La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione quarta/Capitolo primo

Sezione quarta - Capitolo primo - Dell'iconomica poetica

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Sezione quarta Sezione quarta - Capitolo secondo
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[CAPITOLO PRIMO]

dell’iconomica poetica, e qui delle famiglie
che prima furono de’ figliuoli

520Sentirono gli eroi per umani sensi quelle due veritá che compiono tutta la dottrina iconomica, che le genti latine conservarono con queste due voci di «educere» e di «educare»; delle quali con signoreggiante eleganza la prima s’appartiene all’educazione dell’animo, e la seconda a quella del corpo. E la prima fu, con dotta metafora, trasportata da’ fisici al menar fuori le forme della materia; perciocché con tal educazione eroica s’incominciò a menar fuori in un certo modo la forma dell’anima umana, che ne’ vasti corpi de’ giganti era affatto seppellita dalla materia, e s’incominciò a menar fuori la forma di esso corpo umano di giusta corporatura dagli smisurati corpi lor giganteschi.

521E, per ciò che riguarda la prima parte, dovettero i padri eroi, come nelle Degnitá si è avvisato, essere, nello stato che dicesi «di natura», i sappienti in sapienza d’auspíci o sia sapienza volgare; e, ’n séguito di cotal sapienza, esser i sacerdoti, che, come piú degni, dovevano sagrificare per proccurare o sia ben intender gli auspíci; e finalmente gli re, che dovevano portar le leggi dagli dèi alle loro famiglie, nel propio significato di tal voce «legislatori», cioè «portatori di leggi»,' [p. 230 modifica] come poi lo furono i primi re nelle cittá eroiche, che portavano le leggi da’ senati regnanti a’ popoli, come noi l’osservammo sopra, nelle due spezie dell’adunanze eroiche d’Omero, una detta βουλή e l’altra ἀγορά, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica. E come in quella gli eroi a voce ordinavano le leggi, in questa a voce le pubblicavano (perocché le lettere volgari non si erano ancor truovate); onde gli re eroici portavano le leggi da essi senati regnanti a’ popoli nelle persone de’ duumviri, i quali essi avevano per ciò criati che le dettassero, come Tulio Ostilio quella nell’accusa d’Orazio. Talché essi duumviri venivan ad essere leggi vive e parlanti; che è ciò che non intendendo Livio, non si fa intendere, come sopra osservammo, ove narra del giudizio d’Orazio.

522Cotal tradizione volgare sulla falsa oppenione della sapienza innarrivabile degli antichi diede la tentazione a Platone di vanamente disiderare que’ tempi ne’ quali i filosofi regnavano o filosofavano i re. E certamente cotali padri, come nelle Degnitá si è avvisato, dovetter essere re monarchi famigliari, superiori a tutti nelle loro famiglie e solamente soggetti a Dio, forniti d’imperi armati di spaventose religioni e consegrati con immanissime pene, quanto dovetter essere quelli de’ polifemi, ne’ quali Platone riconosce i primi padri di famiglia del mondo. La qual tradizione, mal ricevuta, diede la grave occasione del comun errore a tutti i politici: di credere che la prima forma de’ governi civili fusse ella nel mondo stata monarchica; onde sono dati in quelli ingiusti principi di rea politica: che i regni civili nacquero o da forza aperta o da froda, che poi scoppiò nella forza. Ma in que’ tempi, tutti orgoglio e fierezza per la fresca origine della libertá bestiale (di che abbiamo, pur sopra, posto una degnitá), nella somma semplicitá e rozzezza di cotal vita, ch’eran contenti de’ frutti spontanei della natura, dell’acqua delle fontane e di dormir nelle grotte; nella naturale egualitá dello stato, nel quale tutti i padri erano sovrani nelle loro famiglie; non si può affatto intendere né froda né forza, con la quale uno potesse assoggettir tutti gli altri ad una civil monarchia: la qual pruova si fará piú spiegata appresso. [p. 231 modifica]

523Solamente ora sia lecito qui di riflettere quanto vi volle acciocché gli uomini del gentilesimo dalla ferina loro natia libertá, per lunga stagione di ciclopica famigliar disciplina, si ritruovassero addimesticati, negli Stati ch’avevano da venir appresso civili, ad ubbidire naturalmente alle leggi. Di che restò quell’eterna propietá: ch’ivi le repubbliche sono piú beate di quella ch’ideò Platone, ove i padri insegnano non altro che la religione, e da’ figliuoli vi sono ammirati come lor sappienti, riveriti come lor sacerdoti e vi sono temuti da re. Tanta forza divina e tale vi abbisognava per ridurre a’ doveri umani i quanto goffi altrettanto fieri gitanti! La qual forza non potendo dir in astratto, la dissero in concreto con esso corpo d’una corda, che χορδά si dice in greco, ed in latino da prima si disse «fides», la qual, prima e propiamente, s’intese in quel motto «fides deorum», «forza degli dèi». Della qual poi, come la lira dovette cominciare dal monocordo, ne fecero la lira d’Orfeo, al suon della quale egli, cantando loro la forza degli dèi negli auspíci, ridusse le fiere greche all’umanitá, ed Anfione de’ sassi semoventi innalzò le mura di Tebe: cioè di que’ sassi che Deucalione e Pirra, innanzi al tempio di Temi (cioè col timore della divina giustizia), co’ capi velati (con la pudicizia de’ matrimoni), posti innanzi i piedi (ch’innanzi erano stupidi, come a’ latini per «istupido» restò «lapis»), essi, col gittargli dietro le spalle (con introdurvi gli ordini famigliari per mezzo della disciplina iconomica), fecero divenir uomini, come questa favola fu sopra, nella Tavola cronologica, cosí spiegata.

524Per ciò ch’attiensi all’altra parte della disciplina iconomica, ch’è l’educazione de’corpi, tai padri, con le spaventose religioni e co’ lor imperi ciclopici e con le lavande sagre, incominciaron ad edurre o menar fuori dalle corporature gigantesche de’ lor figliuoli la giusta forma corporea umana, in conformitá di ciò che sopra n’abbiamo detto. Ov’è da sommamente ammirare la provvedenza, la qual dispose che, finché poi succedesse l’educazione iconomica, gli uomini perduti provenissero giganti, acciocché nel loro ferino divagamento potessero con le robuste complessioni sopportare l’inclemenza del cielo e delle stagioni, [p. 232 modifica] e con le smisurate forze penetrare la gran selva della terra (che per lo recente diluvio doveva esser foltissima), per la quale (affinché si truovasse tutta popolata a suo tempo), fuggendo dalle fiere e seguitando le schive donne, e quindi sperduti, cercando pascolo ed acqua, si dispergessero; ma, dappoi che incominciarono con le loro donne a star fermi, prima nelle spelonche, poi ne’ tuguri, presso le fontane perenni (come or ora diremo), e ne’ campi, che, ridutti a coltura, davano loro il sostentamento della lor vita, per le cagioni ch’ora qui ragioniamo, degradassero alle giuste stature delle quali ora son gli uomini.

525Quivi, in esso nascere dell’iconomica, la compierono nella sua idea ottima, la qual è ch’i padri col travaglio e con l’industria lascino a’ figliuoli patrimonio, ov’abbiano e facile e comoda e sicura la sossistenza, anco mancassero gli stranieri commerzi, anco mancassero tutti i frutti civili, anco mancassero esse cittá, acciocché in tali casi ultimi almeno si conservino le famiglie, dalle quali sia speranza di risurger le nazioni; — che debbano lasciar loro patrimonio in luoghi di buon’aria, con propia acqua perenne, in siti naturalmente forti, ove, nella disperazione delle cittá, possan aver la ritirata, ed in campi di larghi fondi ove possano mantenere de’ poveri contadini, da essi, nella rovina della cittá, rifuggiti, con le fatighe de’ quali vi si possano mantenere signori. Tali ordini la provvidenza (secondo il detto di Dione che noi riferimmo tralle Degnitá), non da tiranna con leggi, ma, da regina, qual è, delle cose umane, con costumanze pose allo stato delle famiglie. Perché si truovaron i forti piantate le loro terre sull’alture de’ monti, e quivi in aria ventilata e per questo sana; ed in siti per natura anco forti, che furono le prime «arces» del mondo, che poi con le sue regole l’architettura militare fortificò (come in italiano si dissero «rocce» gli scoscesi e ripidi monti, onde poi «ròcche» se ne dissero le fortezze); e finalmente si truovarono presso alle fontane perenni, che per lo piú mettono capo ne’ monti, presso alle quali gli uccelli di rapina fanno i lor nidi (onde presso a tali fontane i cacciatori tendono loro le reti). I quali uccelli per ciò forse dagli antichi latini furono tutti chiamati «aquilae», [p. 233 modifica] quasi «aquilegae» (come certamente «aquilex» ci restò detto il «ritruovatore o raccoglitore dell’acqua»), perocché senza dubbio gli uccelli, de’ quali osservò gli auspíci Romolo per prender il luogo alla nuova cittá, dalla storia ci si narrano essere stati avvoltoi, che poi divennero aquile e furon i numi di tutti i romani eserciti. Cosí gli uomini semplici e rozzi, seguendo l’aquile, le quali credevano esser uccelli di Giove perché volan alto nel cielo, ritruovarono le fontane perenni, e ne venerarono quest’altro gran beneficio che fece loro il Cielo quando regnava in terra. E dopo quello de’ fulmini, gli piú augusti auspíci furon osservati i voli dell’aquile, che Messala e Corvino dissero «auspíci maggiori» ovvero «pubblici», de’ quali intendevano i patrizi romani quando nelle contese eroiche replicavano alla plebe «auspicia esse sua». Tutto ciò, dalla provvedenza ordinato per dar principio all’uman genere gentilesco, Platone stimò essere stati scorti provvedimenti umani de’ primi fondatori delle cittá. Ma nella barbarie ricorsa, che dappertutto distruggeva le cittá, nella stessa guisa si salvarono le famiglie, onde provennero le novelle nazioni d’Europa; e ne restarono agl’italiani dette «castella» tutte le signorie che novellamente vi sursero, perchè generalmente s’osserva le cittá piú antiche e quasi tutte le capitali de’ popoli essere poste sull’alto de’ monti, ed al contrario i villaggi sparsi per le pianure: onde debbono venire quelle frasi latine «summo loco», «illustri loco nati» per significar «nobili», e «imo loco», «obscuro loco nati» per dir «plebei», perché, come vedremo appresso, gli eroi abitavano le cittá, i famoli le campagne.

526Però, sopra tutt’altro, per le fontane perenni fu detto da’ politici che la comunanza dell’acqua fusse stata l’occasione che da presso vi si unissero le famiglie, e che quindi le prime comunanze si dicessero φρατρίαι da’ greci, siccome le prime terre vennero dette «pagi» a’ latini, come da’ greci dori fu la fonte chiamata παγά: ch’è l’acqua, prima delle due principali solennitá delle nozze. Le quali da’ romani si celebravano aqua et igni, perché i primi matrimoni naturalmente si contrassero tra uomini e donne ch’avevano l’acqua e il fuoco comune, [p. 234 modifica] e si erano d’una stessa famiglia; onde, come sopra si è detto, da’ fratelli e sorelle dovettero incominciare. Del qual fuoco era dio il lare di ciascheduna casa; dalla qual origine vien detto «focus laris» il fuocolaio, dove il padre di famiglia sagrificava agli dèi della casa. I quali nella legge delle XII Tavole, al capo De parricidio, secondo la lezione di Giacomo Revardo, son detti «deivei parentum»; e nella sagra storia si legge si frequente una simil espressione: «Deus parentum nostrorum», come piú spiegatamente: «Deus Abraham, Deus Isac, Deus Jacob». D’intorno a che è quella tralle leggi di Cicerone cosí conceputa: «Sacra familiaria perpetua manento»; ond’è la frase, si spessa nelle leggi romane, con la quale un figliuol di famiglia si dice essere «in sacris paternis», e si dice «sacra patria» essa paterna potestá, le cui ragioni ne’ primi tempi, come si dimostra in quest’opera, erano tutte credute sagre. Cotal costume si ha a dire essere stato osservato da’ barbari i quali vennero appresso: perché in Firenze, a’ tempi di GiovanniBoccaccio (come l’attesta nella Geanologia degli dèi), nel principio di ciascun anno il padre di famiglia, assiso nel focolaio a capo di un ceppo a cui s’appiccava il fuoco, gli dava l’incenso e vi spargeva del vino; lo che dalla nostra bassa plebe napoletana si osserva la sera della vigilia del santo Natale, che ’l padre di famiglia solennemente deve appiccare il fuoco ad un ceppo sí fatto nel fuocolaio; e per lo Reame di Napoli le famiglie dicono noverarsi per fuochi. Quindi, fondate le cittá, venne l’universal costume che i matrimoni si contraggono tra’ cittadini; e finalmente restò quello: che, ove si contraggono con istranieri, abbiano almen tra loro la religione comune.

527Ora, ritornando dal fuoco all’acqua, Stige, per cui giuravano i dèi, fu la sorgiva delle fontane: ove gli dèi debbon esser i nobili dell’eroiche cittá (come si è sopra detto), perché la comunanza di tal acqua aveva fatto loro i regni sopra degli uomini; onde fin al CCCIX di Roma i patrizi tennero i connubi incommunicati alla plebe, come se n’è detto alquanto sopra e piú appresso se ne dirá. Per tutto ciò nella storia sagra si leggono sovente o «pozzo del giuramento» o «giuramento del pozzo»: [p. 235 modifica] ond’esso nome serba questa tanto grande antichitá alla cittá di Pozzuoli, che fu detto «Puteoli» da piú piccioli pozzi uniti; ed è ragionevole congettura, fondata sul dizionario mentale ch’abbiamo detto, che tante cittá sparse per le antiche nazioni che si dicono nel numero del piú, da questa cosa, una in sostanza, si appellarono, con favella articolata, diversamente.

528Quivi si fantasticò la terza deitá maggiore, la qual fu Diana; che fu la prima umana necessitá, la quale si fece sentir a’ giganti fermati in certe terre e congionti in matrimonio con certe donne. Ci lasciarono i poeti teologi descritta la storia di queste cose con due favole di Diana. Delle quali una ce ne significa la pudicizia de’ matrimoni: ch’è quella di Diana, la quale, tutta tacita, al buio di densa notte, si giace con Endimione dormente; talch’è casta Diana di quella castitá onde una delle leggi di Cicerone comanda «Deos caste adeunto» (che si andasse a sagrificare, fatte le sagre lavande prima). L’altra ce ne narra la spaventosa religione de’ fonti, a’ quali restò il perpetuo aggiunto di «sagri»; ch’è quella d’Atteone, il quale, veduta Diana ignuda (la fontana viva), dalla dea spruzzato d’acqua (per dire che la dea gli gittò sopra il suo grande spavento), divenne cervo (lo piú timido degli animali) e fu sbranato da’ suoi cani (da’ rimorsi della propia coscienza per la religion violata); talché «lymphati» (propiamente «spruzzati d’acqua pura», ché tanto vuol dire «lympha») dovettero dapprima intendersi cotali Atteoni impazzati di superstizioso spavento. La qual istoria poetica serbarono i latini nella voce «latices» (che debbe venire a «latendo» ), c’hanno l’aggiunto perpetuo di «puri», e significano l’acqua che sgorga dalla fontana. E tali «latices» de’ latini devon essere le ninfe compagne di Diana appo i greci, a’quali «nymphae» significavano lo stesso che «lymphae»; e tali ninfe furon dette da’ tempi ch’apprendevano tutte le cose per sostanze animate e, per lo piú, umane, come sopra si è nella Metafisica ragionato.

529Appresso, i giganti pii, che furon i postati ne’ monti, dovettero risentirsi del putore che davano i cadaveri de’ lor trappassati, che marcivano loro da presso sopra la terra; onde si diedero [p. 236 modifica] a seppellirgli (de’ quali si sono truovati e tuttavia si ritruovano vasti teschi ed ossa per lo piú sopra l’alture de’ monti; ch’è un grand’argomento che de’ giganti empi, dispersi per le pianure e le valli dappertutto, i cadaveri marcendo inseppolti, furono i teschi e l’ossa o portati in mar da’ torrenti o macerati alfin dalle piogge), e sparsero i sepolcri di tanta religione, o sia divino spavento, che «religiosa loca» per eccellenza restaron detti a’ latini i luoghi ove fussero de’ sepolcri. E quivi cominciò l’universale credenza, che noi pruovammo sopra ne’ Principi (de’ quali questo era il terzo che noi abbiamo preso di questa Scienza), cioè dell’immortalitá dell’anime umane, le quali si dissero «dii manes» e nella legge delle XII Tavole, al capo De parricidio, «deivei parentum» si appellano. Altronde essi dovettero, in segno di seppoltura, o sopra o presso a ciascun tumulo, che altro dapprima non potè essere propiamente che terra alquanto rilevata (come de’ Germani antichi, i quali ci dan luogo di congetturare lo stesso costume di tutte l’altre prime barbare nazioni, al riferire di Tacito, stimavano di non dover gravare i morti di molta terra; ond’è quella preghiera per gli difonti: «Sii tibi terra levis»); dovettero, diciamo, in segno di seppoltura ficcar un ceppo, detto da’ greci φύλάζ che significa «custode», perché credevano, i semplici, che cotal ceppo il guardasse; e «cippus» a’ latini restò a significare «sepolcro», ed agl’italiani «ceppo» significa «pianta d’albero geanologico». Onde dovette venir a’ greci φυλή che significa «tribú»: e i romani descrivevano le loro geanologie disponendo le statue de’ lor antenati nelle sale delle loro case per fili, che dissero «stemmata» (che dev’aver origine da «temen», che vuol dir «filo»; ond’è subtemen, «filato», che si stende sotto nel tessersi delle tele); i quali fili geanologici poi da’ giureconsulti si dissero «lineae», e quindi «stemmata» restarono in questi tempi a significare «insegne gentilizie». Talch’è forte congettura che le prime terre con tali seppelliti sieno stati i primi scudi delle famiglie; onde dev’intendersi il motto della madre spartana, che consegna lo scudo al figliuolo che va alla guerra, dicendo; «aut cum hoc, aut in hoc», volendo dire «ritorna o con questo [p. 237 modifica] o sopra una bara»; siccome oggi in Napoli tuttavia la bara si chiama «scudo». E perché tai sepolcri erano nel fondo de’ campi, che prima furon da semina, quindi gli scudi nella scienza del blasone son diffiniti il «fondamento del campo», che poi fu detto «dell’armi».

530Da si fatta origine dee esser venuto detto «filius», il quale, distinto col nome o casato del padre, significò «nobile»; appunto come il patrizio romano udimmo sopra diffinito «qui potest nomine ciere patrem»: del qual «nome» de’ romani vedemmo sopra esser a livello il patronimico, il quale si spesso usarono i primi greci, onde da Omero si dicono «filii Achivorum » gli eroi, siccome nella sagra storia «filii Israel» sono significati i nobili del popolo ebreo. Talché è necessario che, se le tribú dapprima furono de’ nobili, dapprima di soli nobili si composero le cittá, come appresso dimostreremo.

531Cosí con essi sepolcri de’ loro seppelliti i giganti dimostravano la signoria delle loro terre; lo che restò in ragion romana di seppellire il morto in un luogo propio, per farlo religioso. E dicevano con veritá quelle frasi eroiche: «noi siamo figliuoli di questa terra», «siamo nati da queste roveri»; come i capi delle famiglie da’ latini si dissero «stirpes» e «stipites», e la discendenza di ciascheduno fu chiamata «propago»; ed esse famiglie dagl’italiani furon appellate «legnaggi»; e le nobilissime case d’Europa e quasi tutte le sovrane prendono i cognomi dalle terre da esse signoreggiate. Onde, tanto in greco quanto in latino, egualmente, «figliuol della Terra» significò lo stesso che «nobile»: ed a’ latini «ingenui» significano «nobili», quasi «indegeniti» e piú speditamente «ingenui»; come certamente «indigenae» restaron a significare i natii d’una terra, e «dii indigetes» si dissero i dèi natii, che debbon essere stati i nobili dell’eroiche cittá, che si appellarono «dèi», come sopra si è detto, de’ quali dèi fu gran madre la Terra. Onde da principio «ingenuus» e «patricius» significarono «nobile», perché le prime cittá furono de’ soli nobili; e questi «ingenui» devon essere stati gli aborigini, detti quasi «senza origini» ovvero «da sé nati», a’ quali rispondono a livello gli αὐτόχθονες [p. 238 modifica] che dicono i greci. E gli aborigini furon giganti, e «giganti» propiamente significano «figliuoli della Terra»; e cosí la Terra ci fu fedelmente narrata dalle favole essere stata madre de’ giganti e dei dèi.

532Le quali cose tutte sopra si sono da noi ragionate, e qui, ch’era luogo loro propio, si son ripetute per dimostrare che Livio mal attaccò cotal frase eroica a Romolo e a’ padri, di lui compagni, ove ai ricorsi nell’asilo aperto nel luco gli fa dire «esser essi figliuoli di quella terra», e ’n bocca loro fa divenire sfacciata bugia quella che ne’ fondatori de’ primi popoli era stata un’eroica veritá: tra perché Romolo era conosciuto reale d’Alba, e perché tal madre era stata loro pur troppo iniqua a produrre de’ soli uomini, tanto ch’ebbero bisogno di rapir le sabine per aver donne. Onde hassi a dire che, per la maniera di pensare de’ primi popoli per caratteri poetici, a Romolo, guardato come fondatore di cittá, furon attaccate le propietá de’ fondatori delle cittá prime del Lazio, in mezzo a un gran numero delle quali Romolo fondò Roma. Col qual errore va di concerto la diffinizione che lo stesso Livio dá dell’asilo: che fusse stato «vetus urbes condentium consilium»; che ne’ primi fondatori delle cittá, ch’erano semplici, non giá consiglio, ma fu natura che serviva alla provvidenza.

533Quivi si fantasticò la quarta divinitá delle genti dette «maggiori», che fu Apollo, appreso per dio della luce civile; onde gli eroi si dissero κλειτοί («chiari») da’ greci, da κλέος («gloria»), e si chiamarono «inclyti» da’ latini, da «cluer», che significa «splendore d’armi», ed in conseguenza da quella luce alla quale Giunone Lucina portava i nobili parti. Talché, dopo Urania — che sopra abbiam veduto esser la musa ch’Omero diffinisce «scienza del bene e del male», o sia la divinazione, come si è sopra detto, per la quale Apollo è dio della sapienza poetica ovvero della divinitá — quivi dovette fantasticarsi la seconda delle muse, che dev’essere stata Clio, la quale narra la storia eroica; e la prima storia sí fatta dovette incominciare dalle geanologie di essi eroi, siccome la sagra storia comincia dalle discendenze de’ patriarchi. A sí fatta storia dá Apollo il [p. 239 modifica] principio da ciò: che perseguita Dafne, donzella vagabonda che va errando per le selve (nella vita nefaria); e questa con l’aiuto ch’implorò degli dèi (de’ quali bisognavano gli auspíci ne’ matrimoni solenni), fermandosi, diventa lauro (pianta che sempre verdeggia nella certa e conosciuta sua prole, in quella stessa significazione ch’i latini «stipites» dissero i ceppi delle famiglie; e la barbarie ricorsa ci riportò le stesse frasi eroiche, ove dicono «alberi» le discendenze delle medesime, e i fondatori chiamano «ceppi» e «pedali», e le discendenze de’ provenuti dicono «rami», ed esse famiglie dicon «legnaggi»). Cosí il seguire d’Apollo fu propio di nume, il fuggire di Dafne propio di fiera; ma poi, sconosciuto il parlare di tal istoria severa, avvenne che ’l seguire d’Apollo fu d’impudico, il fuggire di Dafne fu di donna.

534Di piú Apollo è fratello di Diana, perché con le fontane perenni ebbero l’agio di fondarsi le prime genti sopra de’ monti; ond’egli ha la sua sede sopra il monte Parnaso, dove abitano le muse (che sono l’arti dell’umanitá), e presso il fonte Ippocrene, delle cui acque bevono i cigni, uccelli canori di quel «canere» o «cantare» che significa «predire» a’ latini; con gli auspíci d’un de’ quali, come si è sopra detto, Leda concepisce le due uova, e da uno partorisce Elena e dall’altro Castore e Polluce ad un parto.

535Ed Apollo e Diana sono figliuoli di Latona, detta da quel «latere» o «nascondersi» onde si disse «condere gentes», «condere regna», «condere urbes», e particolarmente in Italia fu detto «Latium». E Latona gli partorí presso l’acque delle fontane perenni, ch’abbiamo detto; al cui parto gli uomini diventaron ranocchie, le quali nelle piogge d’está nascono dalla terra, la qual fu detta «madre de’ giganti», che sono propiamente della Terra figliuoli. Una delle quali ranocchie è quella che a Dario manda Idantura; e devon essere le tre ranocchie e non rospi nell’arme reale di Francia, che poi si cangiarono in gigli d’oro, dipinte col superlativo del «tre», che restò ad essi francesi per significare una ranocchia grandissima, cioè un grandissimo figliuolo, e quindi signor della terra. [p. 240 modifica]

536Entrambi son cacciatori, che con alberi spiantati, uno de’ quali è la clava d’Ercole, uccidono fiere, prima per difendere sé e le loro famiglie (non essendo loro piú lecito, come a’ vagabondi della vita eslege, di camparne fuggendo), di poi per nudrirsene essi con le loro famiglie. Come Virgilio di tali carni fa cibare gli eroi, e i Germani antichi, al riferire di Tacito, per tal fine con le loro mogli ivano cacciando le fiere.

537Ed è Apollo dio fondatore dell’umanitá e delle di lei arti, che testé abbiam detto esser le muse, le quali arti da’ latini si dicono «liberales» in significato di «nobili», una delle quali è quella di cavalcare: onde il Pegaso vola sopra il monte Parnaso, il quale è armato d’ali, perch’è in ragione de’ nobili; e nella barbarie ricorsa, perch’essi soli potevano armare a cavallo, i nobili dagli spagnuoli se ne dissero «cavalieri». Essa umanitá ebbe incominciamento dall’«humare», «seppellire» (il perché le seppolture furono da noi prese per terzo principio di questa Scienza); onde gli ateniesi, che furono gli umanissimi di tutte le nazioni, al riferire di Cicerone, furon i primi a seppellire i lor morti.

538Finalmente Apollo è sempre giovine (siccome la vita di Dafne sempre verdeggia, cangiata in lauro), perché Apollo, coi «nomi» delle prosapie, eterna gli uomini nelle loro famiglie. Egli porta la chioma in segno di nobiltá; e ne restò costume a moltissime nazioni di portar chioma i nobili, e si legge tralle pene de’ nobili appo i persiani e gli americani di spiccare uno o piú capelli dalla lor chioma, e forse quindi dissero la «Gallia comata» da’ nobili che fondaron tal nazione, come certamente appo tutte le nazioni agli schiavi si rade il capo.

539Ma — stando essi eroi fermi dentro circoscritte terre, ed essendo cresciute in numero le lor famiglie, né bastando loro i frutti spontanei della natura, e temendo per averne copia d’uscire da’ confini che si avevano essi medesimi circoscritti per quelle catene della religione ond’i giganti erano incatenati per sotto i monti, ed avendo la medesima religione insinuato loro di dar fuoco alle selve per aver il prospetto del cielo, onde venissero loro gli auspici, — si diedero con molta, lunga, [p. 241 modifica] dura fatiga a ridurre le terre a coltura e seminarvi il frumento, il quale, brustolito tra gli dumeti e spinai, avevano forse osservato utile per lo nutrimento umano. E qui, con bellissimo naturale necessario trasporto, le spighe del frumento chiamarono «poma d’oro», portando innanzi l’idea delle poma, che sono frutte della natura che si raccogliono l’está, alle spighe, che pur d’está si raccogliono dall’industria.

540Da tal fatiga, che fu la piú grande e piú gloriosa di tutte, spiccò altamente il carattere d’Ercole, che ne fa tanta gloria a Giunone, che comandolla per nutrir le famiglie. E, con altrettanto belle quanto necessarie metafore, fantasticarono la terra per l’aspetto d’un gran dragone, tutto armato di squame e spine (ch’erano i di lei dumeti e spinai), finto alato (perché i terreni erano in ragion degli eroi), sempre vegghiante (cioè sempre folta), che custodiva le poma d’oro negli Orti esperidi, e daHll’umidore dell’acque del diluvio fu poi il dragone creduto nascere in acqua. Per un altro aspetto fantasticarono un’idra (che pur viene detta da ὕδωρ, «acqua»), che, recisa ne’ suoi capi, sempre in altri ripullulava; cangiante di tre colori: di nero (bruciata), di verde (in erbe), d’oro (in mature biade); de’ quali tre colori la serpe ha distinta la spoglia, e invecchiando la rinnovella. Finalmente, per l’aspetto della ferocia ad esser domata, fu finta un animale fortissimo (onde poi al fortissimo degli animali fu dato nome «lione»), ch’è ’l lione nemeo, che i filologi pur vogliono essere stato uno sformato serpente. E tutti vomitan fuoco, che fu il fuoco ch’Ercole diede alle selve.

541Queste furono tre storie diverse in tre diverse parti di Grecia, significanti una stessa cosa in sostanza. Come in altra fu quell’altra pur d’Ercole, che bambino uccide le serpi in culla (cioè nel tempo dell’eroismo bambino). In altra, Bellerofonte uccide il mostro detto Chimera, con la coda di serpe, col petto di capra (per significar la terra selvosa) e col capo di lione, che pur vomita fiamme. In Tebe è Cadmo ch’uccide pur la gran serpe e ne semina i denti (con bella metafora chiamando «denti della serpe» i legni curvi piú duri, co’ quali, innanzi [p. 242 modifica]

di truovarsi l’uso del ferro, si dovette arare la terra); e Cadmo divien esso anco serpe (che gli antichi romani arebbero detto che Cadmo «fundus factus est»), come alquanto si è spiegato sopra e sará spiegato molto piú appresso, ove vedremo le serpi nel capo di Medusa e nella verga di Mercurio aver significato «dominio di terreni»; e ne restò ὠφέλεια (da ὄφις, «serpe») detto il terratico, che fu pur detto «decima d’Ercole». Nel qual senso appo Omero si legge che l’indovino Calcante la serpe, la qual si divora gli otto passarini e la madre altresí, interpetra la terra troiana ch’a capo di nove anni verrebbe in dominio de’ greci; e i greci, mentre combattono co’ troiani, una serpe uccisa in aria da un’aquila, che cade in mezzo alla lor battaglia, prendono per buon augurio, in conformitá della scienza dell’indovino Calcante. Perciò Proserpina, che fu la stessa che Cerere, si vede ne’ marmi rapita in un carro tratto da serpi; e le serpi si osservano sí spesse nelle medaglie delle greche repubbliche.

542Quindi per lo dizionario mentale (ed è cosa degna di riflettervi) gli re americani, al cantare di Fracastoro la sua Sifilide, furono ritruovati, invece di scettro, portar una spoglia secca di serpe. E i chinesi caricano di un dragone la lor arme reale e portano un dragone per insegna dell’imperio civile, che dev’essere stato Dragone ch’agli ateniesi scrisse le leggi col sangue; e noi sopra dicemmo tal Dragone essere una delle serpi della Gorgone, che Perseo inchiovò al suo scudo, che fu quello poi di Minerva, dea degli ateniesi, col cui aspetto insassiva il popolo riguardante, che truoverassi essere stato geroglifico dell’imperio civile d’Atene. E la Scrittura sagra, in Ezechiello, dá al re di Egitto il titolo di «gran dragone» che giace in mezzo a’ suoi fiumi, appunto come sopra si è detto i dragoni nascer in acqua e l’idra aver dall’acqua preso tal nome. L’imperador del Giappone ne ha fatto un ordine di cavalieri, che portano per divisa un dragone. E de’ tempi barbari ritornati narrano le storie che per la sua gran nobiltá fu chiamata al ducato di Melano la casa Visconti, la quale carica lo scudo d’uno dragone che divora un fanciullo; ch’è appunto il Pitone, [p. 243 modifica] il quale divorava gli uomini greci e fu ucciso da Apollo, ch’abbiamo ritruovato dio della nobiltá: nella qual impresa dee far maraviglia l’uniformitá del pensar eroico degli uomini di questa barbarie seconda con quella degli antichissimi della prima. Questi adunque devon essere i due dragoni alati, che sospendono la collana delle pietre focaie, ch’accesero il fuoco che essi vomitano, e sono due tenenti del Toson d’oro, che ’l Chiflezio, il quale scrisse l’istoria di quell’insigne ordine, non potè intendere, onde il Pietrasanta confessa esserne oscura l’istoria.

543Come in altre parti di Grecia fu Ercole ch’uccise le serpi, il lione, l’idra, il dragone; in altra, Bellerofonte ch’ammazzò la Chimera: cosí in altra fu Bacco ch’addimestica tigri, che dovetter esser le terre vestite cosí di vari colori come le tigri han la pelle, e passonne poi il nome di «tigri» agli animali di tal fortissima spezie. Perché aver Bacco dome le tigri col vino è un’istoria fisica, che nulla apparteneva a sapersi dagli eroi contadini ch’avevano da fondare le nazioni; oltreché nommai Bacco ci fu narrato andar in Affrica o in Ircania a domarle in que’ tempi, ne’ quali, come dimostreremo nella Geografia poetica, non potevano saper i greci se nel mondo fusse l’Ircania e molto meno l’Affrica, nonché tigri nelle selve d’Ircania o ne’ deserti dell’Affrica.

544Di piú le spighe del frumento dissero «poma d’oro», che dovett’essere il primo oro del mondo, nel tempo che l’oro metallo era in zolle, né se ne sapeva ancor l’arte di ridurlo purgato in massa, nonché di dargli lustro e splendore; né, quando si beveva l’acqua dalle fontane, se ne poteva punto pregiare l’uso. Il quale poi, dalla somiglianza del colore e sommo pregio di cotal cibo in que’ tempi, per trasporto fu detto «oro»; onde dovette Plauto dire «thesaurum auri», per distinguerlo dal «granaio». Perché certamente Giobbe, tralle grandezze dalle quali egli era caduto, novera quella: ch’esso mangiava pan di frumento; siccome ne’ contadi delle nostre piú rimote provincie si ha, a luogo di quello che sono nelle cittá le «pozioni gemmate », gli ammalati cibarsi di pan di grano, e si dice «l’infermo si ciba di pan di grano» per significare lui essere nell’ultimo di sua vita. [p. 244 modifica]

545Appresso, spiegando piú l’idea di tal pregio e carezza, dovettero dire «d’oro» le belle lane; onde appo Omero si lamenta Atreo che Tieste gli abbia le pecore d’oro rubato; e gli argonauti rubarono il vello d’oro da Ponto. Perciò lo stesso Omero appella i suoi re o eroi col perpetuo aggiunto di πολύμηλος, ch’interpetrano «ricchi di greggi»; siccome dagli antichi latini, con tal uniformitá d’idee, il patrimonio si disse «pecunia», ch’i latini gramatici vogliono esser detta a «pecude»; come appo i Germani antichi, al narrare di Tacito, i greggi e gli armenti «solae et gratissimae opes sunt»: il qual costume deve esser lo stesso degli antichi romani, da’ quali il patrimonio si diceva «pecunia», come l’attesta la legge delle XII Tavole, al capo De’ testamenti. E μῆλον significa e «pomo» e «pecora» ai greci, i quali, forse anche con l’aspetto di pregevole frutto, dissero μέλι il mèle; e gl’italiani dicono «meli» esse poma.

546Talché queste del frumento devon essere state le poma d’oro, le quali prima di tutt’altri Ercole riporta ovvero raccoglie da Esperia; e l’Ercole gallico con le catene di quest’oro, le quali gli escon di bocca, incatena gli uomini per gli orecchi, come appresso si truoverá esser un’istoria d’intorno alla coltivazione de’ campi. Quindi Ercole restò nume propizio a ritruovare tesori, de’ quali era dio Dite, ch’è ’l medesimo che Plutone, il quale rapisce nell’inferno Proserpina, che truoverassi la stessa che Cerere (cioè il frumento), e la porta nell’inferno narratoci da’ poeti, appo i quali il primo fu dov’era Stige, il secondo dov’erano i seppelliti, il terzo il profondo de’ solchi, come a suo luogo si mostrerá. Dal qual dio Dite son detti «dites» i ricchi; e i ricchi eran i nobili, ch’appo gli spagnuoli si dicono «ricos hombres», ed appo i nostri anticamente si dissero «benestanti»; ed appo i latini si disse «ditio» quella che noi diciamo «signoria d’uno Stato», perché i campi colti fanno la vera ricchezza agli Stati, onde da’ medesimi latini si disse «ager» il distretto d’una signoria, ed «ager», propiamente, è la terra che «aratro agitur». Cosí dev’esser vero che ’l Nilo fu detto χρυορόης, «scorrente oro», perché allaga i larghi campi d’Egitto, dalle cui innondazioni vi proviene la grande [p. 245 modifica] abbondanza delle raccolte: cosí «fiumi d’oro» detti il Pattolo. il Gange, l’Idaspe, il Tago, perché fecondano le campagne di biade. Di queste poma d’oro certamente Virgilio, dottissimo dell’eroiche antichitá, portando innanzi il trasporto, fece il ramo d’oro che porta Enea nell’inferno; la qual favola qui appresso, ove sará suo piú pieno luogo, si spiegherá. Del rimanente, l’oro metallo non si tenne a’ tempi eroici in maggior pregio del ferro: come Tearco, re di Etiopia, agli ambasciadori di Cambise, i quali gli avevano presentato da parte del loro re molti vasi d’oro, rispose non riconoscerne esso alcun uso e molto meno necessitá, e ne fece un rifiuto naturalmente magnanimo; appunto come degli antichi Germani (ch’in tali tempi si truovarono essere questi antichissimi eroi i quali ora stiam ragionando) Tacito narra: «Est videre apud illos argentea vasa legatis et principibus eorum muneri data, non alla vilitate quam quae humo finguntur». Perciò appo Omero nell’armarie degli eroi si conservano con indifferenza armi d’oro e di ferro, perché il primo mondo dovette abbondare di sí fatte miniere (siccome fu ritruovata nel suo scuoprimento l’America), e che poi dall’umana avarizia fussero esauste.

547Da tutto lo che esce questo gran corollario: che la divisione delle quattro etá del mondo, cioè d’oro, d’argento, di rame e di ferro, è ritruovato de’ poeti do’ tempi bassi; perché quest’oro poetico, che fu il frumento, diede appo i primi greci il nome all’etá dell’oro, la cui innocenza fu la somma selvatichezza de’ polifemi (ne’ quali riconosce i primi padri di famiglia, come altre volte si è sopra detto, Platone), che si stavano tutti divisi e soli per le loro grotte con le loro mogli e figliuoli, nulla impacciandosi gli uni delle cose degli altri, come appo Omero raccontava Polifemo ad Ulisse.

548In confermazione di tutto ciò che finora dell’oro poetico si è qui detto, giova arrecare due costumi, ch’ancor si celebrano, de’ quali non si possono spiegar le cagioni se non sopra questi principi. Il primo è del pomo d’oro, che si pone in mano agli re tralle solennitá della lor coronazione; il quale dev’esser lo stesso che nelle lor imprese sostengono in cima alle loro [p. 246 modifica] corone reali. Il qual costume non può altronde aver l’origine che dalle poma d’oro, che diciamo qui, del frumento, che anco qui si truoveranno essere stato geroglifico del dominio ch’avevano gli eroi delle terre (che forse i sacerdoti egizi significarono col pomo, se non è uovo, in bocca del loro Cnefo, del quale appresso ragionerassi), e che tal geroglifico ci sia stato portato da’ barbari, i quali invasero tutte le nazioni soggette all’imperio romano. L’altro costume è delle monete d’oro, che tralle solennitá delle loro nozze gli re donano alle loro spose regine; che devono venire da quest’oro poetico del frumento che qui diciamo (tanto che esse monete d’oro significano appunto le nozze eroiche che celebrarono gli antichi romani «coëmptione et farre»), in conformitá degli eroi, che racconta Omero che con le doti essi comperavan le mogli. In una pioggia del qual oro dovette cangiarsi Giove con Danae, chiusa in una torre (che dovett’esser il granaio), per significare l’abbondanza di questa solennitá; con che si confá a maraviglia l’espression ebrea «et abundantia in turribus tuis». E ne fermano tal congettura i britanni antichi, appo i quali gli sposi, per solennitá delle nozze, alle spose rigalavano le focacce.

549Al nascere di queste cose umane, nelle greche fantasie si destarono tre altre deitadi delle genti maggiori, con quest’ordine d’idee, corrispondente all’ordine d’esse cose; prima Vulcano, appresso Saturno (detto a «satis», da’seminati; onde l’etá di Saturno de’ latini risponde all’etá dell’oro de’ greci) e in terzo luogo fu Cibele o Berecintia, la terra colta. E perciò si pinge assisa sopra un lione (ch’è la terra selvosa, che ridussero a coltura gli eroi, come si è sopra spiegato); detta «gran madre degli dèi», e «madre» detta ancor «de’ giganti» (che, propiamente, cosí furon detti nel senso di «figliuoli della Terra», come sopra si è ragionato); talché è madre degli dèi (cioè de’ giganti, che nel tempo delle prime cittá s’arrogarono il nome di «dèi», come pur sopra si è detto), e l’è consegrato il pino (segno della stabilitá onde gli autori de’ popoli, stando fermi nelle prime terre, fondarono le cittá, dea delle quali è Cibele). Fu ella detta Vesta, dea delle [p. 247 modifica] divine cerimonie appresso i romani, perché le terre, in tal tempo arate, furono le prime are del mondo (come vedremo nella Geografia poetica ), dove la dea Vesta, con fiera religione armata, guardava il fuoco e ’l farro, che fu il frumento degli antichi romani. Onde appo gli stessi si celebrarono le nozze «aqua et igni» e col farro, che si chiamavano «nuptíae confarreatae», che restarono poi a’ soli lor sacerdoti, perché le prime famiglie erano state tutte di sacerdoti (come si sono ritruovati i regni de’ bonzi nell’Indie orientali); e l’acqua e’l fuoco e’l farro furono gli elementi delle divine cerimonie romane. Sopra queste prime terre Vesta sagrificava a Giove gli empi dell’infame comunione, i quali violavano i primi altari (che abbiam sopra detto esser i primi campi del grano, come appresso si spiegherá); che furono le prime ostie, le prime vittime delle gentilesche religioni: detti «Saturni hostiae», come si è osservato sopra, da Plauto; detti «victimae» a «victis», dall’esser deboli, perché soli (ch’in tal sentimento di «debole» è pur rimasto a’ latini «victus»); e detti «hostes», perché furon tali empi, con giusta idea, riputati nimici di tutto il gener umano. E restonne a’ romani e le vittime e l’ostie impastarsi e la fronte e le corna di farro. Da tal dea Vesta i medesimi romani dissero «vergini vestali» quelle che guardavano il fuoco eterno, il quale, se per mala sorte spegnevasi, si doveva riaccender dal sole, perché dal sole, come vedremo appresso, Prometeo rubò il primo fuoco e portollo in terra tra’ greci, dal quale appiccato alle selve, incominciaron a coltivar i terreni. E per ciò Vesta è la dea delle divine cerimonie a’ romani, perché il primo «colere» che nacque nel mondo della gentilitá fu il coltivare la terra, e ’l primo culto fu ergere sí fatti altari, accendervi tal primo fuoco e farvi sopra sacrifici, come testé si è detto, degli uomini empi.

550Tal è la guisa con la quale si posero e si custodirono i termini ai campi. La qual divisione, come si è narrata troppo generalmente da Ermogeniano giureconsulto — che si è immaginata fatta per deliberata convenzione degli uomini, e riuscita con tanta giustizia e osservata con altrettanto di buona fede, [p. 248 modifica] in tempi che non vi era ancora forza pubblica d’armi, e ’n conseguenza niuno imperio civile di leggi, — non può affatto intendersi che con l’essere stata fatta tra uomini sommamente fieri ed osservanti d’una qualche spaventosa religione, che gli avesse fermi e circoscritti entro di certe terre, e con queste sanguinose cerimonie avessero consagrato le prime mura, che pur i filologi dicono essere state descritte da’ fondatori delle cittá con l’aratro, la cui curvatura, per le origini delle lingue che si sono sopra scoverte, dovette dirsi dapprima «urbs», ond’è l’antico «urbum», che vuol dire «curvo». Dalla quale stessa origine forse è «orbis»; talché dapprima «orbis terrae» dovett’essere ogni ricinto sí fatto, cosí basso che Remo passò con un salto e vi fu ucciso da Romolo, e gli storici latini narrano aver consegrato col suo sangue le prime mura di Roma. Talché tal ricinto dovett’essere una siepe (ed appo i greci «σῆψ» significa «serpe», nel suo significato eroico di «terra colta»); dalla quale origine deve venir detto «munire viam», lo che si fa con afforzare le siepi a’ campi; onde le mura son dette «moenia», quasi «mania», come «munire» certamente restò per «fortificare». Tali siepi dovetter esser piantate di quelle piante ch’i latini dissero «sagmina», cioè di sanginelli, sambuci, che finoggi ne ritengono e l’uso e ’l nome; e si conservò tal voce «sagmitia» per significar l’erbe di che si adornavan gli altari, e dovettero cosí dirsi dal «sangue» degli ammazzati, che, come Remo, trascese l’avessero. Di che venne la santitá alle mura, come si è detto; ed agli araldi altresí, che, come vedremo appresso, si coronavano di sí fatt’erbe, come certamente gli antichi ambasciadori romani il facevano con quelle còlte dalla ròcca del Campidoglio; e finalmente alle leggi ch’essi araldi portavano o della guerra o della pace: ond’è detta «sanctio» quella parte della legge ch’impon la pena a’ di lei trasgressori. E quindi comincia quello che noi pruoviamo in quest’opera: che ’l diritto natural delle genti fu dalla divina provvedenza ordinato tra’ popoli privatamente, il quale, nel conoscersi tra di loro, riconobbero esser loro comune. Che, perché gli araldi romani consagrati con sí fatt’erbe fussero inviolati [p. 249 modifica] tra gli altri popoli del Lazio, è necessario che quelli, senza saper nulla di questi, celebrassero lo stesso costume.

551Cosí i padri di famiglia apparecchiarono la sussistenza alle loro famiglie eroiche con la religione, la qual esse con la religione si dovessero conservare. Onde fu perpetuo costume de’ nobili d’esser religiosi, come osserva Giulio Scaligero nella Poetica: talché dee esser un gran segno che vada a finire una nazione, ove i nobili disprezzano la loro religione natia.

552Si è comunemente oppinato, e da’ filologi e da’ filosofi, che le famiglie nello stato che dicesi «di natura» sieno state non d’altri che di figliuoli; quando elleno furono famiglie anco de’ famoli, da’ quali principalmente furon dette «famiglie»: onde sopra tal monca iconomica stabilirono una falsa politica, come si è sopra accennato e pienamente appresso si mostrerá. Però noi da questa parte de’ famoli, ch’è propia della dottrina iconomica, incominceremo qui della politica a ragionare.