La peruviana/Atto IV
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ATTO QUARTO.
SCENA PRIMA.
Monsieur RIGADON. poi PASQUINO.
Mezz’ora è che son giunto, e non si vede alcuno.
Dei forastier le mule stan colla sella in dosso,
Par che voglian partire; lo vuo’ saper, s’io posso.
Ehi, v’è nessuno in casa?
Pasquino. Signor, comanda niente?
Rigadon. Che vuol dir che persona in casa non si sente?
Pasquino. Sono chi in qua, chi in là; chi è in camera serrato,
Chi nel giardin sedendo, chi passeggiando il prato.
Rigadon. Deterville dov’è?
Pasquino. Nella sua stanza è chiuso.
Pel buco della chiave spiai ch’egli fremeva;
Ehi, se volete ridere, sentite che diceva:
Sia maladè... quel punto, ch’io vidi... signor sì;
E maladè... quel giorno, ch’io son venuto qui.
Cospetto... cospettone... (oimè, mi fé’ tremare)
Con colei voglio dire, con colui voglio fare.
Sia maladè... quel foglio, e quel che l’ha mandato.
Possa portar il diascane colui di mio cognato.
Rigadon. Così dicea?
Pasquino. Così. Signor, saper vorrei:
Chi è suo cognato?1
Rigadon. Io sono.
Pasquino. Mi rallegro con lei.
Rigadon. Parla così di me?
Pasquino. Ditemi un’altra cosa:
Del padron la sorella, ditemi, di chi è sposa?
Rigadon. (Non sa di più il ragazzo. Della consorte mia
Che vorrà dir?) Lo sposo non ti so dir qual sia.
Pasquino. Sarà un uomo cattivo.
Rigadon. Perchè?
Pasquino. Dai labbri sui
Tutto il mal che può dirsi, sentito ho a dir di lui:
Ch’è un avaro, indiscreto, vecchio di mala grazia,
Che il Cielo a lei l’ha dato per far la sua disgrazia.
Che il diamine a Parigi per tentazion mandollo,
E che pregava il Cielo ch’ei si rompesse il collo.
Rigadon. Ha dett’altro?
Pasquino. Non so, perchè la cameriera
Che non mi può vedere, che è femmina ciarliera,
Ha detto alla signora ch’io stava in un cantone;
Ed ella m’ha scacciato, m’ha dato un mostaccione.
Rigadon. Valla a chiamare, e dille che adesso venga qui.
Pasquino. Chi?
Rigadon. Madama.
Pasquino. Oh perdonate, andar non son sì scaltro;
Sento lo schiaffo ancora, e non ne voglio un altro.
Rigadon. Non temer, s’io ti mando.
Pasquino. Signor, chiedo perdono.
Ditemi pria chi siete.
Rigadon. Il suo consorte io sono.
Pasquino. Voi suo consorte?
Rigadon. Sì.
Pasquino. Vado a chiamarla, affé.
Rendetele lo schiaffo, ch’ella m’ha dato a me.
Ora che mi ricordo, di voi detto ha così,
Che non valete niente... e poi... e signor sì. parte
SCENA II.
Monsieur Rigadon. poi Madama Cellina.
Se non fosse un riguardo, vorrei precipitarmi.
Da lei, da suo fratello andarmene vorrei,
Se non avessi in cuore la dote e i figli miei.
Cellina. Ben tornato, signore.
Rigadon. Ben trovata, madama.
Scusi se l’ho sturbata.
Cellina. Siete voi che mi chiama?
Rigadon. Son io per ringraziarla.
Cellina. Di che?
Rigadon. D’ogni insolenza
Che di me dir le piacque, dopo la mia partenza.
Cellina. Via non facciamo scene, so quel che dir volete.
Pasquino è un ragazzaccio, e voi mi conoscete.
Partiste per Parigi senza dir niente a me.
Ma dopo che ho veduto il foglio che mandaste,
Ho benedetto il punto che alla cittade andaste.
Tutto è vero, verissimo, ciò che in quel foglio è scritto:
Zilia lo vide, e ha il cuore di gelosia trafitto2.
Testè la ritrovai nel bosco a pianger sola.
Aza confuso resta, non dice una parola.
Onde sperar possiamo a Deterville conforto,
E voi ne avrete il merto, voi diligente e accorto.
Rigadon. Io son chi sono alfine, e voi ve ne abusate.
Penso al ben della casa, e voi mi strapazzate.
Cellina. Ma non parliam di questo; parliam di quel che preme.
A terminar la cosa consigliamoci insieme.
Rigadon. Dicon che Deterville condanni il foglio anch’esso.
Cellina. A Zilia nelle mani lo fe’ passare ei stesso;
Dunque non lo condanna, ma nel vederla afflitta
Maledice talora la carta e chi l’ha scritta.
Rigadon. E in ogni circostanza, e in tutte le occasioni,
A me scarica ognuno le sue maledizioni.
Cellina. Questa volta, credete...
Rigadon. Eh! questa volta io spero
Farla come va fatta. Vuo’ vincerla davvero.
Ho un decreto in saccoccia, ho un forastier con me.
Ho protezion d’amici, ho l’intenzion del re.
E poi un segretino io so dei Peruviani,
Che se sposar si vogliono, dovranno andar lontani.
Basta, non vuo’ dir nulla.
Cellina. A me dir si potrà.
Rigadon. Certo, se a voi Lo dico, nessuno lo saprà! (con ironia
Cellina. Non si saprà, lo giuro.
Rigadon. Voi siete la prudente.
Cellina. Voglio che me lo dite3
Rigadon. Non voglio dirvi niente, parte
Verde mi viene il sangue, tutto l’interno ho smosso.
Ma non lo lascio in pace; vuo’ corrergli dappresso,
Fin che mi dica il vero. Voglio saperlo adesso, parte
SCENA III.
Monsieur Deterville, poi Donna Zulmira.
Non mi chiamar nemico, se amante non vuoi dirmi.
Hai tu rossor ch’io sappia ch’ami un amante infido?
Colpa non ha il tuo cuore, che di costanza è il nido.
Ma s’ei crudel ti lascia, s’altra bellezza onora,
Vendica i torti tuoi, volgiti a chi t’adora.
Sposami, e son contento, anima mia diletta;
Se per amor ricusi, fallo almen per vendetta.
Ah soffrirei vedermi ad una sposa unito.
Che sol per onta e sdegno scelto avesse il marito?
No, non fia mai; si mora pria che si renda il cuore
Vittima vergognosa d’un sì funesto amore.
E veggasi l’ingrata, sciolta da sua catena,
Soffrir gli altrui disprezzi della mia morte in pena.
Vegga per chi sospira; vegga chi sprezza e sdegna.
Ah no, la sventurata di miglior sorte è degna.
Zulmira. Signore, Aza dov’è?
Deterville. Non sarà lungi, io credo.
Zulmira. Lo vuole il padre mio; si cerca, e non lo vedo.
Deterville. Lo troveranno i servi.
Zulmira. I miei ne vanno in traccia.
Deterville. Aza che ha, che non parla?
Zulmira. Fa il suo rossor ch’ei taccia.
Deterville. Arrossisce? Di che?
Zulmira. D’esser nel duro stato
O di mancar di fede, o comparire ingrato.
Zulmira. Interpretar suoi moti non mi lusingo in vano.
Deterville. Deh non vi spiaccia il vero svelarmi: Aza v’adora?
Zulmira. Che mi ami io mi lusingo, ma non mel disse ancora.
Deterville. Perchè, s’egli vi amasse, celar le fiamme in petto?
Zulmira. Per soggezion di Zilia ch’è il suo primiero affetto.
Deterville. Di lei, qual si credeva, amante or non si vede.
Zulmira. Or per desio non l’ama; ma per costanza e fede.
Deterville. Par che veggiate in lui, come in cristallo il cuore.
Zulmira. Il di lui cor conosco, e mi fe’ scaltra amore.
Deh piacciavi, signore, udir labbro sincero;
Poi fatemi giustizia, s’io non m’appongo al vero.
Allor che fu da’ nostri Zilia al Perù rapita,
Aza per riacquistarla volle arrischiar la vita.
E più guerrieri uniti, e armato più d’un legno,
Corse veloce in mare, pien di feroce sdegno.
Non vi dirò se l’onda spumasse o non spumasse,
Che termini cotali4 non son per la mia classe;
Ma so che cogl’Ispani venne a battaglia a un tratto,
Fu combattuto e vinto, e prigionier fu fatto.
Alla sua patria alfine il padre mio sen viene,
Aza che fu sua preda, guida fra sue catene.
Ma tanto l’ama e tanto il grado suo rispetta,
Che trattalo qual figlio, e in casa lo ricetta.
Zilia, che dei Francesi seppe in poter venuta,
Credea con fondamento per sempre aver perduta.
Fra le sue pene intenta a consolarlo er’io,
Ma a lui rendeva il cuore, e si perdeva il mio.
Piango, sospiro, e taccio. Alfine ei se ne avvede;
Fissa in me gli occhi, e i miei gli chiedono mercede.
Spesso più dell’usato a me d’intorno il vedo,
Parlar più dolce il sento, se di parlargli io chiedo.
Lascia che lungamente più dell’usato il miri,
E par che si compiaccia troncare i miei sospiri.
Vedevalo vicino a dirlo al padre mio.
Quando alla patria nostra recò perfida stella,
Nemica al mio riposo, di Zilia la novella.
Vidi restar confuso Aza più che contento,
Conobbi in quii’ istante del cuore il turbamento.
Sperai che il novel foco spento avesse l’antico.
Ma lo sperar fu vano; Aza di fede è amico.
Parea che mi volesse chieder perdon, tacendo;
Gli fo saper coi sguardi che il suo dolor comprendo;
Onde l’amor di due alme a goder vicine
Negli occhi ebbe il principio, ebbe negli occhi il fine.
Aza mostrò desio di riveder la sposa;
Tutte provai le smanie d’un’anima gelosa;
Ma dissi fra me stessa, ciò che soffrir conviene,
Merto mi rechi almeno in mezzo alle mie pene.
Io fui che al genitore dissi, a Parigi andiamo;
Aza colà si scorti, la suora mia veggiamo.
Ah non fu il cor bugiardo nel consigliarmi allora:
Vanne con lui, mi disse; puoi lusingarti ancora.
Seco son qui venuta. Veggo che Zilia a voi
Grata il dover vorrebbe, quanto vuol Aza a noi.
Veggo d’amor gli sforzi alla virtude in faccia.
Finor tace ogni labbro, vuol la ragion5 ch’io taccia;
Uno a parlar principii, il mio sarà il secondo.
Datemi voi coraggio, ed io non mi confondo.
Deterville. Nuove speranze in petto da voi destar mi sento;
Se Aza per voi sospira, poss’essere contento.
Vero egli è, che la fede obbliga un’alma onesta;
Ma Zilia ancor potrebbe assolverlo da questa.
E coll’esempio in faccia d’un che lo fa con lei,
Potrebbe con amore pagar gli affetti miei.
Zulmira. Zilia lo sa? Sospetta d’Aza e di me?
Da un foglio il di lei cuore fu d’ogni cosa istrutto:
Anzi dal foglio stesso può sospettar più ancora.
Zulmira. Il vero facilmente col falso si colora.
Lo so che degli amanti non può celarsi il foco,
Ma si arguisce il molto, quando traspare il poco.
Di quel che dica un foglio, non prendomi pensiero,
Spiacemi che si creda un ben che non è vero.
Deterville. S’ha da scoprir l’arcano; Zilia che piange e freme,
S’ha da trovar fra poco col Peruviano insieme.
So ch’ei lo brama, ed ella è irresoluta ancora.
Ma farò io che vada ad ascoltarlo or ora.
51 sveleranno il cuore; diran le loro pene...
Zulmira. No signor, perdonate. Così non andrà bene.
Due corrucciati amanti, se son da solo a sola,
Può per rappattumarli bastare una parola.
Si veggano, si parlino, sciolgansi (il Ciel lo voglia);
Ma noi non siam lontani però da quella soglia.
Sentiam, se fia possibile, quel che fra lor si dice.
Deterville. Perdonate, signora, cotanto a noi non lice.
In libertà si lascino parlare a lor talento.
Tale il dover mi sembra, tale è il mio sentimento.
Se sciolgonsi fra loro, sperar potremo noi.
Io soffrirò, se si amano; soffritelo anche voi. parte
SCENA IV.
Zulmira, poi Don Alonso.
Esser non mostrerebbe cotanto delicato.
Non dico ch’ei d’amore tenti rapire il frutto;
Ma, salva l’onestade, dee provvedere a tutto:
O son de’ miei affetti minor gli affetti sui,
O in cuor, benché sia donna, più coraggio ho di lui.
Zulmira. Dove?
Alonso. Dove il dover ci appella.
Sono le sedie pronte.
Zulmira. (Oh questa è una più bella).
Alonso. Andiam.
Zulmira. Da questa casa partir sì d’improvviso?
Alonso. Niuno di questa casa m’ha ancor guardato in viso.
Zulmira. Qui Deterville poc’anzi mille onestà mi fece.
Alonso. Far le dovea dapprima al genitore invece.
Zulmira. Egli vi cerca.
Alonso. In vano di trattenermi or spera.
Tant’è; voglio a Parigi tornar innanzi sera.
Zulmira. Possibile che niuno v’abbia finor parlato?
Alonso. Parlommi una superba, parlommi un mal creato.
Niuno di lor mi fece quell’onestà che si usa:
Venne un fattor di villa per essi a far la scusa.
Così coi forastieri si tratta in questo suolo?
Così s’accoglie in Francia un cavalier spagnuolo?
Zulmira. Di Deterville il cuore è pien di cortesia.
Ne sarete contento.
Alonso. Non più; voglio andar via.
Zulmira. Aza verrà?
Alonso. Nol vedo.
Zulmira. Resterà senza noi?
Alonso. Vuol l’onor mio ch’io parta. Aza verrà dappoi.
Zulmira. Concedete, signore, a me una grazia sola:
Pria di partir, ch’io dica ad Aza una parola.
Alonso. Questa premura vostra desta in me del sospetto.
Zulmira. Parlargli non ricuso anche al vostro cospetto.
Son mesi che viviamo l’uno dell’altro appresso.
Abbiam viaggiato insieme, e sospettate adesso?
Possibile?
Alonso. Non più, il contraddirmi è orgoglio.
Pronta a obbedirmi siate, quando vi dico, io voglio.
Alonso. Ecco la porta, andate.
Zulmira. Aza dovrò lasciare?
Alonso. Come! Voi lacrimate?
Ah Zulmira, Zulmira, quel vostro pianto indegno
Accresce i miei sospetti, moltiplica il mio sdegno.
Tosto si parta.
Zulmira. (Tosto? senza vederlo? Oh Dio!)
SCENA V.
Pierotto e detti.
Alonso. Che richiedete?
Pierotto. Mi manda il padron mio.
Alonso. Chi? Deterville?
Pierotto. Appunto; or servo la signora,
Ma egli fu mio padrone, e sarà tale ognora.
Alonso. Ben, che vuole da me? Sappia ch’io parto.
Pierotto. Il sa
Ch’eravate disposto d’andare alla città.
Veduti ha colle selle i muli ed i cavalli;
Ma ha fatto che ogni bestia si stacchi e che s’installi.
Pregandovi umilmente, signore, in cortesia,
Restar per qualche giorno...
Alonso. No, no, voglio andar via.
L’ho detto, l’ho ridetto, non voglio altri riguardi.
Ora mi fa gli onori? ora m’invita? È tardi.
Restate qui, Zulmira, fino che a voi ritorno.
Io voglio ad ogni costo partire in questo giorno, parte
SCENA VI.
Donna Zulmira e Pierotto.
Pierotto. Signora, compatite, vi chiedo perdonanza.
È vostro genitore quel ch’è partito?
Zulmira. 15Egli è.
Pierotto. Scusa vi chiedo ancora. Io non lo credo affé.
Egli è un uomo superbo, voi siete umil fanciulla.
Dirò, per farvi grazia, che v’han cambiato in culla.
Zulmira. Son sciocchezze coleste. Aza dov’è al presente?
Pierotto. Aza... dirò, signora. Aza... non ne so niente.
Zulmira. Vi divertite, amico?
Pierotto. Dirò, signora mia,
Son un che colle donne sa usar la cortesia.
Capace sono ancora di far qualche servizio;
Ma con debite forme, e senza pregiudizio.
Zulmira. Non so, non vi capisco, ma soddisfarvi io posso
Con ricompense e doni.
Pierotto. Questo è un error più grosso.
Di voi non ho bisogno, non son sordido, avaro;
Chi vuol da me piaceri, non venga col denaro.
Zulmira. Dunque con che?
Pierotto. Con grazia e con sincerità,
Dicendo, per esempio: Pierotto, abbi pietà.
Io sono innamorata; parlare un po’ vorrei.
Vorrei onestamente sfogar gli affetti miei.
Voi mi volete bene, caro Pierotto, il so.
A chi così mi parla, non posso dir di no.
Zulmira. Via dunque, quanto posso, vi parlo con amore.
Usatemi pietade.
Pierotto. Lo dite voi di cuore?
Zulmira. Cuor del mio più sincero, credetemi, non fu.
Zulmira. Vi prego.
Pierotto. Ancora un poco più.
Zulmira. Gettomi a’ vostri piedi, se lo chiedete ancora.
Pierotto. No, per amor del cielo, sarei perduto allora.
Quando una donna vedo supplichevole in atto,
Sento dal capo ai piedi intenerirmi affatto.
Zulmira. Dunque che sperar posso?
Pierotto. Aza chiedete?
Zulmira. Sì.
Vorrei parlar con esso.
Pierotto. Ben, faremo così:
Verrete in casa mia. Sto qui poco lontano,
Parlerete con lui; Pierotto ha il cuore umano.
Ma intendiamoci bene, con due condizioni:
Una ch’io sia presente a esaminar le azioni;
L’altra, che consolata partendo dal mio tetto,
Mi ringraziate ancora con quel grazioso occhietto.
parte
Zulmira. Il padre mio m’impose... Perdoni il genitore,
Tenero amor d’amante parla di figlia al cuore.
Parta, resti, sia sposa, o mi lusinghi in vano;
L’ha da saper il mondo, s’ha da svelar l’arcano.
parte
SCENA VII.
Stanza nella casa di Pierotto.
Zilia sola con un foglio in mano, sedendo presso ad un tavolino.
M’annoia chi mi guarda, m’annoian le parole.
Di Deterville istesso parmi funesto il ciglio,
Odio chi mi consola, chi dar vuolmi consiglio.
In questa stanza almeno, ch’è del fattore albergo,
Niuno verrà, lo spero, fuor del fattore istesso,
Ch’è de’ miei casi a parte, e mi compiange anch’esso.
SCENA VIII.
Aza, Pierotto e detta.
(vedendo Zilia
Una donna vi cerca, ma questa non è quella.
Aza. Io per lei son venuto.
Pierotto. Sapeste ch’era qua?
Aza. A venir io la vidi.
Pierotto. È bella in verità.
Zulmira. (Misera! 11 mio tiranno ad insultar mi viene). da si
Aza. Lasciatemi, vi prego, seco sfogar mie pene. (a Pierotto
Pierotto. E l’altra che vi aspetta?
Aza. L’altra verrà dappoi.
Pierotto. (Affé, sono imbrogliato). Or or torno da voi. parte
SCENA IX.
Zilia ed Aza.
Aza. (Risolvere degg’io).
Zilia. (Che potrà dir l’ingrato?)
Aza. Zilia, per sempre addio.
Zilia. Venisti dall’ispano fino al gallico impero
Solo per dirmi addio?
Aza. Dovea sapersi il vero.
Zilia. La verità è una sola, questa si sa per tutto.
Perdi vilmente troppo delle tue cure il frutto.
Aza. Viltà chiami la fede?
Zilia. No la fèé, l’incostanza.
Zilia. Non fingere ignoranza.
Aza. Tu mi conosci appieno; dissimular non soglio.
Zilia. Meglio il tuo cuor spietato conosco in questo foglio.
Aza. A te chi l’ha diretto?
Zilia. Fu Deterville istesso.
Aza. L’amante, il generoso, per cui sospiri adesso.
Zilia. Sì, il generoso amante, cui questo cuore ingrato
Negai, perchè l’aveva ad Aza riserbato.
Aza. E la virtù stancossi nell’ultimo momento?
Zilia. Ah crudel! di stancarla provossi il tradimento.
Aza. Spiegati in chiari accenti. Teco garrir non voglio.
Zilia. Per non garrire in vano, specchiati in questo foglio,
(dà il foglio ad Aza, che legge piano
(Arrossirà l’ingrato. Ma il suo rossor per questo
Farà il destino mio men crudo e men funesto?
Vedrà almen ch’io non sono nell’accusarlo audace.
Nel sospettare ardita).
Aza. Zilia, il foglio è mendace.
Zilia. Come! negar potrai che di Zulmira in petto
Fiamme non accendesti? Ah, di sentir m’aspetto
Ch’Aza da sè diverso, uom menzognero e franco.
Neghi sugli occhi miei d’aver l’amante al fianco.
Aza. Tutto negar non voglio; vuo’ che tu creda il vero.
Zilia. Potrai giustificarti?
Aza. Sì, Zilia mia, lo spero.
Zilia. Voglianlo i Dei6.
Aza. Tu prima dimmi s’è mio rivale
Quel che ti diede il foglio.
Zilia. Amor lo rese tale.
Non lo nego, lo sai, te lo ridico ancora;
Ma il cuor che ad Aza è fido, Aza soltanto adora.
Aza. Nelle tue mani il foglio rese il tuo ciglio altero.
Aza. Egli è vero7.
Zilia, tu sei fedele, io men di te nol sono.
Mertano i dubbi tuoi, mettano i miei perdono.
Deterville per te piange, piange per me Zulmira,
Ma in van per due cuor fidi l’uno e l’altro sospira.
Chi scrisse il foglio vano, fondò sull’apparenza.
Pochi san l’uso nostro d’amar con innocenza.
Zilia, tu mi conosci, ancor son Peruviano.
Se al labbro mio non credi, cerco le prove in vano.
Zilia. Rendimi il foglio.
Aza. Ancora tu non mi credi, il vedo.
(le tende il foglio
Zilia. No, non chiamarmi ingrata; idolo mio, ti credo.
(straccia il foglio: si alzano da sedere
Aza. Or che mi ami conosco.
Zilia. Nol conoscesti in prima?
Aza. Vuoi che Zulmira io sprezzi?
Zilia. Vuo’ che tu l’abbia8 in stima.
Basta che le sue luci non sieno a te vicine.
Aza. Zilia, tu sei gelosa.
Zilia. Ah sì, son donna alfine.
Aza. Lasciam vani timori. Dimmi, che farem noi?
Zilia. Uniscansi le destre, come i cuor nostri.
Aza. E poi?
Zilia. Che dir intendi?
Aza. Io sono misero peregrino.
Zilia. A parte, qual io sono, sarai del mio destino.
Aza. A Deterville da presso? a lui rivale mio?
Zilia. Aza, tu sei geloso.
Aza. Ah, che son uomo anch’io.
SCENA X.
Zulmira e detti.
Sturbarvi non intendo, or che eravate soli;
Lasciate che per poco vi goda, e mi consoli.
Aza. Ebbi di voi, Zulmira, finor stima e rispetto;
Ora mi dispiacete col simulato affetto.
In voi regnar io vidi finor bella virtù.
Se la cambiate in vizio, no, non vi stimo più. parte
SCENA XI.
Zilia e Zulmira.
A rallegrarvi meco del mio fedele accanto?
Zulmira. Seppi gli sdegni vostri, seppi l’irata face,
E maraviglia femmi la prestissima pace.
Venni per darvi un segno del mio sincero affetto.
Zilia. Gioia la pace nostra vi desta, ovver dispetto?
Zulmira. Voi mi parlate in guisa...
Zilia. Parlo col cuor sincero.
Spiaccia, o dispiaccia, il labbro uso fu sempre al vero.
Aza se amate, io stessa lodo l’amore in voi;
Riverenza ed affetto mertano i pregi suoi.
Amo anch’io Deterville con un amore onesto.
In voi per Aza mio la stima io non detesto;
Ma se la fiamma vostra a possederlo aspira,
Vi lusingate in vano, credetelo, Zulmira.
Vaghe son le Europee, bellissime le Ispane;
Ma san legar i cuori ancor le Peruviane. parte
SCENA XII.
Zulmira sola.
Fidando nelle loro lusinghe adulatrici.
Noi se un amor ci sdegna, proviam lungo tormento;
Costei l’amante infido cangiato ha in un momento.
Misera, che mi resta sperar dalla mia vita?
Ah, prima d’ora i’ fossi col genitor partita!
Che dirà Deterville delle lusinghe mie?
Le chiamerà mendaci, le crederà follie.
Il padre mio che forse s’è del mio amore accorto,
Vorrà rimproverarmi, nè potrò dargli il torto.
Gli amici ed i nemici di me si rideranno.
Aza, che pur mi amava, si è fatto il mio tiranno.
Qual rimedio al mio male? Ah non ve n’è! si mora.
No, si viva, si tenti; voglio sperare ancora. parte
Fine dell’Quarto.
Note
- ↑ Così nelle edizioni Pitteri e Pasquali. Nell’ed. Zatta è stampato: Così, signor, Saper vorrei — Chi è suo cognato.
- ↑ Ed. Pitteri: traffitto.
- ↑ Così nelle edd. Pitteri e Pasquali. Nella ristampa torinese e nell’ed. Zatta: che mel diciate.
- ↑ Nella rist. torinese e nell’ed. Zatta: siffatti.
- ↑ Ed. Zatta: vuole ragion.
- ↑ Ed. Zatta: Voglian gli dei.
- ↑ Così le edd. Pasquali, Zatta ecc. Nell’ed. Pitteri è stampato, per isbaglio: El’è vero, invece di: Gl’è vero.
- ↑ Così l’ed. Zatta. Nelle edd. Pitteri e Pasquali è stampato: tal’abbia.