La mia vita, ricordi autobiografici/XIV

Capitolo XIV. Il mio ritorno a Firenze. La bottega di mio cognato

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Capitolo XIV. Il mio ritorno a Firenze. La bottega di mio cognato
XIII XV
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XIV.

Il mio ritorno a Firenze.
La bottega di mio cognato.

(1865).

Non ho mai avuto una spiccata inclinazione per gli affari propriamente detti: o, per esser più sincera, debbo dire che ci ho sempre capito poco. E buon per me se la cosa fosse stata diversa! Buon per me se avessi cantato meno e calcolato di più! Oggi, forse, mi troverei a scrivere questo povero libro in una casetta mia, circondata da un orticello mio, e non già nella vecchia canonica di Montemurlo che il nuovo Pievano, Don Venceslao Tonini, ha messo gentilmente a mia disposizione.

Certo, l’ospitalità è larga e cortese: certo, intorno a questo tavolino ove sono intenta a raccogliere le fila sparte del meraviglioso tessuto che è una vita umana, s’affollano, pietosamente confortatrici, le ombre dei miei cari perduti, ospiti anch’essi di questa memore casa: ma io penso che laggiù, in quella bella Firenze immersa nella nebbia luminosa, mi aspetta ancora la solita esistenza affannata, l’ansia del domani, l’incertezza del guadagno, la certezza dolente di giorni tristi e solitarii... E mi domando col poeta:

O ciechi, il tanto affaticar che giova?

Riprendo il filo della narrazione. Non intendendo nulla in materia d’affari, m’è impossibile di rendermi conto per qual trafila di angoscie, di trepidazioni e di [p. 84 modifica] fatti positivamente dolorosi passasse il povero babbo mio prima di rinunziare onoratamente al suo commercio e ricominciare a cinquantasett’anni la vita. Sentii in quei giorni dolenti parlar di fallimenti, di amici sleali e di altre miserabili cose: sentii che mio padre, radunati i creditori, volle pagarli tutti fino all’ultimo centesimo ...

Capii che non ci erano rimasti che gli occhi per piangere, che la bella casa, i bei mobili, le semplici ma signorili eleganze della vita quotidiana erano state inghiottite da una tremenda voragine: ma seppi, oh sì, che il nome di Leopoldo Baccini era rimasto sinonimo di onoratezza e di rettitudine. Questo bastava.


A Firenze, la famiglia Salomoni ci accolse cordialmente. Gli affari di Andrea andavano sempre di bene in meglio ed egli fu molto felice, col suo gran cuore, di poter mettere a disposizione nostra la sua casa, la sua tavola ... quanto si trovava a possedere.

La mamma e l’Egle piansero insieme di dolore e di consolazione e io presi a volere un ben dell’anima al mio nipotino Ettore che aveva ormai compiuto i sette anni ed era il più grazioso biondino che si potesse mai immaginare.

Anch’io m’ero fatta una bella giovinetta, col mio personalino slanciato, il volto roseo e puro e i grandi occhi ridenti.

Abitavamo una graziosa casetta in Via Vittorio Emanuele e dalla finestra della nostra camera aperta proprio sul tetto della casa accanto, si godeva un vasto panorama di terre coltivate e di poggi. [p. 85 modifica]

Quel tetto era una specie di giardino pensile così graziosamente il proprietario l’aveva adornato di leggiere e profumate pianticine di fiori!

Oh le belle sere estive da me trascorse seduta su quella finestra, mentre il sole sul tramonto incendiava le vicine alture di Fiesole e di Monte Morello! In quell’epoca leggevo febbrilmente i manzoniani, dal Grossi al Carcano, da Massimo d’Azeglio al Cantù ed avevo piena la fantasia di giovani belli e prodi come Lamberto e Ottorino Visconti e di eroine sventurate come Ildegonda e Selvaggia.

Una sera, dall’abbaino del tetto vidi far capolino una bruna testa ricciuta d’adolescente... Il cuore mi battè fitto fitto e abbassai gli occhi sul libro, aspettando... il mio destino. Alla testa successero le spalle il torace e il resto della persona...

Alzai gli occhi piano piano e scorsi un giovinotto in maniche di camicia, armato d’un annaffiatoio... che mi sorrise stupidamente mostrandomi un’abbagliante rastrelliera di denti bianchissimi.

Il sorriso, i denti e l’annaffiatoio mi fecero subito capire che non ci poteva esser nulla di comune fra lui e Ottorino Visconti.

Io sono andata spessissimo soggetta a simili delusioni. Che farci?

I personaggi della mia fantasia erano troppo riccamente vestiti perch’io avessi potuto accontentarmi d’un prosaico gilet o d’un tubino d’ultimo modello!

Qualche volta, ad ora tarda, mia sorella ed io andavamo a prender Drea, in bottega.

Oh come mi sentivo felice in quelle sere!

Nella bottega di mio cognato si davano convegno [p. 86 modifica] Luigi Del Moro, Niccolò Barabino, Gabriele Castagnola, Telemaco Signorini e altri artisti. Che nuovi orizzonti si schiusero alla mia fantasia!

Tutto quanto il Borrani mi aveva fatto intravedere e presentire, io vidi distintamente e sentii. Vidi le severe cattedrali gotiche slanciare nel cielo le guglie acuminate, le pure Madonne chine sul Bambino in atto di adorazione. Vidi i meravigliosi interni delle chiese fiorentine ov’è sì dolce ricordare e pregare, vidi poggi, vallate, laghi scintillanti al sole, montagne severe, delle vette nevose: vidi le onde furiose del mare frangersi contro la scogliera e tutto questo a traverso la parola calda e vibrante di quei valenti.

A Niccolò Barabino non sfuggì il pallido viso intento della giovinetta che pendeva dalle mie labbra ... e in una tepida sera d’aprile, in quella memore Piazza San Marco ove tante antiche e gentili storie d’amore si svolsero, egli ingannato dall’espressione pensosa del mio volto e dalla mia statura slanciata, mi chiese se mi sarebbe piaciuto di diventare la compagna d’un artista, la sua compagna.

Da prima non seppi che rispondere, tanto mi sentii commossa e vergognosa. Poi gli dissi balbettando che mi ci mancava un mese a finir quattordici anni, e che ...

Egli scattò come sotto la pressione d'una molla.

— Quattordici anni! — ripetè. — Troppo pochi per camminare insieme, nella vita. Oh, cara piccina, perdoni la mia leggerezza e ... non ci pensi più! — Trovò il modo di stringermi affettuosamente la mano e nelle sere consecutive evitò di starmi vicino e di rivolgermi troppo direttamente la parola. Ma io [p. 87 modifica] sentiva i suoi occhi dolci e buoni fissi su di me... e avrei dato metà del mio sangue per avere almeno... vent’anni!

Non rammento, mentre scrivo, in quale anno morisse il grande artista...

Ma ricordo che io ne seguii il feretro pensosa e dolente. I miei quattordici anni erano già lungi da me e sulla mia fronte il dolore aveva già incavato i primi leggerissimi solchi!

Dunque io poteva bene starti vicina e accompagnarti nella morte, o amico!