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racconti del Guerrazzi e neppure certe storie aneddottiche e passabilmente scandalose dei Borboni di Francia e di Spagna, tutti libri che si trovavano allora in casa mia, lo produsse il casto, virtuoso romanzo del Fénélon.

Gli è che quello bisognava leggerlo, rileggerlo, tradurlo, studiarlo a mente. Quindi nulla di più naturale che le descrizioni di quel mondo greco, coi suoi miti, con le sue isole incantate, col suo fulgido sole, mi s’imprimesse profondamente nell’anima.

Quant’ho sofferto con Calypso, qui ne pouvait se consoler du depart d’Ulysse! Con che emozione seguivo Télémaque nei suoi vaneggiamenti per la bella Eucaride! E come fui dolente che egli si sottraesse al fascino della giovine ninfa, fuggendo col «Sage Mentor» sotto la cui barba bianca e prolissa si nascondeva l’ancor plus sage Minerve!

Il paganesimo mi attirò potentemente con la sua trionfale bellezza di colori e di forme e per parecchio tempo non sognai più che bianche figure di dee erranti fra i mirteti d’Elicona, numi baldi e valorosi, imperanti al sole, alle acque, ai venti, ai fulmini e all’abisso — e satiri orecchiuti nascosti nel folto dei boschi...

E ricordo la gioia pazza, quasi indescrivibile che si impadronì di me, quando in un dopopranzo uggiosissimo di festa, mentre il babbo e la mamma riposavano, scovai fra una valanga di vecchi libri polverosi, l’Iliade e l’Odissea.

Io non vidi nei due volumi i poemi immortali di Omero (o di chi per lui!) ma la «continuazione,» anzi l’amplificazione del Telemaco e non è a dire con quanta febbrile avidità me li lessi e rilessi.

Ora, è certo che io non li avrei mai letti, nè gustati,

Ida Baccini 5