La mia vita, ricordi autobiografici/X
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X.
La prima volta.
Erano le due dopo mezzogiorno. La signora Teresa sferruzzava silenziosamente la sua calza di filaticcio e si contentava di darci un’occhiata di quando in quando. Io rigirava il mio filondente da tutti i versi senza sapermi risolvere a mettervi un punto.
Un po’ guardavo le altre bambine che, curve sul loro lavoro, erano o parevano più raccolte del solito, un po’ alzavo gli occhi ai vetri ingialliti del finestrino, dai quali gocciolava un’acquerugiola fine fine. Nella stanza c’era un puzzo di rinchiuso e di stantìo che mi nauseava e mi faceva pensare involontariamente alla cedrina del mio giardinetto pensile e anche alla boccetta d’acqua odorosa che mi aveva regalato Arturo, il ragazzo del secondo piano, che veniva sesso la sera coi suoi genitori a far la partita con noi.
Non era brutto quel bambino: piuttosto alto per la sua età, esile, sbiancato, con una vocina fioca e gentile, riusciva simpatico anche a me; ma aveva il difetto di essere un po’ goffo e impacciato: e una volta che per detto e fatto d’un giuoco di sala, fu obbligato a darmi un bacio, diventò rosso infocato e si limitò a sfiorarmi con le labbra il fiocco del codino in mezzo alle risate di tutti.
⁂
Mentre mi trottavano nella mente questi pensieri, suonò la mezza, e un giovinetto delle tecniche venne ad avvisarci che il signor direttore ci aspettava per la solita lezione d’italiano che io avevo del tutto dimenticata. Ci alzammo tutte, ripiegammo il lavoro e salutata la maestra, infilammo l’àndito lungo ed oscuro che separava la scuola femminile da quella maschile.
Chi rideva, chi sospirava, chi chiedeva consiglio. Eravamo tutte agitate per quella benedetta faccenda del componimento. Alcune lo avevano fatto male, altre non erano riuscite a svolger bene l’argomento, molte non lo avevano neanche capito.
Io, poi, mi trovavo in condizioni anche più lacrimevoli: non avevo scritto un rigo. Pensavo con terrore all’accigliatura del maestro, al suoi occhi di fuoco e soprattutto a quei suoi brevi ma violenti accessi di collera, durante i quali non vedeva più lume.
Poichè bisogna sapere che il nostro professore era un uomo che non aveva nulla che fare con gli sdolcinati mentori d’oggi: sobrio di parole, severo e qualche volta terribile anche con noi giovinette, non intendeva di abbassare la scienza fino a noi, ma pretendeva che noi c’inalzassimo fino a lei e qualche volta ci riusciva.
Quando entrammo in classe, era là, al suo posto, con un gran Dante illustrato sotto il naso.
Lo salutammo e sedemmo ai nostri banchi. Si fece leggere i componimenti ed alcuni ne lodò: di altri, poi, fece giustizia sommaria condannandoli alla lacerazione o al cestino. Quando giunse la mia volta, mi alzai e balbettai fra i denti che un’improvvisa indisposizione mi aveva impedito di scrivere.
— In tal caso — diss’egli brevemente e stendendo le mani — ella avrà certo un biglietto giustificativo dei suoi genitori.
Mi parve di udire fra le mie compagne qualche scoppio soffocato di riso e il sangue mi salì alla testa. Alzai gli occhi in faccia al direttore e risposi alteramente:
— Non l’ho. La mia parola deve bastare.
Il giovane professore mi guardò un istante e soggiunse:
— Ed ora come sta?
— Ora? Benissimo.
— Vuol dire che ella avrà la bontà di far subito il suo componimento, prima di andare a casa.
Mi alzai col viso in fiamme.
— I miei genitori mi aspettano a desinare. Debbo quindi andarmene e...
— Farò avvisare la sua famiglia. Procuri di mettersi in calma. Le altre signorine possono andare.
E le congedò con un gesto.
Feci per parlare, per protestare, ma non potei: avevo la gola come serrata in una morsa d’acciaio. Il professore chiuse pianamente l’uscio della classe e tornò a sedere e a guardare il suo Dante illustrato. Si vedeva bene che durava una gran fatica a contenersi.
Volli provocarlo e sfogare in pari tempo la mia rabbia. Buttai in terra quaderni, libri, penne, atlante, quanto mi venne alle mani e lui duro.
Mi nascosi il viso fra le mani, piansi, strepitai, battei i piedi ma tutto fu vano: egli non si moveva. Allora presi un partito decisivo; mi alzai clamorosamente e corsi all’uscio: stavo già per aprirlo, quando mi sentii afferrare le spalle da due mani robuste che mi fecero rivoltar rapidamente su me stessa.
— Non voglio che mi tocchi! — strillai e cercai di liberarmi da quella stretta per fuggire; ma negli sforzi che facevo per svincolarmi, battei il viso contro il suo; lo guardai impaurita, credendo di avergli fatto male: egli pure mi guardò e restammo un momento fermi, con gli occhi fissi l’uno nell’altro.
Provai una strana sensazione di cui lì per lì non mi seppi render conto e abbassai il capo smarrita. Egli mi respinse leggermente lasciandomi libera. Quando rialzai gli occhi lo vidi in piedi, vicino a me che mi guardava ancora, ma senza collera.
— Posso uscire? — balbettai.
Fece segno di sì e io mi allontanai lentamente, col cuore in sussulto, con le gambe troncate.
Prima di uscire di scuola, tornai nella stanza del lavoro per prendervi un libro: quella stanza mi pareva un’altra; c’era più luce, più allegria, più vita. Non pioveva più e i vetri del finestrone scintillavano al sole.
Il giorno dopo il direttore scrisse una lunga lettera al babbo per dirgli che ero oramai troppo grandina per rimanere nel suo Istituto e che era ormai tempo di avviarmi a studi più serii. A me inviò in dono un «Dante» illustrato (quello stesso che egli leggeva quel giorno), e un suo bel lavoro sulle origini della Casa di Savoia. Sulla copertina c’era scritto: «Alla «signorina» Ida Baccini che col fervido ingegno e la gentilezza degli affetti ha onorato la scuola e il maestro».
Anima veramente onesta ed alta, vale!