Perché non è punto verisimile ch’i decemviri, in quella parsimonia di leggi propia delle prime repubbliche, avessero pensato a’ mostri naturali, che sono sí radi che le cose rade in natura si dicon «mostri»: quando, in questa copia di leggi della qual or travagliamo, i legislatori lasciano all’arbitrio de’ giudicanti le cause ch’avvengono rade volte. Talché questi dovetter esser i mostri detti, prima e propiamente, «civili» (d’un de’ quali intese Panfilo ove, venuto in falso sospetto che la donzella Filumena fusse gravida, dice:

... Aliquid monstri alunt);

e cosí restaron detti nelle leggi romane, le quali dovettero parlare con tutta propietá, come osserva Antonio Fabro nella Giurisprudenza papiniaynea. Lo che sopra si è altra volta ad altro fine osservato.

567Laonde questo dee essere quello che, con quanto di buona fede, con altrettanta ignorazione delle romane antichitá ch’egli scrive, dice Livio: che, [se] comunicati fussero da’ nobili i connubi a’ plebei, ne nascerebbe la prole «secum ipsa discors», ch’è tanto dire quanto «mostro mescolato di due nature»: una, eroica, de’ nobili; altra, ferina, d’essi plebei, che «agitabant connubio more ferarum». Il qual motto prese Livio da alcuno antico scrittor d’annali, e l’usò senza scienza, perocché egli il rapporta in senso: «se i nobili imparentassero co’ plebei». Perché i plebei, in quel loro misero stato di quasi schiavi, nol potevano pretendere da’ nobili, ma domandarono la ragione di contrarre nozze solenni (ché tanto suona «connubium»), la qual ragione era solo de’ nobili. Ma, delle fiere, niuna spezie usa con altra di altra spezie. Talché è forza dire ch’egli fu un motto, col quale, in quella eroica contesa, i nobili volevano schernir i plebei, che, non avendo auspíci pubblici, i quali con la loro solennitá facevano le nozze giuste, niuno di loro aveva padre certo (come in ragion romana restonne quella diffinizione, ch’ognun sa, che «nuptiae demonstrant patrem»); [p. 261 modifica] talché, in sí fatta incertezza, i plebei si dicevan da’ nobili ch’usassero con le loro madri, con le loro figliuole, come fanno le fiere.

568Ma a Venere plebea furon attribuite le colombe, non giá per significare svisceratezze amorose, ma perché sono, qual’Orazio le diffinisce, «degeneres», uccelli vili, a petto dell’aquile (che lo stesso Orazio diffinisce «feroces», e si per significare ch’i plebei avevano auspíci privati o minori, a differenza di quelli dell’aquile e de’ fulmini, ch’eran de’ nobili e Varrone e Messala dissero «auspíci maggiori» ovvero «pubblici», de’ quali erano dipendenze tutte le ragioni eroiche de’ nobili, come la storia romana apertamente lo ci conferma. Ma a Venere eroica, qual fu la «pronuba», furon attribuiti i cigni, propi anco d’Apollo, il quale sopra vedemmo essere lo dio della nobiltá, con gli auspíci di uno de’ quali Leda concepisce di Giove l’uova, come si è sopra spiegato.

569Fu la Venere plebea ella descritta nuda, perocché la pronuba era col cesto coverta, come si è detto sopra. Quindi si veda quanto d’intorno a queste poetiche antichitá si sieno contorte l’idee! ché poi fu creduto finto per incentivo della libidine quello che fu ritruovato con veritá per significar il pudor naturale, o sia la puntualitá della buona fede con la quale si osservavano tra’ plebei le naturali obbligazioni; perocché, come quindi a poco vedremo nella Politica poetica, i plebei non ebbero niuna parte di cittadinanza nell’eroiche cittá, e sí non contraevano tra loro obbligazioni legate con alcun vincolo di legge civile, che lor facesse necessitá. Quindi furon a Venere attribuite le Grazie ancor nude; e appo i latini «caussa» e «gratia» significano una cosa stessa: talché le Grazie a’ poeti significar dovettero i «patti nudi», che producono la sola obbligazion naturale. E quindi i giureconsulti romani dissero «patti stipulati » quelli che poi furon detti «vestiti» dagli antichi interpetri: perché, intendendo quelli i patti nudi esser i patti non stipulati, non deve «stipulatio» venir detta da «stipes» (ché, per tal origine, si dovrebbe dire «stipatio»), con la sforzata ragione «perocché ella sostenga i patti»; ma dee venire da [p. 262 modifica] «stipula», detta da’ contadini del Lazio perocch’ella «vesta il frumento». Com’al contrario i «patti vestiti» in prima da’ feudisti furono detti dalla stessa origine onde son dette l’«investiture» de’ feudi, de’ quali certamente si ha «exfestucare» il «privare della degnitá». Per lo che ragionato, «gratia» e «caussa» s’intesero essere una cosa stessa da’ latini poeti d’intorno a’ contratti che si celebravano da’ plebei delle cittá eroiche. Come, introdutti poi i contratti «de iure naturali gentium», ch’Ulpiano dice «humanarum», «caussa» e «negocium» significarono una cosa medesima; perocché, in tali spezie di contratti, essi negozi quasi sempre sono «caussae» o «cavissae» o «cautele», che vagliono per stipulazioni le quali ne cautelino i patti.