La metà del mondo vista da un'automobile/XXIII
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CAPITOLO XXIII.
PARIGI
Lungo le rive della Mosa — Alla frontiera francese — Reims — I cercatori di reliquie — Meaux — Notte di veglia — L’ultime ore — Alle porte di Parigi — Sui «boulevards» — La corsa è finita.
Ci siamo accorti a Liegi che la nostra automobile si andava ricoprendo di firme come un album. Erano firme scritte a lapis sui serbatoi della benzina, sui cassone dei pezzi di ricambio: quasi tutti nomi ignoti, seguiti dalle date di Mosca, Pietroburgo, Königsberg, Berlino. Ettore, facendo la toilette alla macchina, ha rispettato queste scritture che rappresentavano tanti voti di simpatia e tante modeste attestazioni di amicizia di gente che forse non avevamo veduto, o che forse non vedremo mai più nella vita.
Ettore non cessava un momento dall’accarezzare, dal curare l’automobile, che se era giunta fin là molto lo doveva a quelle carezze e a quelle cure. Egli non la lasciava mai, adesso; le dormiva sdraiato accanto. Il suo amore s’era fatto geloso. Confessava di pensare con dolore all’istante in cui si sarebbe dovuto separare da lei.
Alle cinque e mezza del mattino, 9 Agosto, data un’ultima occhiata di verifica alle viti, agl’ingranaggi, alle gomme, Ettore ha messo in movimento il motore, il Principe ha preso il volante, e siamo partiti per Namur. Abbiamo attraversato Liegi velocemente, per le vie ancora sgombre, fino alla Mosa, sulle cui rive abbiamo incominciato un incantevole viaggio, svoltosi lungo il bel fiume per 145 chilometri.
La giornata serena rendeva serena anche la Mosa, la cui acqua calma specchiava in un fulgente tremolio il verde folto delle colline, l’arco dei ponti, l’alberatura delle barche e degli yachts. La Mosa ha angoli che la fanno sembrare non più un fiume ma un lungo lago da parco, offuscato qua e là dall’ombra folta gettata dai nembi di fumo che le numerose miniere di carbone eruttano perennemente, come vulcani.
Parigi è lontana 388 chilometri.
Alle sei e un quarto attraversiamo Huy. Alle sette e dieci siamo a Namur, dominata dalle mura bianche dell’antica cittadella, arrampicata sopra un colle, la quale svolge lo zig-zag dei suoi bastioni, ormai inoffensivi, tra boschetti rigogliosi alle cui ombre la gente sale a passeggio. Larghe barche risalgono il fiume, lentamente trainate da grossi cavalli che camminano sulla nostra strada e spesso l’ingombrano: allora rallentiamo, e guardandoci indietro vediamo rinserrarsi la fila delle quattro Itala — siamo sempre seguiti dai rappresentanti della stampa parigina, simpatici compagni di viaggio. Quando la valle si restringe, la empiamo tutta di folta polvere che sale sulle colline come una nebbia. Alle otto siamo a Dinant, la quale rifugia la sua vecchia cattedrale, dagli ampi finestroni istoriati e dalla strana cupola, ai piedi d’una immane roccia che si specchia nel fiume.
Dopo un quarto d’ora c’indichiamo l’uno all’altro qualche cosa che ci fa sussultare: è la prima bandiera francese, sventolante a poppa d’un vapore che discende la Mosa.
Giungiamo alla frontiera, presso Agimont, alle otto e mezza. Non ce ne saremmo accorti se un doganiere belga, immobile sulla strada, non ci fermasse per indicarci lontano, sopra una via laterale, l’ufficio, ove compiamo rapidamente le operazioni doganali. Ripartiamo.
“République Française„ — leggiamo sopra una tabella mezzo nascosta fra le piante. Alt! Ci fermiamo. Gli ospitali colleghi parigini vogliono solennizzare il momento in cui entriamo sul suolo di Francia. Compaiono delle bottiglie di champagne e dei bicchieri, venuti da non so quale locanda campestre delle vicinanze: in un istante i bicchieri sono pieni e le bottiglie vuote. E per la quieta campagna echeggia improvvisamente un evviva, anzi echeggiano molti evviva alla Francia e all’Italia. I bicchieri si toccano, le mani si stringono, il vino sparisce.
Svelti, di nuovo in macchina. I doganieri francesi non ci trattengono molto, e alle nove e mezza le quattro poderose automobili volano sulle ampie, meravigliose strade francesi.
Parigi è lontana 300 chilometri.
Eccoci a Givet, circondata dalle fortificazioni. Sugli spalti erbosi fioriscono i rosolacci. Dalle grandi caserme i soldati alle finestre ci salutano. Passiamo un ponte levatoio fiancheggiato da torve caponiere; poi tutto sparisce.
Siamo usciti da quell’immensa officina che è il Belgio. Il sole ci sembra più vivo, il sereno più azzurro; una letizia nuova è diffusa in ogni cosa. Ma forse questa letizia è in noi.
Alle dieci passiamo Fumay, il paese dell’ardesie. I doganieri ci fermano per controllare le nostre carte. Saliamo i dolci declivi delle Ardenne, ombrati da boschi d’una flora più nostra. Come ci piace rivedere il bello e seducente disordine delle vegetazioni che amiamo! Addio pinete fresche, regolari, severe! Le strade sembrano viali di giardini: eguali, piane; abbiamo l’impressione di sfiorarle appena, di scivolarvi mollemente.
Rocroy, con le sue fortificazioni storiche, ci appare alle dieci e venti, e sulla piazza ci fermiamo per rifornirci di benzina. Gorgoglia il liquido dall’acre profumo riempiendo i serbatoi, e si adunano in terra i bidoni vuoti, che noi chiamiamo i “cadaveri„. Le Itala fanno così la loro colazione. Sono le dieci e quaranta quando riprendiamo la corsa verso Rethel.
Parigi è lontana 263 chilometri.
Mentre attraversiamo un bosco, da dietro agli alberi balza fuori un doganiere che c’impone di fermarci, mentre un suo collega si mostra più lontano, brandendo un fucile, pronto a fermarci, occorrendo, con argomenti persuasivi. Altro controllo ai documenti e rivista alla macchina. Persuasi che non introduciamo nella Repubblica alcuna merce di contrabbando, i due solerti agenti ci lasciano partire.
Scorgiamo a mezzogiorno Rethel, i cui lucidi tetti di ardesia, mezzo nascosti fra vecchi olmi, hanno al sole riflessi d’acciaio. Passiamo oltre, scendendo verso il piano della Marna, giallo di messi mature. Alle dodici e mezza entriamo a Reims. Reims! su quante etichette di bottiglie non abbiamo letto questo nome? Pensiamo a tutti i brindisi che abbiamo fatto negli ultimi giorni, levando bicchieri colmi di vino che reclamava invariabilmente la cittadinanza (onoraria almeno) di Reims. Ci arriva un odor di vivande, e nelle strade minori, dalle finestre basse aperte esce un tintinnare di posate in azione e un acciottolio di piatti: è l’ora del pranzo in questa quieta cittadina provinciale. Decidiamo di fermarci a mangiare anche noi.
Sulla via principale, della gente ci rincorre e ci saluta: dei bottegai escono sulla soglia dei loro negozi. Un tramviere, mentre passiamo, si sporge dalla piattaforma della sua vettura e grida a Borghese, familiarmente:
— Ça c’est bien, mon petit!
I passeggeri del tram applaudono.
Sbocchiamo ai piedi della meravigliosa cattedrale; abbiamo appena il tempo di ammirarne la mole marmorea con uno sguardo estasiato, che subito la luminosa visione d’arte si estingue, e ci troviamo in un cortile d’albergo “con garage„. Il cortile si affolla: gli ospiti dell’albergo si precipitano; un vecchio signore dall’aria d’artista sequestra per qualche minuto Borghese e gli dice delle solenni parole; un americano ci raggiunge per offrirci dello champagne mentre stiamo lavandoci, e tutti insaponati e gocciolare dobbiamo brindare. Egli ci fa i suoi rallegramenti e i suoi auguri, pur dichiarando sinceramente di non capire che gusto ci sia a fare un simile viaggio senza nemmeno un compenso. Arrivano degli automobilisti; il cortile s’empie di gente, di fumo, di strepito.
Quando, dopo colazione, stiamo per ripartire, degli ammiratori troppo entusiasti, volendo una reliquia della nostra macchina, si precipitano sopra il “guidone„ — la piccola bandierina triangolareArrivo a Mosca. — Il corteggio automobilistico. che avevamo fissata sul davanti della vettura — la stracciano e se ne dividono i pezzi. Difendiamo a stento la grande bandiera di poppa. Allora pretendono di tagliare scheggie di legno dalla carozzeria, e le lame dei temperini sono già in moto. Ancora un poco, e l’automobile sarebbe saccheggiata, demolita, distrutta da tanta simpatia. Ma al primo tocco di pedale la buona macchina, come se avesse capito il pericolo, balza avanti e si salva. Sono le ore tre. Le gotiche cuspidi alte e traforate della cattedrale spariscono. Scendiamo verso la Marna, tra gli ubertosi vigneti.
Parigi è lontana 169 chilometri.
Traversiamo la Marna, calma e serena; come la Mosa, a Vermeil. E finalmente cessiamo dal camminare verso il sud. Da Pietroburgo non facciamo altro. Adesso voltiamo definitivamente la faccia verso Parigi. Non devieremo più.
Alle quattro e mezza ci fermiamo a Château-Thierry a bere un bicchiere di birra, senza scendere dall’automobile. Siamo contornati da una folla di buoni provinciali piombati in ammirazione silenziosa e rispettosa. “C’est la course!„ — sentiamo esclamare. — La course: non si chiama che così il nostro viaggio.
Un vecchio signore decorato, dall’aria di militare in ritiro, intento ad innaffiare con una pompa, un suo giardinetto, ode il vocìo, ci guarda, lascia cadere la pompa noncurante dei danni che il getto d’acqua arreca, e viene gravemente a stringere la mano a Borghese, poi torna con eguale gravità al suo innaffiamento, soddisfatto del dovere compiuto.
Attraversiamo La Ferté alle cinque e dieci. Il nome di Parigi comincia a comparire sulle tabelle stradali con la freccia che ne indica la direzione.
Parigi è lontana 78 chilometri.
A mano a mano che ci avviciniamo i saluti si fanno più numerosi, anche per la campagna, più vivaci, più cordiali. Vi è in essi un’affettuosità di popolo. Le donne vengono sulle soglie, si affacciano alle finestre sorridenti appena odono uno squillare di tromba. Gli operai lasciano il lavoro per correre a vedere, tenendo ancora in mano martelli e altri ordigni. Noi dobbiamo giungere soltanto a Meaux, e passarvi la notte. L’ingresso a Parigi è fissato per l’indomani, 10 Agosto, alle quattro e mezza del pomeriggio. Il Comitato della corsa ha così disposto. Il punto di arrivo sarà l’ufficio del Matin.
Ecco Meaux. Vi giungiamo per un grande viale alberato. Mentre stiamo per entrare fra le prime case, una guardia daziaria, da mezzo alla strada, ci fa degli energici segnali. Borghese frena, e le domanda:
— Dobbiamo fermarci per la dogana?
— Non, Monsieur — risponde — c’est pour la cinématographie!
E ci indica sorridendo un fotografo che fa funzionare un apparecchio cinematografico, e che, al contrario dei suoi colleghi di Berlino, ci grida:
— In grazia, muovetevi, vi prego: Di più! Muovetevi molto! Ancora! Il me faut du mouvement! Merci!
Noi non vogliamo scontentarlo; ci giriamo a destra, a sinistra, snodiamo il collo, ci agitiamo come orsi in gabbia, finchè il fotografo, avuto tutto il mouvement di cui aveva bisogno, ci lascia andare. Ed arriviamo al principale albergo, che ha il nome di Bella Sirena.
Parigi è lontana 45 chilometri.
Non abbiamo avuto un quieto sonno a Meaux. Alla mattina presto siamo scesi al garage, quasi avessimo dovuto partire e riprendere la marcia senza fine verso una mèta irraggiungibile, favolosa. Abbiamo fatto l’abitudine alla continua corsa, e all’ora della partenza balziamo instintivamente dai nostri letti. Correre sempre è divenuta la ragione della nostra vita: correre sempre, come dei moderni ebrei erranti, condannati ad un perpetuo e veloce viaggio.
No, non abbiamo avuto un quieto sonno nell’ultima notte del nostro pellegrinaggio attraverso due continenti. Dormivamo meglio, più profondamente e più dolcemente, sui kangs dall’odore fetido, sull’erba fresca delle praterie, sui tavolati delle piccole isbe siberiane, ravvolti in pelli di capra, con la macchina fotografica per cuscino, che non nel soffice letto dell’albergo di Meaux, lontani quarantacinque chilometri da Parigi.
È appunto la vicinanza di Parigi che ci turba. Ci sembra di sentirla, Parigi. Ci sembra di udire nella notte il palpito possente della sua vita giungere fino a noi. Più volte mi sono alzato per andare alla finestra a guardare dalla sua parte, ripetendomi: “Parigi è là!„ — come per persuadermi, soggiogato da un senso irragionevole di dubbio.
Giorno per giorno il nostro viaggio ci sembrava logico; qualche volta anche facile. Gli avvenimenti, gli episodi, si concatenavano lentamente, in modo naturale. Giungere a Kiakhta venendo da Urga, giungere a Verkhne-Udinsk venendo da Kiakhta ci appariva semplice. Passavamo da paese a paese, di popolo a popolo, per transazioni impercepibili; ogni cambiamento avveniva quasi insensibilmente, diluito nella lunga monotonia del tempo troppo lento a trascorrere. Ma adesso, fermi alle porte di Parigi, con l’animo non più preoccupato dalla strada da percorrere, ci volgiamo alla strada percorsa che la rapidità del pensiero ci ravvicina in uno scorcio violento.
Noi eravamo alle porte di Pechino coronate da pagode. Braccia cinesi hanno aiutato questa nostra macchina a sorpassare le rocce di Ki-mi-ni, ove incontravamo portantine a muli coperte di seta azzurra. Mandarini col drago d’oro ricamato sul petto sono venuti a vederla a Kalgan una sera, mentre suonava solennemente il gong d’un tempio vicino. Questa automobile è stata inseguita da tempestose cavalcate mongole e alla sua volta ha seguito, una mattina, al limite del deserto, una gran mandria di fulve gazzelle folli di terrore. Questa automobile ha guadato l’ampio Iro, l’ultimo fiume dell’Impero cinese: è caduta da un ponticello della Transbaikalia; ha corso fra le rotaie della Transiberiana; ha traversato la taiga, la più vasta foresta del mondo: è affondata nel fango alle porte di Tomsk: ed è qui sana, forte, a mezz’ora di cammino dalla porta di Vincennes. Non osavamo sperare, non osavamo neppur pensare l’emozione di questo momento, quando lasciavamo la Doch-man di Pechino.
Borghese ha sempre avuto per sistema d’imporsi delle piccole, facili mète vicine, non considerando mai le difficoltà future. Egli mi diceva, durante le faticose disperanti, giornate di lento e duro cammino: “Tutto ciò che desidero è di giungere al villaggio vicino„ — e sopprimeva nella sua mente il resto. Mettevamo così tutte le nostre forze, tutta la nostra volontà, a superare quel breve passo, come se il villaggio vicino fosse l’ultima mèta.
Il giorno dopo ricominciavamo.
L’immane, portentoso viaggio non è in fondo che una serie sterminata di corti tragitti, ognuno dei quali era proporzionato L’arrivo a Champigny. (Fot. Branger, Paris) alle energie nostre e della macchina. Il nostro viaggio è sopra tutto una gigantesca catena di pazienze. Non calcolavamo mai quanta strada ci mancava da fare, ma quanta strada avevamo fatta. Cercavamo le cifre che potevano incitarci, e nei nostri conti eravamo così cauti che ci siamo poi accorti d’aver percorso molto più cammino di quanto credevamo.
Abbiamo quasi certamente sbagliato il calcolo delle distanze nella Mongolia e nel deserto di Gobi, dove camminavamo a buon passo dalle dodici alle quattordici ore al giorno. Consideravamo di precorrere dai duecento ai trecento chilometri ad ogni giornata di marcia, e nell’Europa occidentale, andando alla stessa velocità, abbiamo constatato che nel medesimo tempo si percorrono circa cinquecento chilometri. Rimane dunque ancora ignota l’esatta cifra totale dei chilometri da noi coperti. La supponiamo superiore ai tredicimila. Ma lasciamo volentieri l’incognita. Non torneremo certo a riprendere le misure....
La vicinanza di Parigi ci sorprende, ci stordisce, ci commove, anche per la rapidità fantastica con la quale Parigi giunse davanti a noi. Negli ultimi giorni non avevamo avuto il tempo di abituarci all’idea dell’arrivo. Le estreme provincie russe, la Germania, il Belgio, la Francia passarono come un sogno. C’erano voluti dodici giorni a percorrere i primi mille chilometri: volammo gli ultimi mille in due giorni e mezzo.
Ma le ultime ore ci sembrano eterne. Ore di gioia, ma anche ore di angoscia. Un’angoscia sottile, vaga, inesprimibile, che ci rende silenziosi e ci dà tutte le apparenze esterne della tristezza.
Nella mattinata del 10 Meaux è stata invasa da un piccolo esercito di automobili. Ad ogni minuto ne arrivavano: di grandi, di piccole, alcune imbandierate, altre coperte di caratteri cubitali con nomi di giornali: una ha portato i corrispondenti della stampa italiana; varie rappresentavano l’Automobile Club di Francia. Suonavano trombe, sirene, strepitavano motori, e la gente si accalcava sulla via, nel cortile dell’albergo, nel garage. La nostra macchina era invisibile, rinchiusa in un magazzino sulla cui porta la curiosità della folla s’infrangeva.
Alle due e un quarto passano degli ordini. Delle vetture si mettono in moto. Vi è un momento di concitazione: si parte.
Ettore lega i bagagli sul cassone della nostra automobile, con la cura che ha sempre messo in quest’importante operazione da quando la valigia del Principe si perdè nel deserto di Gobi. Fa salire la pressione nel serbatoio della benzina; gira la manovella della messa in azione; il motore prende vita rumorosamente. Sediamo ai nostri posti. Borghese mette in moto la vettura, e lentamente usciamo sulla via. Tutta Meaux è là.
L’automobile passa a stento fra la gente che acclama. Le finestre sono gremite di signore che gettano sulla nostra macchina fiori a fasci. Un hurrah continuo corre con noi, ci accompagna fino all’uscita del paese, dove prendiamo la testa del corteggio. Le prime a seguirci sono le automobili, dei giornalisti parigini che ci hanno accompagnato da Berlino e che ci staranno vicino fino all’arrivo.
Aumentiamo la velocità. Superiamo in dieci minuti i dieci chilometri che ci separano da Couilly. Passiamo Crécy alle due e tre quarti, e poco dopo attraversiamo Lagny. Alle tre Chelles. Borghese non rallenta più, neppure nei punti in cui la strada si fa meno buona. A che pro risparmiare la macchina? Siamo quasi arrivati!
Parigi è a trenta chilometri.
È a venti.
È a dieci.
Per tutto saluti, applausi, sventolìo di fazzoletti. Borghese sorride; non più col suo abituale enigmatico sorriso di cerimonia, ma con un sorriso spontaneo. Il suo freddo e mirabile controllo su se stesso non è buono a reprimere la contentezza che è in lui, e che si apre la via in quel sorriso.
I villaggi si succedono senza interruzione. Cominciano ad essere veri sobborghi di Parigi. Molta gente che aspetta ci guarda con aria interrogativa, come per chiederci: “Siete voi?„ — non sapendo quale, fra tante, sia la vettura del principe. La maggioranza conclude che non è certo quella avanti a tutte, così disadorna. E sono i nostri compagni di viaggio, i colleghi della seconda vettura, che spesso sono fatti segno alle clamorose dimostrazioni della folla. A Bry una grossa popolana aspetta sulla via con un enorme mazzo di fiori, e, prese bene le sue misure, lo lancia coscienziosamente sul petto dell’eminente collega Enrico Des Houx gridandogli: À vous, Monseigneur!
Avvicinandoci a Joinville anche in aperta campagna, lungo i filari degli alberi, vi è gente che si affolla, venuta dalle ville dei dintorni, e che ci saluta con un entusiasmo sempre più grande ed espansivo. I carrettieri gridano: Bravo mon gars! — A Saint Maurice troviamo il passaggio a livello chiuso per il treno, ci fermiamo alcuni minuti. I gendarmi debbono tener lontana dall’automobile la calca. Traversiamo il bosco di Vincennes: molti ciclisti si sono uniti al corteo delle automobili e precedono la nostra macchina a rischio di esserne schiacciati. Gridiamo loro di stare attenti, quando si avvicinano troppo alle ruote; per risposta essi agitano i berretti urlando: Vive le prince!
Da ogni parte udiamo il grido di viva. Gli omnibus, i trams ai fermano e i passeggeri in piedi battono le mani. Un temporale si avvicina. Il cielo si è ricoperto di nuvoloni neri che salgono incalzandosi: ma la folla non si dirada. A Saint Mandé comincia a piovere, e l’acqua non ci lascia più. Partimmo con la pioggia da Pechino: dovevamo arrivare con la pioggia a Parigi.
Nel corso di Vincennes ci fanno fermare ancora: siamo in anticipo sull’ora fissata per il nostro ingresso. I ciclisti improvvisatisi in scorta d’onore sono aumentati al centinaio e fanno intanto delle fantastiche evoluzioni intorno a noi: siamo circondati da un intreccio di ruote in movimento.
Alle quattro una strana macchina compare da Parigi e si mette in testa al corteggio. È una di quelle gigantesche automobili a venti o trenta posti che servono a portare in giro le carovane di touristes desiderosi di visitare Parigi in poche ore. Vi è allocata una fanfara armata di lunghe trombe e di tube, ed è sormontata e circondata da trofei e fasci di bandiere francesi e italiane: un carro un po’ da Mi-Carême, ma che è sembrato indispensabile per aggiungere solennità all’arrivo. La fanfara intona la marcia trionfale dell’Aida: è l’entrata di Radamès a Parigi. Continuiamo a inoltrarci: sono le quattro e un quarto.
Sbocchiamo nell’Avenue du Trône, fra le due gigantesche colonne di Filippo Augusto le cui basi sono nascoste dalla calca. In fondo, nel velo della pioggia, ci appare la torre Eiffel, Essa Passando sul ponte di Joinville. (Fot. Branger, Paris). ci fa pensare a un faro portentoso: il grande faro del nostro viaggio.
L’evviva diviene clamoroso, intenso, continuo. In qualche istante di calma udiamo voci sonore di camelots che offrono in vendita cartoline-ricordo al grido di: Le prince Borghèse, quatre sous! Quatre sous, le prince Borghèse!
I cordoni di guardie messi lungo il boulevard Voltaire non riescono a trattenere la moltitudine, che ci circonda, ci fiancheggia, ci segue. Borghese fa con la mano cortesemente cenno di scostarsi per non cadere sotto le ruote: la sua mano è afferrata da un operaio che la stringe effusamente, poi da altri, è trattenuta, tirata; tutti vogliono serrarla e la serrano con energica cordialità. Non senza una certa lotta Borghesi riesce a liberarla da quel terribile ingranaggio di simpatia, e a riportarla salva sul volante.
Sulla Piazza della Repubblica sono schierati due plotoni della Guardia repubblicana a cavallo, che vengono a piazzarsi uno avanti e uno dietro al corteggio. Vediamo gli elmi rilucere sulla enorme distesa di popolo, agitati dal caracollare delle cavalcature.
All’ingresso del boulevard Saint-Martin il saluto diviene acclamazione: è un tuono di voci. Il grido di Vive Borghèse si ripete, si perpetua. Borghese è per un giorno l'idolo di Parigi di questa città generosa che non può amare senza passione. Il colpo d’occhio che l’ampia strada presenta è superbo; i due alti marciapiedi a balaustrata sono neri di popolo e sopra le teste è un turbinio di mani, di cappelli, di fazzoletti, e di ombrelli. Di ombrelli anche, perchè seguita a piovere con accanimento. Ettore è commosso, inebriato, e si sbraccia a contraccambiare saluti con gesti espressivi. Delle popolane gridano in argot nomi carezzevoli. All’angolo del boulevard Saint-Denis una donna si spinge avanti portando in braccio il suo bambino al quale fa battere le mani.
Andiamo a passo lentissimo, col terrore che possa avvenire qualche sciagura: le ruote dell’automobile strisciano sulle gambe della folla. Al boulevard Bonne Nouvelle la dimostrazione continua intensa: scrosciano i battimani, e la parola Borghèse unita ai vive e ai bravo forma ormai l’unico vocabolario dell’entusiamo.
Intravvediamo sul boulevard Poissonnière schiere di agenti della sûreté e plotoni di guardie repubblicane che sbarrano il transito davanti ad un palazzo stranamente dipinto di rosso e imbandierato. È il palazzo del Matin.
È il punto d’arrivo.
La nostra lunga corsa sta per finire.
Le guardie repubblicane, facendo impennare i cavalli, compiono rapide evoluzioni sgombrando dalla folla lo spazio, che è subito invaso da una quantità di fotografi. Anch’essi fanno le loro evoluzioni per scegliere i migliori punti di vista, scansando nello stesso tempo le zampe dei cavalli. Alcuni cinematografisti ritraggono la scena dell’arrivo girando gravemente le manovelle dei loro apparecchi, e ci gridano a squarciagola: “Guardate l‘obbiettivo!„
L’automobile, dietro le indicazioni di un membro del Comitato della corsa, gira lentamente, salta con mollezza sul marciapiede, avanti all’ingresso del Matin....
Siamo arrivati.
Borghese toglie la comunicazione del cambio e dà un colpo di freno.
L’automobile è ferma.
La corsa è finita.
Questo istante è per noi di una solennità ineffabile.
L’ovazione della folla è alta e piena. Noi rimaniamo seduti ai nostri posti, confusi, storditi.
Io che sto assiso dalla parte del montatoio e dovrei per il primo mettere il piede a terra, non so decidermi a scendere. Ho per alcuni istanti la sensazione che quello che vedo sia un’allucinazione, un sogno. Mi pare tutto impossibile, assurdo. Non posso persuadermi che siamo giunti alla fine, veramente giunti. Mi sento inerte, e con gesto meccanico fumo continuamente una sigaretta spenta da lungo tempo. Mi volgo a guardare Borghese: egli sta ancora con le mani sul volante, nell'atteggiamento nervoso che aveva durante le piccole fermate, quando si teneva pronto a ripartire.
— Venez! Venez! — ci gridano dalla soglia del Matin.
Allora salto a terra, quasi risvegliandomi. Un urlo d’entusiasmo passa come un uragano. Mi sento abbracciare e baciare, e riconosco nell’espansiva persona che mi riceve così il solenne guardaportone del Matin, che non ha più potuto contenere la sua commozione, e si è slanciato.
Ci sentiamo trascinare nell’interno del palazzo in mezzo ad un clamore assordante. Una musica suona la marcia reale italiana. Rivedo dei colleghi, degli amici, e stringo le loro mani senza poter parlare. Non so come, ci troviamo fasci di rose sulle L’arrivo al Matin. (Da una eliotipia F. La Delry, Parigi) braccia. La folla di fuori urla, e il suo ruggito di tempesta copre alle volte le note della musica. Il popolo chiede di rivedere le prince, e Borghese è spinto sul balcone, si affaccia, saluta graziosamente tenendo in mano un gran mazzo di fiori. Si stappano bottiglie di champagne, si pronunciano discorsi, si fanno dei brindisi. Siamo fotografati al magnesio con e senza fiori.... E poi quel che è avvenuto io non so. Mi sono allontanato, quietamente, e ho avuto la felicità di rientrare ignorato tra la folla, abbandonando il Principe alle sofferenze della popolarità. Qualche ora dopo per i boulevards, che avevano ripreso la loro fisionomia abituale, i camelots vendevano ancora la cartolina ricordo, ma gridavano: Le prince Borghèse, un sou!
Non più quattro soldi, ma uno. Quale grave ammonimento in quella riduzione di prezzo! La voce della fatalità può uscire qualche volta anche dalla gola d’un camelot. La nostra popolarità era ribassata del settantacinque per cento in due ore.
Sic transit....