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raggio, no, di goder tanto, senza far qualche cosa di praticamente utile che, in certo modo, scusasse il mio egoismo. E anche ora — dopo tanti anni — ora che la cinquantina comincia a piover 1e sue nevi sui miei capelli bruni non so abbandonarmi al piacere della lettura senza aver fra le mani l’ago a crochet o la calza.
Quel mio lavoro mi fruttava un trentacinque lire al mese, somma più che sufficiente per rivestir me e la mamma senza seccare il babbo che, pover’uomo, non ci lasciava mancar nulla.
I modesti ma sicuri guadagni ci permisero di prendere una Casina da noi, poco distante da quella della famiglia Salomoni, la quale era stata rallegrata dalla nascita d’una bambina, della mia cara Ebe a cui mi avvince una tenerezza materna, e che oggi trovasi a Torino, monaca.
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Così passarono tre anni, il cui pacifico e monotono corso era interrotto soltanto dalla estiva villeggiatura a Montemurlo, presso il buon Pievano Giunti con cui mantenevo una regolarissima corrispondenza epistolare. Se certi delicati riguardi dovuti alla sua famiglia e alla mia, non me lo vietassero, con che entusiasmo pubblicherei alcune di quelle lettere ove il sentimento religioso, l’entusiasmo per tutto quanto è bello e buono si sposano alla più pura ed elegante italianità!
Da lui, in una bella sera di giugno, conobbi la Stella Pacetti, la più bella fanciulla di Montemurlo che in seguito ad una dolorosa delusione d’amore, de-