La mia vita, ricordi autobiografici/XV
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XV.
Tra la calzetta e la letteratura.
Il babbo, intanto si trovava disoccupato e per quanto l’ospitalità del povero Drea fosse affettuosa e relativamente larga, noi non potevamo rimanergli troppo a lungo a carico.
Molti amici s’erano impegnati di trovargli un’occupazione: ma, come avviene quasi sempre in simili casi, le promesse fioccavano da tutte le parti, ma rimanevano allo stato di... promesse.
Un giorno, non so come, si venne a parlare d’una certa signora Saletti, antica nostra pigionale della casa di via delle Ruote, e un po’ amica della mamma: qualcuno disse che suo figlio Brandimarte occupava un ufficio importante al Municipio di Firenze: che ne era niente meno, il segretario generale. Fu un lampo di luce.
Decidemmo subito, la mamma ed io, di andar da quel signore e di pregarlo — in nome dell’antica amicizia corsa fra le due madri — di far qualche cosa per il babbo.
Detto fatto: ci presentammo, fummo accolte gentilmente, anzi affettuosamente; e il commendatore Saletti impiegò quasi subito mio padre nell’ufficio dello stato civile: ufficio in cui rimase trent’anni, cioè fino alla sua morte.
Com’era da prevedersi, stringemmo nuovamente amicizia con la famiglia Saletti: un’amicizia discreta e moderata nelle manifestazioni, quale può sussistere fra chi è povero e chi è ben provvisto d’ogni bene della fortuna.
I signori Saletti (Brandimarte, sua cognata e la figliuola) mi avrebbero voluto spesso loro ospite tanto in villa come nella loro sontuosa abitazione di Firenze, posta in via Tornabuoni e precisamente in quel bel palazzo Peroni dov’è, ora, il Circolo filologico.
Ma il babbo non permise mai quella familiarità, anche perchè la mia fiorente giovinezza e la naturai cortesia del commendatore non dessero luogo a commenti spiacevoli per la mia reputazione.
Coi nuovi guadagni del babbo e la giudiziosa economia della mamma, mi fu concesso di appagare uno dei miei desiderii più ardenti: quello di abbonarmi al Gabinetto letterario di G. P. Vieusseux: a quel Gabinetto in cui, gravi per età, ma ancor giovani d’anima e di cuore, convenivano ancora il Tommaseo, il Capponi, il Lambruschini!
Ricorderò sempre il giorno in cui per la prima volta misi il piede el Gabinetto, posto allora nel palazzo Buondelmonti, in piazza Santa Trinità.
Mi venne premurosamente incontro il cavaliere Eugenio Vieusseux, uno degli uomini più signorilmente belli e cortesi ch’io m’abbia veduto.
Gli dissi che mi sarei abbonata per sei mesi e che desideravo conoscere subito qualche bel romanzo francese, moderno.
II signor Eugenio consultò con gli occhi la mamma che sorrise, approvando col capo. No, non era quella la risposta che egli sollecitava. E allora (come ricordo quelle parole dettate da un sentimento squisito, se non giusto, di rettitudine paterna!) disse:
— I romanzi francesi moderni non sono troppo adatti a lei, signorina; è troppo giovane per capirli e ... per apprezzarli. Pure, per mostrarle che non sono un orso le darò un bel romanzo, non scritto precisamente ieri, ma neanche nei tempi preistorici.
E mi porse Le roman d’un jeune homme pauvre, di Octave Feuillet!
Non lo conoscevo e lo lessi con molto piacere: ma per quel bisogno imperioso dì sincerità che è nel mio carattere e che m’ha procurato tanti dolori, non potevo lasciare il signor Eugenio nella convinzione che io fossi una della solite signorine a cui il severo papà non ha permesso che i Promessi sposi del Manzoni e il Niccolò de’ Lapi del D’Azeglio ... Forse, in quel bisogno di sincerità c’entrava anche un po’ di vanità... femminile. Erano allora così poche, così poche, le ragazze che all’età mia avessero inghiottito una sì inverosimile quantità di libri, tanto diversi, tanto opposti fra loro!
Comunque la cosa fosse, la prima volta che, deludendo un po’ la sorveglianza della mamma, occupata a sfogliare un album di caricature, potei parlare col cav. Vieusseux, gli dissi francamente, senza spavalderie e senza falsa modestia:
— Senta, caro signore: per certe condizioni speciali della mia famiglia ho avuto sempre molta libertà nella scelta delle mie letture; quindi ella mi dia liberamente il Catalogo o — se vuol proprio obbligarmi — mi favorisca i libri moderni più notevoli.
Il cav. Vieusseux rimase un po’ sorpreso: ma siccome era un uomo di spirito e, dopo tutto, non era obbligato a far con me la parte di Catone il censore — mi suggerì subito il Daudet, il Theuriet, il Loti, tutta la gloriosa falange della Francia romantica moderna.
Da quei maghi dello stile risalii dolcemente la corrente e mi sprofondai — è la vera parola — in Teofilo Gautier, nella Sand, in Victor Hugo, in Alfred de Musset e nel divino insuperabile Balzac, di cui lessi in poche settimane tutta la Comédie humaine.
⁂
In quell’epoca feci altre preziose conoscenze. In bottega di mio cognato veniva spesso un certo signor Bartolini, un appassionato cultore, anzi lettore della Divina Commedia.
C’invitò a casa sua per una lettura e lì conobbi il bravo e buon sacerdote D. Carlo Soci, uomo di gran merito, coltissimo, paziente ricercatore di documenti storici, critico e storico egli pure non spregevole, e al quale mi affezionai come a un diletto fratello maggiore. A lui, molti anni dopo, dedicai un mio volumetto intitolato: Il Libro della Giovinetta. Il Bartolini e il Soci senza versar le docce d’una gelida erudizione inutile e parolaia sui miei bollenti entusiasmi giovanili, seppero, con l’autorità dell’esempio indirizzarli a più alte e severe idealità, tanto che in meno di sei mesi avevo letto non so più quante volte Dante, imparandone a memoria i canti più belli.
Ho già accennato all’imperiosa febbre di attività che mi governava: oltre a quella mi tormentava sempre il pensiero, che dico il pensiero? il desiderio ardente di non esser del tutto a carico del babbo, di guadagnar qualche soldarello che mi mettesse in grado di provvedere alle spese della mia più che modesta toilette.
Ma come guadagnare? A quindici anni non era facile, specialmente coi sistemi a base di reclusione con cui si educavano allora le fanciulle. Avevo veduto in bottega di Drea un giornale letterario settimanale sul genere del famoso Emporio pittoresco. Usciva le domeniche e conteneva qualche discreto articoluccio di attualità, versi, romanzi a continuazione e una novella. S’intitolava Il Giornale Illustrato e pagava regolarmente (allora queste cose usavano), i suoi collaboratori. Quest’ultima e importante informazione me l’aveva data il povero Barabino. Avendo letto su quel periodico delle cosette abbastanza idiote, a paragone delle quali certe mie pagine sarebbero parse capilavori, venni nell’idea luminosa di mandare un lavoro a quella direzione. Era una novella-fantasia un po’ alla Ratcliffe che m’era stata ispirata da una recente passeggiata alla Certosa, al lume di luna.
Dopo un lungo mese di aspettativa e di inutili gite alla posta (avevo messo nella confidenza la mamma, ma il babbo, pel momento, doveva ignorar tutto) ricevei la risposta nella Piccola posta del giornale stesso. Era laconica ed eloquente in pari tempo: Ricevuto, letto, cestinato.
Un facsimile del veni, vidi, vici di Cesare. Qui è proprio il caso di farmi un elogio, e me lo fo, commossa: io non pensai affatto che quei signori potessero esser degli asini, ma mi persuasi subito che il mio lavoro doveva essere una bricconata. E arrossii d’una vergogna postuma.
Non solo non mi persi di coraggio per quella, diremo così, sconfìtta umiliante, ma tanto feci e dissi che persuasi la mamma a condurmi da una certa signora Virginia Borrani (cognata di Odoardo) che aveva una bottega di merceria in via Condotta e che dava del lavoro a chi lo voleva. Dietro la mia preghiera, mi affidò la cucitura di sei camicie da uomo e di un numero eguale di mutande.
Contenta come una pasqua, mi fermai al ritorno in un’altra più umile botteghina di merciaio, posta in via San Gallo, il cui padrone si chiamava Angiolo Traversi.
Era un vecchietto che mi aveva visto bambina e a cui non mi vergognai di esporre il mio desiderio.
— Vorrei far delle calze, dei calzini, delle solette e delle trine all’uncinetto...
— Con coteste manine?
— Sfido! Finché la mamma non me ne fa un altro paio!
Il signor Angiolo mi caricò di cotone greggio, bianco e in colori. E io non so dire la gioia, la viva compiacenza con cui poco dopo disposi nella mìa larga paniera da lavoro la tela per le camicie, il cotone e un bel pacco di libri presi il giorno avanti dal Vieusseux.
Il giorno cucivo e aiutavo la mamma nelle faccende domestiche (fra queste, mi piaceva molto il far da cucina e lo stirar con l’amido), e la sera, dalle otto alle dodici, era un continuo sferruzzìo, alternato con la lettura dei miei libri diletti. Non avrei avuto coraggio, no, di goder tanto, senza far qualche cosa di praticamente utile che, in certo modo, scusasse il mio egoismo. E anche ora — dopo tanti anni — ora che la cinquantina comincia a piover 1e sue nevi sui miei capelli bruni non so abbandonarmi al piacere della lettura senza aver fra le mani l’ago a crochet o la calza.
Quel mio lavoro mi fruttava un trentacinque lire al mese, somma più che sufficiente per rivestir me e la mamma senza seccare il babbo che, pover’uomo, non ci lasciava mancar nulla.
I modesti ma sicuri guadagni ci permisero di prendere una Casina da noi, poco distante da quella della famiglia Salomoni, la quale era stata rallegrata dalla nascita d’una bambina, della mia cara Ebe a cui mi avvince una tenerezza materna, e che oggi trovasi a Torino, monaca.
⁂
Così passarono tre anni, il cui pacifico e monotono corso era interrotto soltanto dalla estiva villeggiatura a Montemurlo, presso il buon Pievano Giunti con cui mantenevo una regolarissima corrispondenza epistolare. Se certi delicati riguardi dovuti alla sua famiglia e alla mia, non me lo vietassero, con che entusiasmo pubblicherei alcune di quelle lettere ove il sentimento religioso, l’entusiasmo per tutto quanto è bello e buono si sposano alla più pura ed elegante italianità!
Da lui, in una bella sera di giugno, conobbi la Stella Pacetti, la più bella fanciulla di Montemurlo che in seguito ad una dolorosa delusione d’amore, decise, nella purezza della sua anima angosciata, di dedicarsi tutta a qualche pietoso e nobile ufficio. Suora di carità, infermiera, maestra, qualche cosa, insomma, che impedendole di pensare a sé, la facesse pietosa consolatrice delle miserie o dei bisogni altrui... Io, interrogata dal Pievano, la consigliai a studiare e a dedicarsi all’insegnamento. E i mei genitori, sempre desiderosi di farmi cosa gradita, le offrirono ospitalità nella nostra casetta a Firenze per tutto quel tempo che le sarebbe stato necessario a prepararsi all’esame di patente elementare inferiore. Si capisce che io mi offrii subito di darle lezione.
La proposta fu accettata con entusiasmo e da quel giorno la Stella ed io divenimmo, più che amiche, sorelle tenerissime.