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LA PUPILLA 193
Marito fui; ma che fu breve il termine

De’ miei contenti, e che morì la misera
Nello sgravarsi del suo primo ed unico
Parto immaturo.
Panfilo.   Fece maschio o femmina?
Luca. Nol so, nol seppi mai. Partii per ordine
Del Duca nostro di Milano, e in Bergomo
Ero nel dì della fatal mia perdita.
N’ebbi l’annunzio; a ritornar sollecito
Mi affrettai. Ma a che prò? La madre e il tenero
Parto trovai sotterra, e dalla stolida
Nutrice invano ricavar poterono
Cento parole mie del parto il genere:
Al cugin vostro (mi dicea) chiedetelo;
Poi sorrideva, e mio cugino Ermofilo
Mi consigliava a non cercar d’affliggermi.
Ciò mi fe’ creder che di un figlio maschio
Padre stato foss’io, prima di stringerlo
Al sen paterno, già ridotto in cenere.
Panfilo. In tempo siete di rifarvi al doppio
Dell’ingiuria di morte. Padron, giuravi,
Non passa un anno che la giovin tumida
Di voi vedete, e vi regala un bambolo.
Luca. I miei congiunti che diran se prendomi
Questa per moglie, che pupilla affidami
La buona fede del cugino Ermofilo?
Panfilo. È figlia sua?
Luca.   Sì, n’ebbe quattro, e in termine
Di due anni tre maschi a morte andarono.
Gli restò questa figlia, e a me più prossimo
Parente suo la consegnò, partitosi
Per Roma, ov’egli ancor finì di vivere.
Panfilo. Tanto più, s’egli è morto, a voi sol spettasi
Di lei disporre, ed al suo ben provvedere.
E provvedendo al suo sicuro e stabile,