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mio lavoro doveva essere una bricconata. E arrossii d’una vergogna postuma.

Non solo non mi persi di coraggio per quella, diremo così, sconfìtta umiliante, ma tanto feci e dissi che persuasi la mamma a condurmi da una certa signora Virginia Borrani (cognata di Odoardo) che aveva una bottega di merceria in via Condotta e che dava del lavoro a chi lo voleva. Dietro la mia preghiera, mi affidò la cucitura di sei camicie da uomo e di un numero eguale di mutande.

Contenta come una pasqua, mi fermai al ritorno in un’altra più umile botteghina di merciaio, posta in via San Gallo, il cui padrone si chiamava Angiolo Traversi.

Era un vecchietto che mi aveva visto bambina e a cui non mi vergognai di esporre il mio desiderio.

— Vorrei far delle calze, dei calzini, delle solette e delle trine all’uncinetto...

— Con coteste manine?

— Sfido! Finché la mamma non me ne fa un altro paio!

Il signor Angiolo mi caricò di cotone greggio, bianco e in colori. E io non so dire la gioia, la viva compiacenza con cui poco dopo disposi nella mìa larga paniera da lavoro la tela per le camicie, il cotone e un bel pacco di libri presi il giorno avanti dal Vieusseux.

Il giorno cucivo e aiutavo la mamma nelle faccende domestiche (fra queste, mi piaceva molto il far da cucina e lo stirar con l’amido), e la sera, dalle otto alle dodici, era un continuo sferruzzìo, alternato con la lettura dei miei libri diletti. Non avrei avuto co-